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Manuela Girgenti
la distinzione a noi ben nota fra la nozione di diritto pubblico e quella di diritto
privato viene di fatto ignorata o comunque non tematizzata dalla riflessione
greca; è prevalente una visione unitaria della vita sociale dove il cittadino e
lo Stato non si contrappongono in separate sfere di competenza ma in sostan-
za si identificano in una visione organica. Quando pertanto riflettiamo sulla
presenza di un’idea costituzionale, quale principio regolativo dei rapporti fra
il cittadino e lo Stato, in Platone o in Aristotele, dobbiamo evitare l’errore
di pensare in termini giuridici: l’affermazione della centralità delle leggi non
significa ancora che la
politeia, termine aristotelico che possiamo rendere con
costituzione vigente in una determinata polis, sia l’atto giuridico fondamentale
di un ordinamento tale da consentire dei meccanismi di controllo. È quest’ul-
tima un’idea moderna, ancora lontana dalla cultura e dalla sensibilità dei greci
che conoscono un solo modo per opporsi alle leggi che appaiono ingiuste: il
rovesciamento del sistema
politico che impone l’osservanza di quei precetti
contro la volontà dei cittadini, ossia il rovesciamento del regime dispotico. Si
tratta di una convinzione che il pensiero medievale farà propria.
26
Infatti – sostiene lo Stagirita – «quando le costituzioni mirano all’interesse co-
mune sono giuste in rapporto al giusto assoluto, quando, invece, mirano solo all’in-
teresse personale dei capi sono sbagliate tutte e rappresentano una deviazione dalle
rette costituzioni».
27
Il diritto, dunque, è inteso come il principio ordinatore della comunità statale e
la giustizia come determinazione di ciò che è giusto. Ad Aristotele, d’altra parte, non
interessa tanto indicare
un sistema politico ideale, quanto di
mettere a confronto aspetti
positivi e negativi delle costituzioni del suo tempo e, per quanto ci riguarda, individuare
la validità di un sistema legislativo capace di frenare gli egoismi di chi detiene il potere
e di far progredire ogni componente della comunità verso la felicità e il bene.
A tal fine si chiede: «è più conveniente essere governati dall’uomo migliore o
dalle leggi migliori?».
28
Aristotele non ha alcun dubbio nell’affermare che una socie-
tà può progredire verso il bene solamente quando è governata dalle leggi migliori,
perché la legge è immune dai sentimenti, non si piega ad interessi di parte e non muta
col mutare dei governanti.
«Ciò che non ha affatto
– sostiene – l’elemento affettivo è meglio di quel che
lo ha per natura: ora la legge non possiede tale elemento, mentre ogni anima umana
lo ha necessariamente».
29
A ulteriore sostegno di questa tesi aggiunge:
26
G. M
aGLio
,
L’idea costituzionale nel Medioevo, cit., p. 6.
27
a
RistoteLe
,
Politica, a cura di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 2002, I, 1253a.
28
Ibid.,
III, 1286a.
29
Ibid.
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Il concetto di giustizia nell’età antica e medievale
la legge, data una conveniente istruzione, impone ai magistrati di giudicare
ed amministrare il resto secondo il parere più giusto; inoltre dà loro la pos-
sibilità di introdurre quell’emendamento che ad essi, dopo varie esperienze,
sia sembrato migliore dalle disposizioni stabilite. Quindi chi raccomanda il
governo della legge sembra raccomandare esclusivamente il governo di dio e
della ragione, mentre chi raccomanda il governo dell’uomo, v’aggiunge anche
quello della bestia, perché il capriccio è questa bestia e la passione sconvolge,
quando sono al potere anche gli uomini migliori. Perciò la legge è ragione
senza passione.
30
È vero, la legge non ha passione;
lex, dura lex recita un vecchio adagio; ma
Aristotele lascia insoluto il problema di fondo: se sono i governanti a stabilire le
leggi e se i magistrati possono apportare emendamenti ad esse, in base all’esperien-
za acquisita, quali garanzie hanno i cittadini in merito alla bontà del loro fine? Ma
ancora. Esiste un uomo, pur saggio, che non cede mai al capriccio, alla passione o,
in parole povere, ricco solo di ragione, ma povero di sentimenti? In tal caso, non
avremmo
mai un uomo, ma un essere che di umano ha ben poco.
In merito a tale questione lo Stagirita non entra nel merito, ma si limita ad
aggirare il problema, prospettando due soluzioni che nella realtà non danno alcuna
garanzia alla comunità in merito all’imparzialità della legge e al rispetto della dignità
e libertà di ogni cittadino da parte dei governanti. Nella prima è dell’idea che sotto il
profilo giuridico ogni comunità faccia riferimento al diritto naturale, le cui consue-
tudini, essendo per tradizione condivise dalla società in cui si vive, appaiono indi-
pendenti dal capriccio dei governanti e rispecchiano maggiormente gli interessi della
collettività. Come seconda alternativa non vede altra soluzione che quella di affidare
ad un uomo, universalmente riconosciuto come il più saggio, il compito di stilare un
ordinamento legislativo a cui tutti, governanti e cittadini, dovranno sottostare. Ma,
in particolare, nel merito, il concetto di fondo è quello di seguire la retta ragione e di
educare le giovani generazioni nel culto della tradizione, ma, soprattutto, a coltivare
la virtù; strumenti, questi ultimi, che certamente potrebbero contribuire a ridurre
al minimo il pericolo di scosse o sconvolgimenti politici e sociali. Fra l’altro, le
perplessità di Aristotele su tale argomento appaiono ancora più evidenti nell’Etica
Nicomachea,
quando sostiene che
le cose moralmente belle e le cose giuste, intorno alle quali verte la politica,
hanno molta diversità ed instabilità […] ciascuno giudica bene le cose che co-
nosce e di questo è buon giudice. Di conseguenza in ogni settore è buon giudi-
ce chi in esso si è acculturato, ed è buon giudice in assoluto chi si è acculturato
in ogni campo. Per questo il giovane non è un ascoltatore adatto delle lezioni
30
Ibid.,
1287a.