Simone Adolphine Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) è stata una filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla vasta produzione saggistico-letteraria



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Pensiero [modifica]




Frontespizio del volume di scritti storici e politici weiliani raccolti da Albert Camus.


Filosofia [modifica]


Nel saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale la Weil considera il potere che viene esercitato dalle autorità sugli individui come un derivato della medesima forza presente in natura. La società è una trasposizione della necessità che in natura opprime gli esseri umani, e quanto più una società è tecnicamente avanzata, tanto più gli individui sono schiacciati da una forza assimilabile a quella di un cataclisma naturale. Di Marx ella apprezza le intuizioni riguardanti le dinamiche sociali, ma lo critica per non aver sviluppato sino in fondo l'analisi delle forme di oppressione.[132]

La posizione etica fondamentale della Weil è, infatti, di mettersi costantemente dalla parte degli oppressi; in tale prospettiva matura anche la sua critica al marxismo, di cui rifiuta la concezione materialista, la riduzione delle idee all'espressione di un gioco di forze e la fiducia che gli ingranaggi sociali, se lasciati alle loro leggi materiali, producano necessariamente il bene.[78] Non a caso le suscita entusiasmo la descrizione tragicomica della catena di montaggio, che trasforma in meccanismi gli stessi operai, nel film Tempi moderni.[133] Nell'articolo Sulle contraddizioni del marxismo scrive di Marx:



« Si è lasciato andare, lui, il non conformista, a un inconsapevole conformismo alle superstizioni più infondate della sua epoca, cioè il culto della produzione, il culto della grande industria, la credenza cieca nel progresso. Ha così fatto al contempo un grave torto durevole e forse irreparabile – in ogni caso difficile da riparare – allo spirito scientifico e allo spirito rivoluzionario. Credo che il movimento operaio nel nostro Paese recupererà vitalità solo se cercherà di attingere, non dico delle dottrine, ma una fonte di ispirazione in ciò che Marx e i marxisti hanno combattuto e così follemente disprezzato: in Proudhon, nelle forme di organizzazione operaia del 1848, nella tradizione sindacale rivoluzionaria, nello spirito anarchico. Quanto a una dottrina, solo l'avvenire, nel migliore dei casi, potrà fornircene una; non il passato.[134] »

Ella abbraccia l'idea – che Marx, insieme a Engels, ha condannato ne L'ideologia tedesca – secondo cui la storia coincide con l'esercizio della forza.[132] E scrive in seguito: «Non possiamo attaccarci al passato senza attaccarci ai nostri delitti».[135] Contro il necessitarismo storico la pensatrice riafferma, recuperando Platone, che, nel regno spirituale, dal male non può nascere il bene, e che l'umanità, nella sua lontananza dalla perfezione divina, è in sé misera e limitata e quindi non può autoredimersi attraverso la dialettica materialista.[78] La Weil aggiunge, ironicamente, che la tortura ideale da infliggere a un marxista sarebbe pretendere da lui una definizione comprensibile di cosa sia il materialismo dialettico.[47]

Nel saggio L'Iliade o il poema della forza ella rileva che il potere della forza, riducendo gli uomini a cose, «pietrifica diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano».[133] Qualunque esercizio del potere è un tentativo di fronteggiare i meccanismi della necessità, e anzi di piegarli ai propri scopi, ma questo conduce inevitabilmente alla follia: le illusioni umane non possono opporsi alla necessità che opera attraverso la natura; quando teorizzano di farlo – come nel caso del marxismo e dell'hitlerismo – la storia non viene trasformata né la condizione umana liberata, ma vieppiù costretta e disumanizzata dalla soffocante burocrazia statale.[136] L'idolatria del potere sorta con l'impero romano ha raggiunto piena espressione nel totalitarismo di Hitler, passando per lo statalismo di Richelieu.[137] La stessa pensatrice, in quanto francese, avverte la propria colpa storica rispetto a Hitler, conseguenza logica – secondo lei – del colonialismo e dello sciovinismo della Francia.[138] L'imperialismo afferma il proprio dominio grazie agli effetti della crudeltà; esso emula goffamente il potere della natura, sottomettendo gli animi con i mezzi più freddi, ipocriti e spietati, e gli individui non possono reagire perché atterriti dalla sensazione di trovarsi di fronte a una fatalità, cieca e insensibile come le forze della natura.[137]

Il potere è anche lo scopo dei partiti politici, impegnati a forgiare un'immagine idolatrica di se stessi onde tiranneggiare, una volta ottenuto il dominio, gli altri partiti e l'intera società. Nel Manifesto per la soppressione dei partiti politici la Weil ritiene che la loro eliminazione possa evitare il totalitarismo, esemplificato dal caso della Germania nazista: una fazione al comando e quelle avversarie in prigione. Qualsiasi democrazia governata dai partiti non può sottrarsi al rischio che uno di essi la distrugga. I partiti sono per loro natura forme di criptotirannia, che competono per emergere l'uno sull'altro: la loro politica non può rispecchiare di meglio che la legge della giungla, e ogni negoziazione cela secondi fini. La pensatrice individua come unica alternativa – tanto al dispotismo dei partiti, quanto allo statalismo da lei condannato ne La prima radice – la volontà generale teorizzata da Rousseau. La politica deve diventare, come anche l'arte, anonima, e veicolare la fratellanza.[139] Il dovere di coloro che si pongono al servizio della volontà generale è «rimanere in certo qual modo anonimi, pronti a mescolarsi in qualsiasi momento con l'umanità comune».[140] Difatti, un amore anonimo è per ciò stesso universale.[141] L'arte autentica, poi, ha una missione sacra: insegna l'indifferenza del tempo e dello spazio, e rende consapevoli della nostra sottomissione alla necessità:[142]


« Un'opera d'arte ha un autore, e tuttavia, se essa è perfetta, possiede qualcosa di essenzialmente anonimo. Essa imita l'anonimato dell'arte divina.[143] »



Il Concerto interrotto di Tiziano. Simone Weil portò con sé una copia di questo dipinto dal viaggio in Italia, verso la quale mantenne un sentimento di nostalgia.[74]

Il vero artista dunque non si affida all'immaginazione – che è fallace, perché rappresenta un «me dentro di me» – ma lascia entrare la grazia attraverso la contemplazione.[144] Come Hannah Arendt, la Weil scorge nella bellezza la manifestazione più pregnante con cui l'essere si rivela, la forma che ci invita ad amarlo; ma occorre tracciare una distanza dall'oggetto amato, per lasciarlo com'è, senza volontà d'impadronirsene.[145]

In sintonia con Edward Carr, la Weil non concepisce la finalità morale in termine di diritti, bensì di doveri.[146] In quest'ottica si colloca una affermazione contenuta nei Quaderni, «Non credere di avere dei diritti», ispiratrice di parte del femminismo italiano,[147] che invita a cogliere il valore delle differenze a partire da quella femminile, anziché accanirsi a rivendicare l'uguaglianza, pur nell'attenzione a tutte le disparità che, producendo squilibri, sollecitano la costruzione di ponti e mediazioni.[148] Bisogna riconoscersi in dovere verso ciascun individuo, e verso l'essere umano in quanto tale: da qui il sottotitolo de La prima radice, che intende preludere a una «dichiarazione dei doveri verso la creatura umana». Tali doveri debbono essere indipendenti dagli usi e dalle convenzioni, e derivare dai «bisogni vitali» di ogni singola persona,[149] nella consapevolezza che «mettere la verità prima della persona è l'essenza della bestemmia»,[150] secondo la tesi già espressa dalla pensatrice nel saggio La persona e il sacro.[149] Ella presenta i bisogni dell'animo come una sequenza di antonimie pitagoriche in reciproca armonia: sicurezza e rischio, uguaglianza e gerarchia, libertà e ubbidienza etc. Tra questi bisogni figura anche la «punizione», ma con la precisazione che essa dovrebbe colpire chi è al vertice, e non al fondo, della scala sociale. Dopo aver constatato lo sradicamento (déracinement) dei bisogni vitali nella società contemporanea, la Weil auspica il loro radicamento (enracinement) su un nuovo terreno che veda recuperato l'ideale dell'armonia cosmica.[151]

La pensatrice ritiene che l'intelligibilità dell'universo sia l'unica vera dottrina greca, e che meriti di essere salvata. In altre parole, ella associa il genio greco alla capacità di vedere l'universo come un numero, un logos (λόγος), da cui trarre elementi per la conoscenza delle cose, determinate o indeterminate, situate sotto il medesimo tetto della necessità:[152]


« La cieca necessità, che ci trattiene con la coercizione e che ci appare nella geometria, è per noi qualcosa da vincere; per i Greci era una cosa da amare, poiché Dio stesso è l'eterno geometra.[153] »

La scienza dovrebbe quindi essere, come la religione, un cammino verso Dio:[154] «Una scienza che non ci accosta a Dio non vale niente».[155] La Weil considera l'inimicizia fra scienza e religione «lo scandalo del pensiero moderno»,[152] perciò rimprovera a Cartesio l'idea del progresso, da lei definita «il veleno della nostra epoca». La scienza dovrebbe accettare i propri limiti, non avere velleità di dominio sulla natura né presumere di riuscire esaustiva, perché il suo compito è l'amore contemplativo del divino.[156] Una nuova scoperta, o la soluzione di un problema, vanno semplicemente attese. La ricerca, invece, porta all'errore.[157] Ella sottoscrive la massima di Bacone secondo cui «la natura può essere vinta solo ubbidendole» (Natura non nisi parendo vincitur),[158] e ritiene che «questa formula così semplice dovrebbe costituire da sola la Bibbia della nostra epoca».[159] La pensatrice – la cui filosofia della scienza verrà pressoché ignorata – vorrebbe istituire una scienza cristiana,[160] o meglio, fondata su quel che lei chiama «un cristianesimo incarnato»:

« L'incarnazione del cristianesimo implica una soluzione armoniosa del problema dei rapporti fra individuo e collettività. Armonia in senso pitagorico: giusto equilibrio dei contrari. È precisamente di questo che gli uomini hanno sete oggi.[161] »



Francobollo commemorativo con in calce la frase: «L'attenzione è la sola facoltà dell'anima che dà accesso a Dio». La Weil, caratterizzata da una esigenza di verità dedicata più all'attenzione che al progetto,[162] affermò, fino agli ultimi giorni, di provare «una lacerazione che si aggrava incessantemente, nell'intelligenza e contemporaneamente al centro del cuore, dovuta all'incapacità in cui mi trovo di pensare insieme nella verità la sventura degli uomini, la perfezione di Dio e il legame tra le due».[163]



Armonia dei contrari è l'amicizia,[164] ma è anche conoscere la realtà della guerra, che si rivela «la realtà più preziosa da conoscere, poiché la guerra è l'irrealtà stessa».[165] Se si è obbligati a farla, la guerra non può essere a scopo di libertà, mentre può risultare onorevole una guerra senza coscritti, combattuta da volontari che liberamente scelgono di rischiare la propria vita,[166] afferma la Weil, ammorbidendo con il tempo la posizione pacifista delle proprie Riflessioni sulla guerra. È significativo, in proposito, che ella definisca Lawrence d'Arabia come «l'unico, famosissimo personaggio storico, non dico dei nostri tempi, ma di tutti i tempi a me noti, che io amo e ammiro con tutto il cuore».[167] Il buon patriottismo, per lei, non può trarre espressione dalla burocrazia statale, ma coincide con l'amore per l'intera umanità.[168]

Teologia mistica [modifica]


Nella meditazione di Simone Weil – sviluppatasi sotto la disciplina del vuoto, o distacco (détachement), da formare dentro di sé per lasciare spazio alla verità[169] – è centrale il problema della tormentata relazione fra l'anima e Dio:

« Iddio pena, attraverso lo spessore infinito del tempo e della specie, per raggiungere l'anima e sedurla. Se essa si lascia strappare, anche solo per un attimo, un consenso puro e intero, allora Iddio la conquista. E quando sia divenuta cosa interamente sua, l'abbandona. La lascia totalmente sola. Ed essa a sua volta, ma a tentoni, deve attraversare lo spessore infinito del tempo e dello spazio alla ricerca di colui ch'essa ama. Così l'anima rifà in senso inverso il viaggio che Iddio ha fatto verso di lei. E ciò è la croce.[170] »

La creazione è stata, per lei, una «follia» di Dio.[96] Egli, per darci spazio, ha rinunciato a se stesso, limitandosi tanto da privarsi di una parte dell'essere: «Ha potuto creare solo nascondendosi. Altrimenti ci sarebbe stato egli solo».[171] Dio, come uno schiavo, si è incatenato alle leggi di necessità, che gli impediscono di intervenire nel mondo.[96] Il mondo è dominato dalla forza, e la cultura stessa è fondata sulla forza; questa forza è la materia, l'orrore senza nome che tutto schiaccia.[172] L'oggettività mostruosa del lavoro di fabbrica è una forma moderna ed estrema delle leggi meccaniche dell'universo, come la guerra e la malattia, sulle quali Dio non interviene.[96] La Weil ritiene che la verità definitiva possa esserle rivelata, appunto, solo in «una delle forme estreme della sventura presente»:[173]

« La guerra è sventura, ed è tanto difficile dirigere volontariamente il pensiero verso la sventura quanto persuadere un cane, non preliminarmente addestrato, a camminare in un incendio e a lasciarsi carbonizzare. Per pensare la sventura è necessario portarla nella carne, profondamente conficcata, come un chiodo, e portarla a lungo, affinché il pensiero abbia il tempo di temprarsi abbastanza per guardarla. [...] Grazie a questa immobilità il granello infinitesimale d'amore divino gettato nell'anima può crescere a piacimento e portare frutti nell'attesa [...]. Felici coloro per i quali la sventura entrata nella loro carne è la sventura del mondo stesso nella loro epoca.[174] »



L'abbazia di Solesmes, uno dei luoghi del pellegrinaggio spirituale della Weil.



Di fronte al dramma delle creature Dio tace, e il suo silenzio, colmo di significati, è la sua unica parola, tanto da spingere la Weil a preferire «la sua assenza alla presenza di chiunque altro». Ma nell'incarnazione e nell'abbandono di Cristo sulla croce, Dio stesso ha sofferto la condizione tragica dell'uomo.[175] La sventura (malheur, traducibile anche in «sofferta infelicità»)[176] dell'essere umano è dover soggiacere a meccanismi fatali che gli impongono – oltre al dolore e all'umiliazione – il marchio della colpa, sicché «Dio ha dovuto incarnarsi e soffrire, per non essere inferiore all'uomo»; Cristo è «il giusto disprezzato, flagellato, abbandonato anche dagli dei».[177] Nello strazio di Gesù, che grida «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», la Weil individua «la vera prova che il cristianesimo è qualcosa di divino».[178] Difatti, se l'anima emette quel grido e ancora non smette di amare, essa può trascendere la sventura, la gioia e la sofferenza, per accedere all'amore di Dio, giacché nel profondo della sventura splende la misericordia divina.[179] È la medesima «intuizione precristiana» espressa dall'autore dell'Iliade, che, descrivendo la guerra e con essa un terrificante assetto della realtà,[180] «ha amato abbastanza Dio per avere questa capacità. È questo infatti il significato implicito del poema e l'unica sorgente della sua bellezza; ma non è stato affatto capito».[181] La materia e la necessità, la gravità e la pesantezza (pesanteur), sono opera di Dio, dunque l'ordine della natura merita di essere amato per la sua armonica obbedienza a Dio:[182]

« Imitare la bellezza del creato, adeguarsi all'assenza di finalità, di intenzioni, di discriminazione, significa rinunciare alle nostre intenzioni, alla nostra volontà. Essere perfettamente obbedienti significa essere perfetti come è perfetto il nostro padre celeste.[183] »

Per ricongiungersi a Dio, l'uomo è chiamato, a milioni d'anni dalla creazione, a compiere una nuova «follia»: immolarsi e accettare la propria sventura sino in fondo, affinché Dio possa donargli «la pienezza dell'essere».[184] Accettare significa trasformare; significa trasfigurare la sofferenza in sacrificio che redime,[185] nell'ammissione che «la nostra vita è impossibile [...]. Siccome siamo creature siamo contraddizione; perché siamo Dio e, al tempo stesso, infinitamente altro da Dio».[186] La gratitudine, la compassione, l'amicizia, l'amore per la bellezza del creato, sono sentimenti sovrannaturali, «follie» protese a Dio.[187] L'uomo è venuto al mondo unicamente per consentire a rinnegare se stesso e cedere il passo all'amore di Dio, che è amore di Dio per Dio medesimo, perché «Dio solo è capace di amare Dio».[188] Per tale ragione Cristo ha sentenziato che dobbiamo rinunciare a noi stessi: «Dio si è negato in nostro favore, per offrirci la possibilità di rinnegarci per lui».[189] La nozione di «decreazione» (décréation) – che sembra avere come fonte la Cabala,[190] sconosciuta però alla Weil[191] – risulta centrale nella riflessione più matura della pensatrice, che si apre alla prospettiva di un volontario annullamento dell'io e del sé personale,[192] pur senza una abdicazione al «noi» collettivistico:

« La perfezione è impersonale [...] Tutto lo sforzo dei mistici è sempre stato volto a ottenere che non ci fosse più nella loro anima nessuna parte che dicesse "io". Ma la parte dell'anima che dice "noi" è ancora infinitamente più pericolosa.[193] »

A questa inesausta meditazione si accompagna il sempre più vivo interesse della Weil per la drammaturgia dell'antica Grecia, come testimonia l'impegno da lei profuso nella stesura e ristesura – fino agli ultimi mesi di malattia[83] – dell'opera Venezia salva, rimasta incompiuta,[194] che avrebbe dovuto riprendere «la tradizione della tragedia di cui l'eroe è perfetto».[195] Ella scorgeva in Dioniso e Osiride[196] – oltre che in Prometeo, «il dio crocifisso per aver amato troppo gli uomini»[197] – delle prefigurazioni di Cristo, ed era solita ripetere a se stessa il verso πάθει μάθος (pàthei màthos, «impara attraverso la sofferenza») dell'Agamennone di Eschilo,[198] auspicando una rinascita del teatro greco, poiché vedeva nella tragedia antica la forma più adatta a riflettere il sacro[83] e nelle opere del passato un'ispirazione tesa a «far spuntare le ali contro la forza di gravità», secondo le parole di Platone.[199]

In parallelo al recupero della «fonte greca» si sviluppa il suo interesse per la lingua occitana, specchio di una terra dove la vocazione ellenica aveva ritrovato la propria perfezione nel catarismo, un cristianesimo più greco che ebraico. Denis de Rougemont definisce, in proposito, la lirica occitana come il «linguaggio mascherato del manicheismo gnostico».[200] La religione catara esprime per la Weil, oltre a un bisogno di purezza, «l'orrore della forza fino alla pratica della non violenza e fino alla dottrina che fa derivare dal male tutto quanto appartiene al dominio della forza, cioè tutto ciò che è carnale e tutto ciò che è sociale».[201] Per lei, conoscere e rifiutare la forza è espressione dello stesso coraggio sovrannaturale che contraddistingue l'ispirazione greca,[190] il che vuol dire, come a chiudere il cerchio, «spingersi lontano, ma non più lontano del Vangelo».[202]


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