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Il monachesimo benedettino. Origini, tradizioni e cultura
la comunità. In passato, oltre al lavoro di copiatura dei codici, erano molto impor-
tanti soprattutto i lavori agricoli, di artigianato, di vettovagliamento a sostegno della
comunità monastica, il tutto sotto la tutela dell’abate.
Questo obbligo risponde a due esigenze. La prima è di carattere penitenziale:
nella società antica e alto medievale i lavori manuali sono svolte per lo più da schiavi
o da persone di basso rango, mentre i nobili normalmente non lavorano. Nel mona-
stero benedettino, invece, tutti lavorano e si impegnano: all’interno della comunità,
infatti, non ci sono differenze di stato sociale o di provenienza. Viene poi soddisfatta
una seconda esigenza, quella di rendere il più possibile autonomo il monastero, viste
le condizioni di insicurezza esistenti fuori del monastero e le precarie condizioni
dell’economia di scambio che caratterizzano i secoli dell’alto Medio Evo. Se pensia-
mo che l’Europa occidentale, fino a circa l’XI secolo, subisce gli attacchi di Ungari
e Saraceni, e che ogni signore rurale difende a malapena durante questi momenti la
propria casa, possiamo immaginare quale sia il destino di molti monasteri e delle
popolazioni rurali, completamente prive di ogni protezione.
Il tipo di lavoro che coinvolge il monastero è soprattutto di carattere agricolo,
e questo comporta che i signori feudali donino porzioni dei loro territori ai monaste-
ri, per permetterne il sostentamento. In cambio i monaci assicurano ai loro benefat-
tori le
loro preghiere e le loro messe, dopo la morte dei donatori stessi.
I lavori agricoli sono durissimi. L’unica forza motrice è quella di buoi o di ani-
mali da soma, mentre il grano può essere macinato, nella migliore delle ipotesi, nei
mulini ad acqua. La terra produce poco: l’aratro asimmetrico viene introdotto solo
dopo il Mille, come anche l’uso del cavallo per tirarlo, al posto del bue: fu modificato
anche l’attacco dell’animale dal collo al petto, con evidente sollievo per l’animale e
con rendimento maggiore della produzione agricola.
I monasteri, cellule sociali autarchiche, sono quindi centri di lavoro locale,
vere e proprie aziende agricole e artigianali, le cui rendite terriere sono a volte ve-
ramente notevoli. Così il lavoro è parte integrante del monastero, ed i monaci e i
conversi, loro aiutanti, si impegnano nel lavoro come parte integrante della loro vita
claustrale. Dal momento che il lavoro entra nel cuore stesso della
Regola, ed è posto
accanto alla preghiera con pari dignità, esso è innalzato a strumento di salvezza, di
purificazione, di santificazione. In tal senso, si trova forse qui, rispetto alla nostra
sensibilità, il punto più rivoluzionario e moderno della
Regola benedettina: il lavoro
ha un legame indissolubile con la
preghiera, e quest’idea contribuisce molto alla
grande diffusione dell’intuizione benedettina. Il lavoro è un mezzo di salvezza, da al-
ternare con la preghiera, da vivere come una preghiera. In tal senso, cristianizzando
la realtà del lavoro, san Benedetto ha un’intuizione che produce effetti incalcolabili.
Tutte le attività umane infatti non sono accessorie, ma necessarie al conseguimento
della salvezza. Come i canti e i salmi recitati in coro sono l’aspetto laudativo della
vita dei cristiani-monaci, così il lavoro è l’aspetto faticoso, doloroso, penitenziale
della preghiera, ma non per questo meno nobile agli occhi di Dio.
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Fabio Cusimano
Come si vede il messaggio è di sorprendente attualità: non viene messo il la-
voro al di sopra di tutto, ma neanche si vive fuori della realtà e dell’impegno sociale.
San Benedetto tenta, con la sua
Regola, di trovare un punto di equilibrio tra attività
e contemplazione.
L’ospitalità
Un altro degli aspetti del monastero era (e lo è tutt’oggi) il dovere di ospita-
lità. Queste imponenti costruzioni, fortificate ed edificate in luoghi isolati, sono dei
veri e propri punti di riferimento per i tanti disperati del Medio Evo: poveri, malati,
stranieri, pellegrini che tornano o si recano ai tanti santuari della cristianità. Ciò è
possibile proprio per la natura stessa della comunità cenobitica e del monastero,
dove autarchia, indipendenza sociale e capacità di ricezione sono presenti in un’u-
nica struttura fisica, umana e spirituale. A tale scopo vengono istituite nei monasteri
alcune strutture apposite destinate ad ospiti, benefattori in visita, poveri e pellegrini.
È lo stesso abate ad avere il dovere di accogliere personalmente i pellegrini che, a
proprio rischio e pericolo, percorrono le strade verso i luoghi santi.
L’apertura alla
hospitalitas si è conservata nei monasteri fino ai nostri giorni,
cosicché chi vuol passare qualche giornata di riposo e di spiritualità assieme ai mo-
naci, può sempre attingere a momenti comuni di preghiera o di fraternità.
C’è l’esigenza spirituale di accogliere in quegli eremi sperduti persone di ogni
genere, di ogni estrazione sociale e di provenienza, per accoglierle nel cenobio come
fratelli. E in tempi difficili come quelli in cui nascono i monasteri benedettini, qual-
cuno che accolga le persone sbandate, sole o povere è veramente raro: l’accoglienza
di tutte le persone è il segno tangibile del distacco da se stessi per accogliere il Cristo
e
mettersi alla sua sequela, la
sequela Christi.
Le ondate monastiche
Un’altra caratteristica peculiare del monachesimo, sia occidentale che orien-
tale, è quello di nascere in un luogo dove un santo o un asceta forma una piccola
comunità, per poi spostarsi, in cerca di solitudine, oppure in cerca di altri luoghi
da evangelizzare. Limitandoci al monachesimo occidentale, vediamo san Patrizio
che da
Lerinum, vicino a Nizza, si porta in Irlanda e la evangelizza, fondando un
monastero nei pressi di Belfast. Il suo discepolo più importante, san Colombano,
dall’Irlanda si muove verso l’Europa
continentale, per
fondare nuovi monasteri ed
evangelizzare i popoli, spingendosi fino in Svizzera ed in Italia; qui fonda rispettiva-
mente i monasteri di S. Gallo e di Bobbio. Anche una generazione dopo, san Boni-