Biblioteca dell’officina di studi medievali



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Manuela Girgenti
la consapevolezza di una giustizia ingiusta non ledono tanto il concetto del diritto in 
sé, quanto il suo attuarsi e rivelarsi nel rapporto tra autorità e diritto e, in particolare, 
nell’eterna e mai superata lotta tra le esigenze di libertà e di sviluppo della collettivi-
tà in tutte le sue componenti sociali e gli opportunismi e gli interessi di quelle caste 
o minoranze che occupano il potere in tutte le sue forme istituzionali.
Nulla esprime meglio dei vecchi detti proverbiali la sfiducia del popolo nei 
confronti dello Stato, del diritto e delle istituzioni in genere. La certezza del diritto, 
al di là delle mere dichiarazioni di principio, si traduce, spesso, nella parzialità del 
diritto, dove di fatto ogni forma di egualitarismo o di assoluta imparzialità viene 
calpestata. L’ingiustizia nella società, come è evidente , è dunque un problema anti-
co. Già per i sofisti, «il giusto non è altro se non l’utile del più forte» e, in maniera 
ancora più chiara, aggiungono «che ogni governo emana appunto le leggi conformi 
al proprio utile».
4
 Trasimaco non ha dubbi nell’affermare che
ogni governo stabilisce le leggi in base al proprio utile; e una volta che le han-
no stabilite proclamano ai sudditi che il proprio utile è giusto e puniscono chi 
le trasgredisce come persona che viola le leggi e commette ingiustizia. Il giusto 
è, dunque, l’interesse del potere costituito. Esso ha dalla sua la forza, tanto che 
il giusto si identifica ovunque con l’interesse del più forte.
5
E Ippia aggiunge che «la legge, che è tiranna degli uomini, forza contro la 
natura molte cose»
6
 e, pertanto, ne deriva che non hanno senso le distinzioni che 
dividono i cittadini di una città da quelli di un’altra, né le distinzioni che all’interno 
delle singole città possono ulteriormente dividere cittadino da cittadino, mostrando, 
nel contempo, un ideale cosmopolita ed ugualitario, che per la grecità era non solo 
nuovissimo, ma rivoluzionario.
7
Platone, poi, sull’onda dello sdegno per la notizia della condanna a morte di 
Socrate non esitò ad ammettere in preda allo sconforto che «la giustizia consiste 
essenzialmente nel giovare agli amici e danneggiare i nemici».
8
Da questi giudizi non si discosta molto Erodoto, secondo il quale «la città 
umana è cattiva e ingiusta per sua essenza e che in tutte le forme con le quali si pre-
senta (monarchia, aristocrazia, democrazia) non rispecchia che una unica e identica 
realtà: la realtà del potere dispotico».
9
«Come non potrebbe essere così? – risponde Clinia all’Ateniese, quando nel 
4
 M. u
nteRsteineR
 (a cura di), Sofisti. Testimonianze e frammenti, fasc. III, Firenze 1967, p. 35.
5
 P
Latone
Repubblica, a cura di E. V. Maltese, Newton, Roma 2005, 338c.
6
 i
D
., Protagora, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, 337d.
7
 G. R
eaLe
I problemi del pensiero anticovol. I, Milano 1972, p. 252.
8
 P
Latone
Repubblica, cit., 334a.
9
 a. K
oyRè
Introduzione a Platone, Firenze 1973, p. 252.


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Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale
corso del dialogo gli chiede: forse, pensi, che quando una democrazia, o una qual-
siasi altra costituzione, o un tiranno, risultino vittoriosi fisseranno di loro spontanea 
volontà delle leggi che innanzitutto non mirino a nient’altro se non al vantaggio di 
mantenere a se stessi il comando?».
10
 È un argomento sul quale, per Platone, occor-
re riflettere molto, poiché «in quello stato in cui la legge sia comandata e priva di 
autorità, in quel luogo vedo che la rovina è imminente: laddove, invece, detenga il 
potere assoluto sui governanti, e i governanti siano asserviti alla legge, intravedo la 
salvezza, e tutti quei beni che gli dei affidarono agli stati».
11
Bisogna, quindi, stare molto accorti nello scegliere gli uomini a cui affidare le 
sorti dello Stato, poiché, «se si è giovani, irresponsabili e stolti non esiste natura d’ani-
ma mortale che possa mai reggere il supremo potere fra gli uomini»,
12
 ma, viceversa, 
una città sarà ben governata «se i governanti saranno ricchi non di oro, ma della ric-
chezza che deve possedere l’uomo felice, ossia di una vita onesta e saggia. Ma  ri-
badisce ancora una volta – se le cariche pubbliche sono occupate da individui poveri 
e affamati di proprietà privata, che pensano di dovere ricavare il proprio guadagno, 
questa possibilità non  potrà sussistere, in quanto il potere diventa oggetto di contesa e 
una simile guerra intestina e civile manda in rovina loro e il resto della città».
13
In realtà, fu proprio la condanna a morte di Socrate, “il migliore degli uomini e 
il più sapiente”, che spinse Platone ad allontanarsi dalla politica; non solo, ma anche 
a consigliare al filosofo «di evitare la strada per la piazza e di non conoscere né dove 
si trova il tribunale, la sede del consiglio, né di alcun altro consesso della città»
14
 Ma 
non era una strada né un consiglio praticabile. Platone si rese ben conto che il saggio 
non poteva vivere isolato come un eremita o dedicarsi alla contemplazione senza 
alcun rapporto con i suoi simili. Solamente gli animali possono vivere all’interno 
di una foresta o in solitudine, ma non certamente l’uomo che è un essere sociale. E, 
allora, come trasformare la città iniqua e ingiusta, riformandola in maniera tale che 
le sue istituzioni, le sue leggi possano assicurare ad ogni cittadino il rispetto verso 
il suo prossimo, il culto della virtù e l’amore per il sapere? La risposta per Platone è 
semplice. Occorre uno Stato nel quale i suoi governanti si propongano di impartire 
ai propri cittadini “una educazione permanente”, mediante la traccia delle leggi, im-
ponendo che la condotta sia conforme ad esse e punendo, per raddrizzarlo, chi se ne 
discosta.
15
 Ma c’è di più. Poiché tra politica e filosofia c’è una perfetta connessione, 
10
 P
Latone
Leggi, a cura di E. V. Maltese, Newton, Roma 2005, IV, 714d.
11
 Ibid., 715d.
12
 Ibid., III, 691c.
13
 i
D
., Repubblica, cit., 521.
14
 p
latone
Teeteto, a cura di  E. V. Maltese, Newton, Roma 2005, 173d.
15
 M. v
aGetti
Protagora, autore della Repubblica, in G. C
aseRtano
 (a cura), Il Protagora di 
Platone: struttura e problematiche, Napoli 2004, pp. 145-58.


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