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bile nemmeno l’operis novi nunciatio iuris publici tuendi gratia di cui si
è appena parlato (d. 43.21.3.8). inoltre tali lavori di purgatio e refectio
di rivi, specus, septa o dello stesso fons erano tutelati in via interdittale,
nel senso che il pretore proibiva a chiunque di usare la violenza per
impedire al privato interessato allo scorrimento dell’acqua in un rivus
pubblico o privato, di liberare con il proprio intervento i condotti
ostruiti (d. 43.21.1 ss.; d. 43.21.3.4; d. 43.22.1 ss.).
2. ancora più rilevante è l’apporto di conoscenze fornito dalle fonti
giustinianee sulla disciplina privatistica attinente alle infrastrutture pri-
vate della rete idrica cittadina.
com’è noto, la conduzione privata di acqua pubblica presupponeva
una concessione del princeps trascritta sui registri imperiali dei benefi-
cia e, almeno all’epoca di Frontino, rigorosamente personale (Frontin.
107). ma, per l’età severiana, il giurista Ulpiano documenta l’ammissi-
bilità di concessioni reali, cioè inerenti al fondo e, come tali, automati-
camente trasmissibili con esso, sia in caso di morte del concessionario
che di vendita del suo edificio (d. 43.20.1.43). Forse proprio a seguito
di tale innovazione divenne più frequente nel iii secolo la pratica di
iscrivere sulle fistulae private che collegavano il pubblico serbatoio di
distribuzione (castellum publicum) alle abitazioni private, il nome del
primo concessionario: l’iscrizione, infatti, contribuiva ad identificare
l’edificio privato a cui, indipendentemente dai passaggi di proprietà,
l’acqua veniva condotta, così come accadeva per gli stessi fondi, che ve-
nivano usualmente identificati proprio dal nome del loro primo titolare
(es. fundus Titianus, Cornelianus etc.). in ogni caso la giurisprudenza
del iii secolo sottolinea a più riprese che le fistulae e le altre infrastrut-
ture dell’approvvigionamento idrico cittadino, anche se materialmente
separate dall’edificio di riferimento, ne erano tuttavia parte integrante
dal punto di vista giuridico se ad esso funzionalmente e perpetuamen-
te collegate: non potevano dunque essere oggetto di autonomi atti di
disposizione senza la cosa principale. Questo spiega ulteriormente la
pratica delle iscrizioni sulle fistulae del nome del titolare.
al concessionario dello ius aquae competeva, com’è noto, la tutela
interdittale, che lo legittimava a chiedere al pretore di bloccare d’auto-
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rità chi gli usasse violenza per impedirgli di derivare acqua dal castel-
lum publicum secondo le modalità previste dalla
permissio imperiale (d.
43.20.1.38 ss.). se poi il terzo giustificava tale comportamento addu-
cendo il fondato timore di subire danni a seguito dell’opera intrapresa
dallo stesso concessionario sul condotto di sua proprietà (es. uno sca-
vo), a quest’ultimo il pretore imponeva di promettere alla controparte
di risarcire qualunque danno da quell’opera fosse eventualmente deri-
vato (cd. cautio damni infecti).
come è testualmente prescritto nell’edictum Augusti de aquaeductu
Venafrano ll. 47-48, le
fistulae private correvano preferibilmente sotto la
strada pubblica, ma non era escluso che dovessero attraversare un fondo
privato, il che obbligava il concessionario alla costituzione di apposita
servitù. in entrambi i casi, comunque, la conduzione d’acqua poteva
rivelarsi dannosa a terzi, come nel caso di crepe o fori nelle tubature che
provocassero perdite e allagamenti nei fondi confinanti.
di tali pericoli e delle forme di cautela previste dal diritto romano
a favore dei vicini, trattano alcuni testi del digesto, anch’essi in genere
tralasciati dalla letteratura sul tema.
innanzitutto un testo di paolo tratto dal xvi libro ad Sabinum (d.
43.8.5) accenna a una non ben identificata tutela giudiziaria già pre-
vista dalle xii tavole a favore del privato danneggiato da un condotto
d’acqua corrente su suolo pubblico.
inoltre un frammento di proculo tratto dal v libro delle epistulae
(d. 8.5.13) stabilisce che il privato il cui muro venisse inondato da un
flusso d’acqua proveniente dalla pubblica via per la rottura della fistula
di un concessionario, potesse esercitare contro quest’ultimo l’azione cd.
negatoria servitutis, volta ad accertare l’assenza a suo carico di una ser-
vitus fluminis (ius mihi non esse flumina ex meo in tuum parietem fluere)
e, conseguentemente, a condannare il convenuto al risarcimento del
danno.
in secondo luogo, per opere di qualunque tipo intraprese dal con-
cessionario per la salvaguardia dei propri condotti correnti su suolo
pubblico, il vicino timoroso di un danno poteva cautelarsi in via d’ur-
genza pronunciando la operis novi nunciatio con l’effetto di bloccare
temporaneamente i lavori, rimettendo la denuncia (remissio nunciatio-
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nis) nel solo caso di promessa del concessionario al risarcimento di qua-
lunque possibile danno futuro (cautio damni infecti: d. 39.2.15.2 ss.;
d. 39.2.9.1; d. 39.2.24 pr.).
ho presentato qui una breve rassegna di problemi, ciascuno dei qua-
li meriterebbe autonoma trattazione, ma che spero sia stata utile a mo-
strare quanto le fonti giuridiche, in particolare privatistiche, possano
contribuire a chiarire il contesto sia delle scoperte archeologiche che
delle fonti letterarie sugli acquedotti romani.
lauretta maganzani