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Manuela Girgenti
di politica; egli, infatti, è inesperto delle azioni della vita, ed i ragionamenti di
questa scienza procedono da queste e vertono intorno a queste. Inoltre, essen-
do incline a seguire le passioni, ascolterà invano ed inutilmente, poiché il fine
della politica non è la conoscenza, ma l’azione. E nulla importa che sia giovane
per età o giovanile di carattere, giacché il difetto non è dovuto al tempo, ma
ha la sua causa nel vivere secondo passione e nel perseguire qualunque tipo di
cosa si presenti. Per le persone di questo genere, infatti, la conoscenza è inutile,
come lo è per gli intemperanti.
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Per quanto concerne, infine, il concetto di giustizia, Aristotele appare lontano
anni luce dalla sensibilità moderna. Non solo sostiene la superiorità dell’uomo sulla
donna e, di conseguenza, giudica del tutto normale che il primo comandi e che l’al-
tra, in quanto inferiore, venga comandata, ma giustifica a pieno titolo la schiavitù,
giudicando la subordinazione una necessità naturale, poiché è giusto che gli uomini
migliori, capaci di dominare gli istinti bestiali, abbiano a loro sottomessi quelli dotati
più di forza fisica e quindi idonei a servire come schiavi.
Comandare e essere comandato – sostiene Aristotele – non sono solo tra le
cose necessarie, ma anzi tra le giovevoli e certi esseri, subito dalla nascita,
sono
distinti, parte a essere comandati, parte a comandare […] quindi quelli
che differiscono tra loro quanto l’anima dal corpo o l’uomo dalla bestia (e si
ritrovano in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle
forze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre) costoro sono per natura
schiavi, e il meglio per essi è star soggetti a questa forma di autorità.
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Già nel mondo antico, dunque, molti filosofi, pur riconoscendo l’inadeguatezza
del loro sistema giuridico e della gestione del potere, più che mettere in luce i difetti del
loro sistema politico e giuridico, hanno preferito disegnare un loro modello politico,
descrivendo come – a loro modo di vedere – dovrebbe essere idealmente uno stato mo-
dello. La conclusione è stata che focalizzando la loro attenzione sulle utopie politico-
istituzionali, hanno finito col trascurare le storture esistenti, consentendo nel tempo a
queste ultime di accreditarsi di legittimità e di rafforzarsi all’interno del tessuto sociale.
Sotto questo aspetto, la visione filosofica-politica di Epicuro è scevra da una
visione ottimistica della natura umana. Per quest’ultimo, gli uomini che si dedicano
alla politica sono mossi esclusivamente dal desiderio di potenza, ricchezza e gloria. Di
conseguenza, il diritto, le leggi e la giustizia non hanno come fine il benessere colletti-
vo, ma unicamente il vantaggio di pochi. Epicuro, infatti, tiene a sottolineare che se lo
Stato avesse come fine ultimo l’affermazione dei valori morali e la tutela di ogni singo-
lo uomo, ci troveremmo di fronte a un diritto universalmente valido per ogni popolo.
31
a
RistoteLe
,
Etica Nicomachea, a cura di M. Zanatta, Bur, Milano 2002, 1194b-1195.
32
i
D
.,
Politica, cit., I, 1254a-b.
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Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale
«Nell’aspetto generico – scrive Epicuro – il diritto è uguale per tutti, perché è qual-
che cosa di utile nei rapporti socievoli; ma, per le particolari differenze dei vari luoghi e
d’ogni maniera di condizioni, ne consegue che non il medesimo è per tutti il diritto».
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«Ridicola giustizia – scriverà molti secoli dopo Pascal – limitata da un fiume!
Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là […] Che c’è di più ridicolo di questo: che
un uomo abbia il diritto di uccidermi solo perché abita sull’altra riva e perché il suo
sovrano è
in lite col mio, sebbene io non ne abbia alcuna con lui».
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La giustizia, di conseguenza, non ha una valenza universale, ma relativa, che
sembra avere principalmente come fine il raggiungimento dell’utile per una ristret-
ta casta. Con una visione assolutamente rivoluzionaria, per i tempi, sono stati gli
stoici a coltivare una visione meta politica e universalistica del diritto. Vi è, infatti,
in questi ultimi, una maggiore attenzione al concetto di diritto naturale, sviluppato
in chiave razionalistica, nel senso che per loro «la legge umana non è altro che l’e-
spressione di una legge naturale eterna, che nasce dal
logos stesso che plasma tutte
le cose, il quale, in virtù della sua razionalità, stabilisce ciò che è bene e ciò che è
male e, dunque, impone obblighi e divieti».
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La simbiosi fra diritto naturale e retta ragione si traduce, così, in un diritto
universale, dove, affermando l’uguaglianza fra tutti gli uomini, non trova più giusti-
ficazione la distinzione fra nobili e plebei o fra uomini liberi e schiavi. L’idealismo
degli stoici, che affrontava il problema delle leggi e dello Stato in una prospettiva
essenzialmente etica, cozzava però contro una realtà nella quale «operavano per-
sonaggi senza scrupoli, magari abili nell’arte retorica e nella manipolazione delle
coscienze, ma spinti da scopi utilitari e di affermazione personale».
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In sintesi, il pensiero politico dello stoicismo trovava la sua radice nella centra-
lità del concetto di diritto, un concetto che si diffonderà in ampi strati dell’elite intellet-
tuale romana, da Seneca a Marco Aurelio, e in particolare in Cicerone, secondo il quale
la legge di natura, o legge della ragione, è eterna e immutabile e vale per tutti gli uomini
e tutte le latitudini. Solo la legge di natura, per Cicerone, incarna la giustizia ed è su-
periore a tutte le leggi umane positive.
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Ma se le leggi sono generalmente poste da chi
detiene il potere, da dove vengono le leggi cui dovrebbe obbedire lo stesso governante?
Il dilemma è solo apparente, poiché, sottolinea Bobbio, le risposte date dagli antichi
a questa domanda hanno messo in evidenza che «oltre alle leggi poste dai governanti
vi sono altre leggi che non dipendono dalla volontà dei governanti e sono o le leggi di
natura, derivate dalla stessa natura dell’uomo vivente in società, oppure le leggi la cui
33
e
PiCuRo
,
Massime capitali, a cura di E. Bignone, Laterza, Roma-Bari 2007, n. 37.
34
B. P
asCaL
,
I pensieri, Milano 1966, pp. 294-295.
35
G. R
eaLe
,
I problemi del pensiero antico, cit., p. 303.
36
G. M
aGLio
,
L’idea costituzionale nel Medioevo, cit., p. 11.
37
C
iCeRone
,
De legibus, Zanichelli, Bologna 1985.