Salvatore D’Agostino
La Sicilia di Federico III d’Aragona
Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’ io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice
(D
ante
,
Purg., III, 112-117)
Morto Federico II Hohenstaufen (1250), Imperatore del Sacro Romano Impe-
ro d’Occidente e
Rex Siciliae, lo scontro tra i due poteri universali, impero e papato,
non si placò.
La sua morte, infatti, avrà un grande riverbero sui successivi sviluppi degli
equilibri politici in Europa e nel mediterraneo.
Secondo le disposizioni testamentarie dell’imperatore svevo, alla sua morte,
il figlio Corrado avrebbe dovuto assumere sia il titolo imperiale che quello di
Rex
Siciliae e, Manfredi, principe di Taranto, sarebbe divenuto vicario dell’Impero e reg-
gente in Sicilia.
Papa Innocenzo IV, approfittando della delicata situazione interna del regno,
sempre particolarmente turbolente a causa della rissosa e insoddisfatta nobiltà regni-
cola, intervenne cercando di trovare una soluzione, a lui favorevole, alla successione
del
trono di Sicilia, da sempre considerato feudo del papato.
Il pontefice, infatti, avviò una serie di trattative diplomatiche, con le più im-
portanti corti europee, alla ricerca di un nuovo sovrano per l’Italia meridionale.
La prima scelta cadde su Riccardo di Cornovaglia, fratello di re Enrico III
d’Inghilterra e
successivamente su suo figlio, Edmondo di Lancaster.
Intanto veniva anche sondata la disponibilità di Carlo d’Angiò, fratello di Lu-
igi IX il Santo, re di Francia.
Le trattative tra la corte papale e quella inglese si protrassero per lungo tempo
senza mai riuscire a giungere ad un accordo definitivo.
Intanto, Manfredi, nel 1258, approfittando della favorevole situazione, si face
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cercando conforto in Dio dalle mondane tribolazioni, entrati in un tempio a
pregare, nel tempio, nei dì sacri alla passione di Cristo, tra i riti di penitenza
e di pace, trovarono più crudeli oltraggi. Gli scherani del fisco adocchian tra
loro i debitori delle tasse; strappanli a forza dal sacro luogo; ammanettati li
traggono al carcere, ingiuriosamente gridando in faccia all’accorrente molti-
tudine: «Pagate, paterini, pagate». E il popolo sopportava. Il martedì appresso
la pasqua, cadde esso a dì trentuno marzo, una festa si celebrò nella chiesa di
Santo Spirito. Allora brutto oltraggio a libertà fu principio; il popolo stancossi
di sopportare. Del memorabil evento or narreremo quanto gli storici più degni
di fede n’han tramandato [...] Per questo allor lieto campo, fiorito di primavera,
il martedì a vespro, per uso e religione, i cittadini alla chiesa traeano: ed eran
frequenti le brigate; andavano, alzavan le mense, sedeano a crocchi,
intreccia-
vano lor danze: fosse vizio o virtù di nostra natura, respiravan da’ rei travagli
un istante, allorchè i famigliari del giustiziere apparvero, e un ribrezzo strinse
tutti gli animi. Con l’usato piglio veniano gli stranieri a mantenere, dicean essi,
la pace. A ciò mischiavansi nelle brigate, entravano nelle danze, abbordavan
dimesticamente le donne: e qui una stretta di mano;
e qui trapassi altri di li-
cenza; alle più lontane, parole e disdicevoli gesti. Onde chi pacatamente am-
monilli se n’andasser con Dio senza far villania alle donne, e chi brontolò; ma
i rissosi giovani alzaron la voce sì fieri, che i sergenti dicean tra loro: «Armati
son questi paterini ribaldi, ch’osan rispondere»; e però rimbeccarono ai nostri
più atroci ingiurie; vollero per dispetto frugarli indosso se portasser arme; altri
diede con bastoni o nerbi ad alcun cittadino [...] In questo una giovane di rara
bellezza, di nobil portamento e modesto, con lo sposo, coi congiunti avviavasi
al tempio. Droetto francese, per onta o licenza, a lei si fa come a richiedere
d’armi nascose; e le dà di piglio; le cerca il petto. Svenuta cadde in braccio
allo sposo; lo sposo, soffocato di rabbia: «Oh muoiano, urlò, muoiano una
volta questi Francesi!». Ed ecco dalla folla che già traea, s’avventa un gio-
vane; afferra Droetto; il disarma; il trafigge; ei medesimo forse cade ucciso
al momento, restando ignoto il suo nome, e l’essere, e se amor dell’ingiuriata
donna, impeto di nobil animo, o altissimo pensiero il movessero a dar via così
al riscatto. I forti esempi, più che ragione o parola, i popoli infiammano. Si
destaron quegli schiavi del lungo servaggio: «Muoiano, muoiano i Francesi!»
gridarono; e ‘l grido, come voce di Dio, dicon le istorie de’ tempi, eccheggiò,
per tutta la campagna, penetrò tutti i cuori. Cadono su Droetto vittime dell’una
e dell’altra gente: e la moltitudine si scompiglia, si spande, si serra; i nostri con
sassi, bastoni, e coltelli disperatamente abbaruffavansi con gli armati da capo a
piè; cercavanli; incalzavanli; e seguiano orribili casi tra gli apparecchi festivi,
e le rovesciate mense macchiate di sangue. La forza del popolo spiegossi, e
soperchiò. Breve indi la zuffa; grossa la strage de’ nostri: ma eran dugento i
Francesi, e ne cadder dugento. Alla quieta città corrono i sollevati, sanguinosi,
ansanti, squassando le rapite armi, gridando l’onta e la vendetta: «Morte ai
Francesi!» e qual ne trovano va a fil di spada. La vista, la parola, l’arcano lin-
guaggio delle passioni, sommossero in un istante il popol tutto. Nel bollor del
tumulto fecero, o si fece dassè condottiero, Ruggier Mastrangelo, nobil uomo: