S giovanni bosco


IV. Ludovico il Moro e Carlo VIII



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IV.
Ludovico il Moro e Carlo VIII (126).

(Dall’anno 1495 all’anno 1510).

Mentre Cristoforo Colombo acquistava nuova gloria alla Italia colla scoperta del Nuovo Mondo, molti bellicosi avvenimenti agitavano i popoli italiani.

Vi ricorderete che nella vittoria riportata dal conte di Carmagnola a Maclodio fu vinto altresì un generale di nome Francesco Sforza, figliuolo di un condottiere chiamato Attendolo. Ora avvenne che in quei tempi la guerra ardeva in vari paesi d’Italia, e Francesco Sforza, il quale aveva sposato la figliuola dell’ultimo duca di Milano Filippo Maria Visconti, dopo di essersi acquistato il nome di grande guerriero, approfittò dell’occasione in cui per la morte del duca i Milanesi eransi eretti in repubblica, per presentarsi alle porte della città alla testa della formidabile sua banda. In breve si rese padrone di Milano, prendendo il titolo di duca, che nessuno osò contendergli.

Francesco Sforza ebbe un lungo e glorioso regno, durante il quale seppe farsi onorare e temere dai suoi sudditi. Alla morte lasciò la corona ducale a suo figliuolo Galeazzo Maria, che dopo un regno poco onorevole di dieci anni fu ucciso da tre congiurati. Erano già cinquant’anni che quella stirpe di avventurieri stava al possesso del ducato di Milano, allora che Giovanni Galeazzo Maria venne chiamato al trono dopo di lui in età di otto anni. Uno zio di quel giovine principe detto Lodovico il Moro, a cagione della sua pelle abbronzata che gli dava aspetto di un africano, si offrì di governare il Milanese, finché suo nipote fosse in istato di regnare da sé.

Ma Lodovico era ambizioso e crudele. Geloso di vedere il titolo di duca portato da un fanciullo, formò il disegno di rapirgli il trono, e salirvi in sua vece; e poiché non ignorava quanto i Milanesi amassero il loro principe a cagione della sua innocenza e della sua gioventù, né avrebbero tollerata una tale ingiuria, cercò di suscitare turbolenze in Italia. Per riuscire poi ne’ suoi perversi disegni fece segretamente proporre al re di Francia, che si chiamava Carlo VIII, di venire a conquistare il regno di Napoli, su cui quel re pretendeva di avere alcuni diritti.....

Carlo accettò con piacere quella offerta, tanto più che il Moro prometteva di aiutarlo a conquistare quel regno, ove allora regnava un Principe di nome Ferdinando I. Ed ecco in breve un agguerrito esercito francese, traendosi dietro gran numero di cannoni l’uso dei quali era divenuto assai praticato in guerra, guidato dal medesimo Carlo VIII, giunse in pochi giorni alle porte di Milano, ove era aspettato con impazienza. Lodovico aveva fatto disporre tappezzerie e fiori lungo tutte le strade, per cui il monarca francese doveva passare, ed egli stesso si mosse incontro per riceverlo alla testa dei principali signori di sua corte.

Quell’uomo malvagio avrebbe voluto che suo nipote non si fosse abboccato con Carlo, e a questo fine lo teneva in certo modo prigioniero in Pavia, ove giaceva ammalato; ma il re andò egli stesso a visitarlo, e in questa occasione il duca raccomandò al re se stesso e i suoi figliuoli: la duchessa poi gettataglisi ai piedi lo supplicò di avere pietà dell’infelice suo marito e di tutta la sua famiglia. Carlo parve commosso dalle sue lacrime, la rialzò con bontà, e promise di non abbandonarli; ma per mala sorte quel re era leggiero e cupido solamente d’oro, perciò appena uscito di Pavia dimenticò le promesse. Nel giorno seguente si sparse la voce che Giovanni Galeazzo era morto avvelenato da suo zio, che fecesi proclamare nel medesimo istante duca di’ Milano. Quella morte improvvisa cagionò gran dolore al re Carlo, il quale non poté nascondere la sua avversione per Lodovico, creduto autore di quell’abbominevole delitto.

Il re di Francia per andare a Napoli doveva passare per la Toscana. Ivi incontrò gravissime difficoltà, e se fosse ancora stato in vita il valoroso Lorenzo de’ Medici forse avrebbe avuto la peggio; ma a lui era succeduto suo figliuolo di nome Pietro, il quale atterrito dalle crudeltà che i Francesi esercitavano, diede loro grande somma di danaro, e li fece padroni delle fortezze dello Stato. Il popolo sdegnato per tale debolezza lo scacciò dalla città.

Così i Francesi entrarono vittoriosi in Firenze. Entrato nella città il re fece convocare i primari cittadini, e loro propose dure condizioni di pace. Mentre il segretario del re leggeva quello scritto, un certo Pietro Capponi, trasportato dall’amor di patria, strappò di mano al segretario la carta, e la lacerò, esclamando: «Ebbene, quando è così, suonate pure le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane». Attonito il re a tanto coraggio, e da questo tratto argomentando la risoluzione degli altri, venne a più miti condizioni, e se ne partì contentandosi di alcuni sussidi.

Quasi senza contrasto riuscì a togliere dal trono il re Ferdinando, ed impadronirsi del suo regno; ma la cattiva condotta dei soldati francesi eccitò una indignazione universale. Parecchi principi italiani, il Papa, i Veneziani, Massimiliano re di Germania, Ferdinando il Cattolico, quel medesimo che aveva somministrato a Colombo le navi per la scoperta dell’America, lo stesso Lodovico il Moro si collegarono insieme per cacciare i Francesi d’Italia. Carlo VIII come seppe tal cosa risolse immediatamente di ritornare in Francia. Giunto a Fornovo incontrò l’esercito degli alleati. Ivi fu ingaggiata fierissima battaglia, che fu assai funesta ai Francesi. Costoro subirono gravissime perdite, e a stento il re riuscì a farsi strada in mezzo ai nemici, e condursi con una parte de’ suoi soldati in Asti, poscia in Francia.

Le cose furono per qualche tempo tranquille in Italia, finché un altro re di Francia di nome Luigi XII, successore di Carlo VIII, passò di nuovo le Alpi con un più formidabile esercito per vendicare le perdite del suo antecessore. Egli poté avanzarsi in Italia quasi senza contrasto; soltanto il duca di Savoia, di nome Carlo II (*) [(*) Leggi: Filiberto II (*)], avrebbe forse potuto impedire il passo a quel re straniero; ma o perché giudicasse di non aver forze bastanti, o perché desiderasse mantenere la pace tra’ suoi sudditi, o forse perché il re di Francia gli avesse promesso di dargli una parte della Lombardia, egli lasciò libero il passaggio delle Alpi. Si aggiunse che Lodovico il Moro per l’uccisione di Giovanni Galeazzo era caduto in odio a’ suoi sudditi, perciò quasi abbandonato dai suoi tentò invano di difendere il suo ducato. Egli fu vinto e fatto prigioniero a Novara nel momento medesimo, in cui travestito da fantaccino sperava di scappare dalle mani dei nemici. Così la città di Milano cadde in potere dei Francesi, e lo stesso Lodovico, che per ambizione era divenuto sì colpevole, fu mandato in Francia. Colà rimase dieci anni in penosa prigione, dove morì miserabilmente. Così quel principe, il quale aveva chiamato gli stranieri in Italia, ed aveva barbaramente fatto perire un suo nipote in prigione, dovette egli pure finire i suoi giorni fuori della patria, lontano da’ suoi parenti, eziandio chiuso in una prigione.

Durante le vicende tra i re di Francia e Lodovico il Moro visse un uomo che per la singolarità delle sue azioni merita di essere conosciuto nella storia. È costui Girolamo Savonarola, religioso domenicano a Firenze. Nell’occasione che nacquero discordie in quella città egli erasi posto a predicare la libertà, la riforma dei costumi e l’odio contro ai Francesi, protestando che sarebbero venuti in Firenze quei forestieri, se non secondavansi i suoi consigli. Grande folla di gente lo seguiva ovunque, e da molti era proclamato uomo santo e profeta.

Per tal modo sorsero due fazioni, di cui l’una assecondava il frate domenicano, l’altra lo osteggiava. Piagnoni appellavansi i suoi partigiani, ed erano per lo più gente del popolo; Arrabbiati i suoi avversari, uomini di condizione più elevata, ed amanti di un governo meno libero e popolare.

Ma dalla riforma dei costumi passando a volere la riforma della medesima Chiesa, fu dal Papa proibito di predicare. Egli tacque per qualche tempo, ma nella sua calda immaginazione, pensando di essere divenuto un uomo straordinario, invece di ubbidire, si pose a predicare contro il Papa.

Fu avvisato più volte, ma tutto invano, perché gli uomini, quando si lasciano dominare dalla superbia, difficilmente si mostrano sottomessi. Come il Savonarola protestava di essere innocente, così fu invitato al giudizio di Dio per dimostrare la sua innocenza colla prova del fuoco. La prova del fuoco, miei cari, cons6eva nell’accendere un gran rogo, ossia un gran fuoco, in mezzo a cui offrivasi di passare l’accusato. Se costui veniva risparmiato dalle fiamme era reputato innocente. Questa maniera di giudizio fu da molto tempo proibita dalla Chiesa, perché con essa si viene in certa maniera a tentar Dio, quasi obbligandolo ad operare un miracolo ove non apparisce il bisogno.

Venuto il giorno stabilito per provare l’innocenza del Savonarola, immensa folla di popolo riempiva la piazza destinata a quel pubblico spettacolo. Ma alla vista dell’ardente rogo, delle fiamme avvampanti, di tanto popolo accorso per essere spettatore di quel fatto maraviglioso, egli si spaventò, e non ardì lanciarsi tra le fiamme. Allora la plebaglia sfrenata si rivoltò contro al Savonarola, il fece trarre dal convento, e dopo di avergli fatto patire crudeli tormenti, venne condannato a morte e fu arso (anno 1498). Noi disapproviamo altamente questo furore di popolo, perciocché niun suddito deve attentare la vita altrui, ma attendere le pubbliche e legittime autorità che applichino le leggi secondo il bisogno.

In questo breve spazio di tempo sorse e cadde in Italia una potenza resasi assai formidabile. Cesare Borgia, più comunemente conosciuto sotto al nome di duca Valentino, aveva deliberato di abbattere i piccoli principi che signoreggiavano sugli Stati della Chiesa. Già era giunto a vincerli tutti quando, rientrando nello stesso tempo ciascuno ne’ proprii dominii, il nuovo regno fu interamente disfatto, e lo stesso duca Valentino, dopo di essere stato prigioniero del Papa Giulio II, fuggì a Napoli. In questa città essendo stato preso, fu condotto in Ispagna, ove morì combattendo pel re di Navarra.



V.
La Lega di Cambrai, la battaglia di Agnadello, di Ravenna, di Novara e di Marignano (127).

(Dall’anno 1509 all’anno 1514).

Venezia, miei cari, in quel tempo era divenuta la più potente repubblica d’Italia, perché era sempre stata governata dagli ottimati, e non era mai caduta nelle mani della plebe, come avvenne alle repubbliche di Firenze e di Genova. Ma nella stessa guisa che colui il quale trovasi nelle grandezze facilmente levasi in orgoglio, così i Veneziani, fidati nella loro potenza, vollero impadronirsi di parecchie città che appartenevano ad altri Stati. S’impadronirono di Rimini, Faenza, Cesena e Ravenna, spettanti alla Santa Sede; occuparono la Dalmazia, appartenente al patriarca di Aquileia; presero l’isola di Cipro, che doveva toccare al duca di Savoia. Di più eransi uniti coi Francesi per combattere contro Lodovico il Moro, a patto che loro fosse ceduta una parte della Lombardia. Insomma i Veneziani minacciavano di estendere il loro dominio oltre ogni diritto, appropriandosi città, paesi e provincie. Per la qual cosa l’Imperatore di Germania, il re di Francia, il re di Spagna ed il Sommo Pontefice Giulio II, a cui si unirono dipoi i Fiorentini, i duchi di Mantova, di Ferrara ed anche il duca di Savoia, si radunarono insieme nel 1508 e stabilirono una lega, vale a dire fecero un patto di aiutarsi a vicenda e combattere a forze unite contro i Veneziani. Il luogo dove si conchiuse quel patto fu la città di Cambrai, posta nei Paesi Bassi, onde quella convenzione prese il nome di Lega di Cambrai.

I Veneziani non s’impaurirono nel vedersi assaliti dagli eserciti di quasi tutta l’Europa.

Bartolomeo Alviano, generale della repubblica, sconfisse i Tedeschi e venne ad incontrare l’esercito francese guidato da quel medesimo Luigi XII, che alcuni anni prima i Veneziani avevano aiutato ad impadronirsi di Milano. I due eserciti si affrontarono ad Agnadello, villaggio del Milanese, vicino al fiume Adda. La battaglia fu sanguinosa; ma i Veneziani furono vinti. Allora parecchie città della Lombardia si sottomisero ai Francesi, e le città della Romagna aprirono le porte al primitivo loro padrone, al Romano Pontefice, la Puglia si diede agli Spagnuoli.

Ma l’invasione degli stranieri è sempre un flagello. I Francesi, abusando della vittoria, invece di sollevare gl’Italiani, ne divennero gli oppressori, rubando, uccidendo e dando il saccheggio alle case. Il sommo Pontefice Giulio II, vedendo tanta oppressione, e considerando che cotale ingrandimento di potentati stranieri nuoceva all’Italia, e troppo abbassava la potenza Veneta, reputata come il sostegno dell’Italia contro ai Turchi, si staccò dalla Lega di Cambrai e si unì coi Veneziani, col re di Spagna e con altri principi Italiani per opporsi a quelli stranieri divenuti i comuni nemici.

Dopo vari attacchi parziali si venne ad una battaglia campale alle porto della città di Ravenna. I Francesi, dopo aver toccato gravissime perdite colla morte del loro generale in capo, di nome Gastone di Foix, finalmente ottennero vittoria, senza per altro riportarne alcun frutto. Imperciocchè il duca di Milano, Massimiliano Sforza, figliuolo di Lodovico il Moro, aiutato da 20.000 Svizzeri, scacciò i Francesi dalla Lombardia. Intanto sopraggiungendo nuove forze ai Francesi e nuovi aiuti ai Veneziani, il duca di Milano e gli Svizzeri si videro costretti a rinchiudersi nella città di Novara, dove furono strettamente assediati.

Quegli Svizzeri erano uomini prezzolati, vale a dire combattevano per chi loro dava miglior paga, ma erano coraggiosi, e facevano prodigi di valore quando si trovavano a fronte del nemico. Al vedersi colà assediati, sul punto di mezzanotte, un piccol numero, senza cavalli e senza cannoni, esce con gran silenzio dalla città e marcia difilato contro alle batterie nemiche.

Queste erano difese da soldati tedeschi arruolati nell’esercito francese. Tra il buio della notte, interrotto solo dal fosco chiarore delle cannonate, si dà furioso assalto; furiosa ne è la resistenza. Al fine gli Svizzeri giungono ad impadronirsi delle artiglierie e le rivolgono contro agli stessi Francesi e contro ai Tedeschi, i quali, sbaragliati e confusi fuggono al di là delle Alpi (anno 1513). In questa guisa Novara fu liberata, e la Lombardia ritornò in potere di Massimiliano Sforza.

I Francesi non potevano darsi pace di tanta sconfitta; ed il successore di Luigi XII, che si chiamava Francesco I, uomo audace e cavalleresco, allestì un nuovo esercito per venire a ricuperare la Lombardia. Ma giunto alle Alpi trovò i più importanti passi occupati dagli Svizzeri che vantavansi di voler fare grandi prodezze contro i Francesi. Allora Giovanni Trivulzio, Milanese, che da gran tempo serviva la Francia, essendo pratico delle Alpi, le varcò al colle detto dell’Argentera, e calando per Val di Stura, giunse a Cuneo ed a Saluzzo, mentre gli Svizzeri stavano guardando invano tutti i passaggi che menano a Susa.

Prospero Colonna, generale del duca di Milano, stava con molte squadre senza alcun sospetto, a Villafranca, poco distante da Saluzzo, quando, sorpreso dal Trivulzio, fu fatto prigioniero con tutte le sue genti. Gli alleati allora indietreggiarono fino a Milano, ed il re, tenendo loro dietro, andò a piantare il suo campo vicino ad un villaggio, detto Marignano, adesso Melegnano, sulla strada di Lodi.

Gli alleati, giudicando pericoloso ogni indugio, escono di Milano, si dispongono a squadre, e fra grida festose assalgono il nemico.

Quell’assalto inaspettato divenne il segnale di un combattimento terribile e micidiale. Per due interi giorni si pugnò con eguale accanimento da una parte e dall’altra, e la sola oscurità della notte concesse ai due eserciti alcuni istanti di riposo. Il combattimento di Marignano fu detto la battaglia dei giganti, per gl’incredibili sforzi che vi fecero i due eserciti, i quali parvero talmente superiori al potere degli uomini ordinari, che i più valorosi cavalieri francesi che si erano trovati alle pugne di Agnadello, di Ravenna e di Novara, assicurarono di non avere nulla veduto di simile.

La vittoria, che si dichiarò alla fine pei Francesi, costò la vita a quindicimila svizzeri, e gli avanzi del loro esercito guadagnarono a precipizio le montagne, senza che i vincitori si dessero briga d’inseguirli, giacché il loro esercito era altresì quasi disfatto. Pochi giorni dopo quella splendida vittoria, che ripose il Milanese sotto al dominio della Francia, Massimiliano Sforza trovandosi nell’impossibilità di resistere ai nemici, acconsentì di uscire dalla cittadella di Milano, e si diede egli stesso al re francese. Questi usando degnamente della vittoria permisegli di ritirarsi in Francia, ove il lasciò godere della libertà e di un grado onorevole finché visse.

La battaglia di Marignano, giustamente celebre pel valore dei Francesi e degli alleati, fu l’ultimo combattimento cui diede motivo la Lega di Cambrai. Un trattato di pace, memorabile, conchiuso in una piccola città di Francia, detta Noyon (anno 1516), pose fine alle calamità senza numero, che le discordie fra il Sommo Pontefice e Venezia avevano per otto anni tirate addosso all’Italia.

Questa lunga e sanguinosa lotta non produsse altri effetti, se non quello di dare per un momento il Milanese al re di Francia, il quale non doveva a lungo conservarlo, e di restituire alla Santa Sede le città che le erano state tolte. Il regno di Napoli restò a Ferdinando il Cattolico, re di Spagna; Venezia poi, la cui prosperità ed ambizione avevano destata la gelosia di tanti re, continuò ad essere una delle repubbliche più ricche e più commercianti d’Europa. In grazia della moltitudine delle sue navi, del ricco suo arsenale e dell’attivo commercio dei suoi cittadini, colà si portavano le merci dell’Oriente, e soprattutto le spezierie, che si distribuivano dipoi nelle principali città d’Italia, di Germania e di Francia.




VI.
Secolo di Leone X. - Tartaglia, Bramante,

Buonarroti, Leonardo da Vinci (128).

Nel vedere l’Italia divenuta campo di tante guerre e di tanti disastri si direbbe che le belle contrade nostre fossero per ricadere in una barbarie simile a quella che aveva travagliata l’intera Europa dopo la caduta del Romano Impero. Tuttavia in mezzo a quelle lotte sanguinose, in mezzo a quei disordini interminabili, la Provvidenza suscitò un uomo, che la storia appella a buon diritto il Rigeneratore delle scienze e delle arti nell’Italia, e possiamo dire in tutta l’Europa.

È questo un figliuolo di Lorenzo il Magnifico, di quel gran benefattore della Toscana. Il suo nome era Giovanni; ma avendo egli preso la carriera ecclesiastica, fu eletto Papa sotto il nome di Leone X. Egli amava molto le scienze e le arti; quindi incoraggiava coi premi e con onori gli artisti e i letterati. Coi poverelli era benefico, affabile con tutti. Desiderava molto la gloria e la felicità dell’Italia: perciò mentre si studiava di promuovere le belle arti, adoperavasi di tenere da essa lontani i flagelli della guerra. Allora una grande quantità d’uomini illustri coprirono di gloria l’Italia coi frutti del loro vario ingegno, con capolavori immortali, che formano ancora al presente l’ammirazione di tutti.

Quando l’Europa era ancora rozza ed ignorante, gli artisti Italiani, protetti dal Romano Pontefice, producevano quadri, statue e monumenti, i quali dovevano servire di modello a tutte le nazioni. Giudico pertanto di farvi cosa piacevole raccontandovi la vita di alcuni de’ più celebri personaggi che fiorirono nel secolo di Leone X. Comincio da un matematico bresciano detto Tartaglia, quel medesimo, che spesso fa parte delle rappresentazioni drammatiche popolari, onde avrete già più volte avuto occasione di riso e di trastullo.

Durante la crudele guerra tra i Francesi e i Veneziani, la città di Brescia dopo ostinata resistenza fu presa d’assalto dai Francesi, saccheggiata, messa a sangue e a fuoco. Fra le vittime di quel disastro si trovò un fanciullo appena di dieci anni, il quale per le profonde ferite ricevute nel capo era rimasto come morto sulla soglia della casa, ove i suoi parenti erano stati tutti sgozzati. Una persona caritatevole passando colà si accorse che il miserello viveva ancora, ed avendolo portato in casa propria gli usò tante cure che l’orfano guarì perfettamente. Per mala sorte un largo taglio riportato sulle labbra non gli permise più di parlare speditamente, ed a cagione di questo gli fu dato il nome di Tartaglia, ossia balbettante, che egli sostituì a quello dei genitori perduti.

Il giovane Tartaglia, salvato come per miracolo da una morte che pareva certa, col crescere dell’età divenne Un uomo studioso e profondamente erudito, e fu il primo in Italia, che, essendosi applicato alla geometria ed alla meccanica, fece risorgere nell’Europa quelle utili scienze, lasciate in abbandono da lunghi anni e che forse avrebbero potuto andar quasi perdute, se l’orfanello di Brescia co’ suoi studi non avesse loro dato lustro novello.

Un altro uomo, che in particolar maniera si segnalò sotto al pontificato di Leone fu Michelangelo Buonarroti. Egli nacque in Caprese, villaggio di Toscana, da povero padre, il quale per guadagnarsi il vitto andava addestrando i suoi figli nell’arte di lavorare la lana e la seta. Osservando in Michelangelo una particolare attitudine allo studio, gli fece frequentare le scuole. In simile guisa, secondando le sue inclinazioni, consumava molto tempo nello schiccherare sulla carta figure d’uomini, di bestie, di case, e per questo veniva dal padre e dai maestri spesso ripreso e talvolta castigato. Tuttavia il padre volendo secondare il genio del figliuolo, risolvette di porlo a studiare pittura sotto ad un maestro chiamato Ghirlandaio, che era il pittore più stimato di Firenze. Lo scolaro vi faceva tali progressi, che il maestro medesimo era stupito. Un giorno, essendo assente il Ghirlandaio, Michelangelo ritrasse al naturale il ponte su cui lavoravano i pittori, e su quello gli sgabelli e gli arnesi dell’arte, come pure i giovani che dipingevano. Tornato il maestro e visto quel disegno, rimase sbalordito della perfetta imitazione, e disse: Costui ne sa più di me.

La prima opera che veramente fece nome a Michelangelo fu un dipinto che rappresenta i diavoli che tentano sant’Antonio. Poco di poi gli fu dato a copiare una testa d’un pittore antico, e Michelangelo la seppe imitare così esattamente, che per celia restituì al padrone la sua copia come se questa fosse stata l’originale, e nessuno si accorse dell’inganno.

La grande abilità e lo straordinario ingegno di Michelangelo furono in breve conosciuti in tutte le parti dell’Italia, e nell’età di soli quindici anni Lorenzo il Magnifico lo ricevette in sua casa, provvedendolo di quanto gli era necessario, come se fosse stato suo figliuolo. Intorno a quel tempo medesimo l’antecessore di Papa Leone, che era Giulio Il, nel desiderio di rendere Roma la più bella città del mondo, come essa ne era già la più celebre, determinò di fare un grande edifizio. A questo fine chiamò a Roma un celebre architetto fiorentino (*) [(*) Non fiorentino ma d’Urbino; come più sotto, di Giulio II: Bologna sua patria non è giusto, essendo savonese (*).] detto Bramante, e lo incaricò di fare vicino al palazzo Vaticano, ove dimoravano i Papi, una Basilica con tale magnificenza, che avesse a riputarsi il più vasto e grandioso monumento del mondo.

Mentre Bramante eseguiva gli ordini del Papa e dirigeva i lavori del Vaticano si avvide che la sua avanzata età non gli avrebbe dato campo di terminare l’opera incominciata; laonde supplicò il Papa di chiamare il Buonarroti in Roma. Come il Papa fu in grado di valutare il merito di quel giovane, preso di ammirazione, lo incaricò di incominciare per lui un mausoleo, vale a dire un edificio che egli voleva destinare per sua tomba. In pari tempo Michelangelo si diede a dipingere parecchi quadri sulle pareti della cappella papale, detta Sistina, perché fabbricata per ordine di un Papa chiamato Sisto IV. Colorì ancora la grande vòlta della cappella, rappresentandovi vari fatti della Sacra Scrittura. Ritrasse in una statua di bronzo il Papa medesimo in abiti pontificali, che Giulio II. donò alla città di Bologna sua patria.

Mentre il Bramante ed il suo compagno Buonarroti continuavano con alacrità quei lavori, fioriva in Milano un altro uomo dotato di straordinario ingegno, chiamato Leonardo da Vinci, perché nacque in Toscana nel castello di Vinci. Esso era un genio affatto meraviglioso: era pittore, poeta, architetto, scultore, geometra, meccanico, ballerino e musico; era peritissimo in tutti gli esercizi del corpo e dello spirito; era egualmente abile a domare il più focoso cavallo, come a scolpire in marmo una statua od a rappresentare sulla tela delle figure coi più vivi colori. Per queste sue rare qualità Leonardo era ricercato da tutti i prìncipi e da tutti i signori d’Italia. Giulio II non ebbe pace finché non lo indusse a recarsi in Roma, per dedicare il suo ingegno all’abbellimento del Vaticano, che il Bramante andava facendo.

Continuò i suoi lavori a Roma per quasi tutto il pontificato di Leone X; ma insorti alcuni dispareri tra lui e Buonarroti, egli partì da Roma e passò in Francia, ove sapeva che il re lo teneva in gran conto. Giunto in Parigi, fu accolto con onore dal sovrano, che era quel Francesco I, di cui poc’anzi vi ho parlato, e visse colà fino ad una onorevole vecchiaia.

Essendosi ammalato, chiamò tosto i soccorsi della cattolica religione, vale a dire i SS. Sacramenti, e si dispose alla morte. Egli viveva nel palazzo reale, e il re lo soleva amorevolmente visitare durante la sua malattia. Un giorno che questi si recò al letto dell’infermo, Leonardo per riverenza si alzò alquanto, ponendosi a sedere sul letto. Mentre andavagli esponendo il suo rincrescimento per non essere vissuto abbastanza col timor di Dio e colla carità verso il prossimo, fu colto da un accesso di febbre. Il buon re prontamente si levò e resse la testa dell’infermo come per alleggerirgli il male. Leonardo spirò in quell’istante fra le braccia del re. Egli morì in età d’anni sessantasette colla gloria d’essere stato il primo a far conoscere ai Francesi le maraviglie del genio e delle arti degli Italiani.

VII.


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