S giovanni bosco


XXX. Cimabue e Giotto pittori



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XXX.
Cimabue e Giotto pittori (109).

(Dall’anno 1279 all’anno 1320).


Le belle arti, cioè la pittura, la scultura e l’architettura, che dopo Costantino erano andate in decadimento, cominciarono a ristorarsi in Roma grazie ai bisogni che accorrevano pel culto religioso; Firenze eziandio, essendo ricca, contribuì assai al progresso di queste scienze.

Celebre ristoratore della pittura ed architettura fu un fiorentino chiamato Giovanni Cimabue, il quale visse ai tempi di Carlo d’Angiò, re delle Due Sicilie, di cui ebbi già occasione di parlarvi. Questo principe, benché avesse molti difetti, amava peraltro assai la scienza, e passando per Firenze visitò i lavori di Cimabue, e lo ricolmò di elogi. In quella medesima occasione il pittore aveva terminato un lavoro rappresentante la santa Vergine destinato ad una chiesa di quella città. Il popolo, come per celebrare l’arrivo del re e il termine della immagine, si affollò intorno alla casa del pittore, prese il quadro, e fra il suono di musicali strumenti e fra le grida di gioia lo portò sino a quel luogo in cui doveva essere collocato.

Cimabue coltivava anche con buon successo la pittura sul vetro, e i lavori a fresco sopra le mura; vale a dire sapeva adattare i colori sopra le mura quando è ancora umida la calcina.

Fra gli allievi di Cimabue v’ebbe Giotto (che e diminutivo di Angiolotto), rinomatissimo pittore, scultore e architetto. Egli era di Vespignano, villaggio non molto distante da Firenze. Suo padre, che era contadino, lo mandava all’età di dieci anni a pascere le pecore, e il buon fanciullo le conduceva qua e là nei prati, ma invece di starsene oziosamente sdraiato, come purtroppo male usano molti pastorelli, prendeva diletto a delineare sull’arena o sulle pietre i contorni delle cose naturali che più gli ferivano la fantasia.

Mentre un giorno con un sasso appuntato stava disegnando una sua agnellina su d’una lastra pulita, passò colà Cimabue, e stupì vedendo come un fanciullo senza studio di sorta sapesse figurare sì bene una pecora. Allettato dalla manifesta disposizione per l’arte, e dalle pronte risposte di Giotto, gli domandò se voleva venire a dimorare con lui. Giotto, che rispettava soprattutto i genitori, gli rispose: «Volentieri, o signore; ma prima è necessario che se ne contenti mio padre, cui per nessuna cosa del mondo io disubbidirei».

Il padre accondiscese di buon grado, e Cimabue condusse Giotto a Firenze, ove prese ad istruirlo con amore nella pittura.

Il giovane era così attento e docile agli ammaestramenti di Cimabue, che presto diventò il primo pittore dei suoi tempi. Gli uomini più ragguardevoli della città, e tra questi l’insigne poeta Dante Alighieri, trattarono con lui domesticamente, ed era universalmente ammirato per l’acutezza e piacevolezza del suo ingegno. Una volta essendo Cimabue uscito fuori di bottega, Giotto dipinse una mosca così al naturale su di un ritratto colorito dal maestro, che tornando a casa Cimabue e mirando la mosca, si mise a scacciarla colla mano, persuaso che fosse veramente viva, del che molto risero i garzoni e quelli che erano allora nella bottega.

Accadde a quei tempi che il Papa (Benedetto XI) volendo ornare di magnifiche pitture la chiesa di S. Pietro mandò una persona intelligente a visitare i più valenti maestri, acciocché ne ponderasse il merito, e gli riportasse le prove dei migliori. Quell’inviato raccolse i più bei disegni che poté avere dai pittori da lui visitati; i quali tutti avevano sfoggiato nella perizia loro colla speranza di venire eletti ad eseguire le pitture di S. Pietro di Roma.

Il gentiluomo giunto in Firenze andò una mattina nella bottega di Giotto, e gli espose la mente del Papa, ed in ultimo gli chiese qualche suo disegno per mandarlo a Sua Santità. Giotto, che era garbatissimo, prese un foglio ed in esso con un pennello tinto di rosso fece senza compasso Un circolo perfetto. Pareva che poco provasse quel semplice circolo; perciò il gentiluomo tenendosi quasi per beffato, disse: Non ho io ad avere altro disegno che questo? Cui rispose Giotto: «Egli è anche troppo, mandatelo a Roma insieme cogli altri, e vedrete che ben sarà conosciuto».

Così fu; perciocché il sommo Pontefice e molti valenti artisti, conoscendo la gran difficoltà di segnare un circolo perfetto senza aiuto di strumenti, giudicarono che Giotto superava tutti i pittori del suo tempo. Laonde il Papa chiamollo con onori e buoni stipendi a dipingere nella tribuna e nella sagrestia di S. Pietro. Da questo fatto nacque il detto che si usa riguardo agli uomini di poco ingegno: Sei più tondo dell’O di Giotto.

Salito al soglio pontificio Clemente V ebbe sì caro Giotto, che lo invitò a seguirlo quando la sede pontificia fu trasferita in Avignone. Giotto andò col Santo Padre in Francia, e in molte città di quel regno lasciò bellissime pitture.

Nell’anno 1316 Giotto si restituì alla patria carico di doni preziosi e di onori; ma non gli fu possibile di fermarsi molto in Firenze, perché in tutte le città era chi invitavalo per avere a qualunque prezzo dei suoi lavori. Lo stesso re di Napoli il chiamò in Santa Chiara e nella chiesa reale. Tanto piaceva al re l’ottimo artista, che spesso si tratteneva familiarmente con lui, mentre egli stava facendo i suoi disegni.

Ma l’anno 1336, poco dopo che era tornato dalla Lombardia a Firenze, munito dei soccorsi divini, passò da questa a miglior vita nel sessantesimo di sua età. Fu egli pianto da ogni ordine di persone, e venne seppellito in una chiesa consacrata alla santa Vergine, che aveva coi suoi lavori molto abbellita; egli stesso prima di morire aveva dimostrato vivo desiderio di essere ivi sepolto. Giotto era nato contadino, e pure collo studio e colla virtuosa sua condotta si acquistò molti onori in vita ed una fama immortale.

XXXI.
Dante e la lingua italiana (110).

(Dall’anno 1265 all’anno 1321).


L’Italia finché fu soggetta ai Romani adoperava la lingua latina; ma questa andavasi a poco a poco corrompendo. Alla venuta dei barbari, che usavano i loro rozzi dialetti, questa lingua si guastò sempre più, giacché essi per adattarsi all’intelligenza generale, volendo dettare leggi in latino (che tuttavia esistono) lo guastavano orrendamente, introducendo nuovi vocaboli, e non curandosi punto dei casi che soglionsi appellare genitivo, dativo, ecc. Udivano, per esempio, le persone che più volte parlando latino dicevano: da mihi illum panem. I barbari volendo dire lo stesso corrompevano le parole e ripetevano: da mi il pane, che è quanto dire: dammi quel tozzo di pane. Vennero le Crociate, e perché le nazioni d’Europa si mescolavano tra loro in quella grande impresa, e tutti udirono i nuovi linguaggi d’Oriente, il guasto si aumentò ognora più. Erano pertanto in Italia due lingue, la latina usata nelle leggi, negli atti notarili e nelle prediche; eravi poi la lingua del volgo, detta perciò volgare, nata da tutte le anzi dette corruzioni.

Siccome il volgo stentava a capire il linguaggio latino, così S. Francesco d’Assisi, per meglio giovare al prossimo, cominciò a scrivere in lingua volgare certe poesie divote, che noi diremmo laudi. Altri scrittori presero a servirsi della lingua volgare in argomenti di sollazzo, come in canzoni, sonetti e simili; e già veniva usata nei discorsi che facevansi pubblicamente nelle repubbliche per trattare gli affari di generale interesse. Sorse finalmente Dante Alighieri fiorentino, il quale pigliandola dalla bocca del popolo la sottomise a più certe regole grammaticali.

Fin dalla sua fanciullezza egli profittò molto dell’assistenza e dei lumi di certo Brunetto suo maestro, che gli portava grande amore. Con uno studio indefesso e colla forza della grande sua mente giunse a guadagnarsi una celebrità universale.

Giunto a quell’età, in cui ognuno deve contribuire all’utile della patria, volle abilitarsi alla carriera dei pubblici impieghi; ma poiché in quei tempi niuno poteva aspirare ad un pubblico impiego, se prima non era ascritto a qualche classe di artigiani, così Dante si fece ascrivere a quella degli speziali.

In quel tempo, in cui quasi tutte le città d’Italia erano divise in due parti, dei Guelfi e dei Ghibellini, Dante aveva avuto un maestro guelfo, ed egli pure si rese illustre in molte imprese, combattendo valorosamente contro ai Ghibellini.

Dante dimostrò eziandio il suo grande ingegno e valore in quattordici missioni politiche, le quali avevano lo scopo di porre un termine a quelle antiche sanguinose contese. In premio degli importanti servigi prestati alla patria venne creato priore, che era in Firenze una delle prime cariche. Ma questo onore ricevuto lo espose a fiere inimicizie ed a gravi pericoli per le discordie cagionate dalle fazioni così dette dei Bianchi e dei Neri, la cui origine io voglio farvi conoscere.

In Pistoia, città non molto distante da Firenze, nacque casualmente una rissa fra Lore e Geri, che erano due giovani di due illustri famiglie; nella rissa Geri fu leggermente ferito. Il padre del feritore, dolente di tale offesa, obbligò suo figliuolo a recarsi in casa di quel giovane per fargli scusa. Quell’atto invece di essere gradito, come di certo meritava, irritò maggiormente l’animo del padre di Geri, il quale ordinò ai suoi servi di afferrare Lore, e di tagliargli una mano: poscia lo rimandò dicendogli: Torna a tuo padre, e digli che le ferite si medicano col ferro e non con parole.

Affronto sì barbaro produsse in tutti la più viva indignazione: i parenti e gli amici di Lore al vederlo privo di una mano e grondante di sangue, montarono in furore, presero le armi e raccolsero seguaci. Quelli della parte avversaria si prepararono alla difesa, e così dalla disunione di quelle famiglie si formarono due fazioni, una chiamata dei Bianchi, perché uno dei principali loro capi apparteneva ad una famiglia di questo nome; l’altra si nominò dei Neri dal nome della famiglia, a cui apparteneva Lore. Vennero tra loro alle mani, e dopo alcune zuffe e l’una e l’altra parte implorarono l’aiuto dei Fiorentini. Alcune famiglie di questi si dichiararono per un partito, altre per l’altro... ed i Bianchi trovarono un saldo appoggio nella persona di Dante.

Ma in quel momento Firenze detestava le discordie e lo spargimento di sangue; i Bianchi benché sostenuti dai Ghibellini furono vinti, e Dante che aveva avuto grande parte in quelle discordie, mentre trovavasi in Roma per una ambasceria presso il Pontefice, venne condannato ad essere arso vivo. Allora egli si unì apertamente coi Ghibellini e con altri ribelli e tentò di rientrare a mano armata nella sua patria. Ma il cielo non benedice i ribelli della patria; perciò Dante da quel momento in poi dovette sempre andare errando di paese in paese. Peraltro il suo grande ingegno gli trovò presto amici e protettori prima in Verona, quindi presso al conte Guido Novello, signore di Ravenna. In questo suo esilio compose la maggior parte del suo poema intitolato: La Divina Commedia, nella quale prese a descrivere, secondo la sua fervida fantasia, l’Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso: opera maravigliosa che formerà mai sempre la gloria della poesia italiana. La sua morale si può ridurre a questa sentenza: che l’uomo, il quale considera i proprii peccati e li corregge, facendone la confessione e la penitenza, si rende degno di salire a Dio. Sebbene Dante fosse d’indole bizzarra e vendicativa, aveva tuttavia di molte buone qualità; era dotato d’ingegno riflessivo, parlava poco, ma diceva parole pesanti, poneva nello studio grandissima attenzione, e nessuna cosa valeva a distorlo quando era assorto in esso. Racconta il Boccaccio, altro celebre letterato vissuto nel secolo di Dante, che questo illustre poeta trovò un giorno nella bottega di uno speziale certo libro cui desiderava di conoscere: si pose tosto a leggerlo con avidità, e vi studiò sopra per ben sei ore continue, senza mai alzare gli occhi e senza nemmeno sentire lo strepito di una brigata di nozze, che passò dinanzi alla bottega ove egli stava leggendo.

Quest’uomo straordinario morì a Ravenna nel 1321 in età di cinquantasei anni, e morì addolorato per non aver più potuto rivedere l’amata patria, siccome aveva costantemente desiderato.


XXXII.
Corso Donato. - Il duca d’Atene. La Grande Compagnia (111).

(Dall’anno 1231 all’anno 1343).
Ora che vi ho raccontata la vita del padre della lingua italiana, Dante Alighieri, giudico bene di narrarvi alcuni fatti particolari che nel medesimo tempo accaddero. Nelle sanguinose gare fra i Bianchi e i Neri si rese celebre un uomo superbo ed ambizioso, di nome Corso Donato. Costui a solo fine d’impadronirsi della città di Firenze, erasi posto con finzione dalla parte dei Neri, cui eransi congiunti i Guelfi. Nonostante l’astuzia con cui conduceva le sue macchinazioni, il popolo giunse a scoprire le trame di Donato e lo assediò nel proprio palazzo, ove non potendosi più difendere tentò di fuggire; ma fu raggiunto e ucciso appena uscito di città (anno 1308). La superbia e l’abuso delle ricchezze condussero Donato a fine sì miserabile. Molti suoi seguaci finirono del pari miseramente.

I disordini crescendo ogni giorno più nella misera repubblica di Firenze, quei cittadini, stanchi dai lunghi e continui disastri, ricorsero al duca di Calabria, Affinché mandasse loro un personaggio capace di proteggere i buoni e acquietare i ribelli. Il duca di Calabria ascoltò quelle suppliche, e spedì ai Fiorentini un certo Gualtieri, soprannominato il duca di Atene.

Era costui un furbo scellerato, che fingeva di amare il popolo, e in realtà non cercava che opprimerlo per arricchire se stesso. Appena giunse al potere, ne fece il più tristo abuso.

Abbatté e mandò in esilio i nobili, che egli chiamava oppressori della patria; levò le armi a tutti; depose quelli ch’erano in autorità, sostituendo ad essi alcuni suoi amici e compagni di ventura; diede la libertà a tutti i prigionieri, accrebbe le imposte e ne creò delle nuove. A siffatto abuso di autorità il popolo cominciò a lagnarsi, e si accorse che colui il quale era venuto per difenderli era diventato un vero e crudele tiranno.

Quel superbo, invece di ascoltare i lamenti dei Fiorentini, si mise a far peggio, pronunciò sentenze ingiuste, fece carcerare, battere ed uccidere persone innocentissime. Quindi non fa maraviglia se vi ebbero di quelli che pensarono in segreto di liberarsi di un uomo sì malvagio.

Il duca come ebbe sentore della congiura ordita contro di lui, pensò di sopraffare ed opprimere i suoi nemici, ma i migliori cittadini uniti col popolo pigliarono le armi e si sollevarono. Gualtieri con alcuni soldati ritiratosi in un palazzo tentò difendersi, ma i suoi amici lo abbandonarono, perché i perfidi non hanno veri amici. Nemmeno i suoi compagni di scelleratezze poterono salvarsi, imperocché furono tutti trucidati in mezzo al furor della plebaglia. Il duca a stento ottenne di poter uscire della città (6 agosto 1343) fra l’esecrazione e il disprezzo universale, dopo di averla tiranneggiata dieci mesi.

Cacciato il duca Gualtieri, furono suscitate turbolenze fra i grandi e la plebe fiorentina. Gl’infimi di essa, detti Ciompi, eccitati specialmente da una famiglia chiamata Ricci, che era una delle principali della città, scorrevano le vie schiamazzando contro i signori, ed infine acclamarono gonfaloniere (*) un certo Michele Lando, cardatore di lane. Per tre anni Firenze fu dominata dai Ciompi, dopo i quali si restituirono le cose nell’ordine primitivo.
[(*) La carica di gonfaloniere era la prima carica dello Stato (a)].
Mentre succedevano questi fatti particolari una grave calamità venne a funestate l’Italia. Un certo Guarnieri, duca tedesco, capitano di ventura, bramoso di gloria e di ricchezze, propose ad alcuni avventurieri di andarsi a cercare fortuna colla forza. Piacque molto la proposta, e subito Una squadra di sfaccendati, unendosi a Guarnieri, lo elessero loro capo. Molti Italiani turbolenti diedero loro segretamente danari, e molte squadre dalla Toscana e dalla Lombardia corsero ad ingrossare quella truppa, che prese il titolo di Grande Compagnia.

Soldati, donne, ragazzi, e tutta la feccia d’Italia ad ogni passo si aggiungeva ad essi, portando così da per tutto il guasto e lo spavento. Il loro capo portava sul petto una piastra d’argento, sulla quale si leggeva: Duca Guarnieri, signore della Grande Compagnia, nemico di Dio, di pietà e di misericordia.

Questi terribili masnadieri traversarono la Toscana, parte di essa mettendo a ferro e a fuoco, parte costringendo a pagare enormi somme di danaro per non essere saccheggiata. Quasi il medesimo fecero nella Romagna; ma rivolgendosi verso la Lombardia trovarono le città di Ferrara, di Bologna, di Ravenna, di Piacenza (**) [(**) Leggi: Faenza] e d’Imola armate e pronte ad opporsi alloro cammino. Dopo alcuni combattimenti scorgendo inutile ogni sforzo, Guarnieri ottenne di poter passare liberamente; indi entrando in Lombardia saccheggiò e disertò il ducato di Modena e di Reggio; e al fine, carico di danaro e di prede, a squadra a squadra coi suoi fe’ ritorno in Germania per divorare nei bagordi le spoglie

rapite agli Italiani.

Fu questo uno dei più segnalati esempi delle Compagnie di ventura, cioè di quelle Compagnie che facevano guerra non per obbligo, ma per cercare onore e fortuna. Noi vedremo nel progresso di questa storia molti esempi di simil fatta.

XXXIII.
I Papi in Avignone (112).

(Dall’anno 1305 all’anno 1365).


Allora che vi parlai dello stabilimento della sede pontificia nella città di Roma, potemmo altresì osservare come questa città da capitale del Romano Impero sia divenuta capitale del cattolicismo. Pareva che il Papa vescovo di questa città non dovesse cangiare la sua dimora. Ma per una serie di tristi avvenimenti dovette abbandonare la sua sede e trasferirsi ad Avignone, grande e bella città della Francia, situata sulle rive del fiume Rodano.

La causa di questa traslazione derivò dalle oppressioni fatte da Filippo il Bello, re di Francia e di Napoli. Costui favorì molto i ribelli di Roma, e specialmente la famiglia detta dei Colonna e degli Orsini, i quali èrano tutto rabbia contro al Romano Pontefice. Filippo mandò un suo generale chiamato Nogaret, il quale dopo di aver costretto il romano Pontefice a fuggire nella città di Anagni, si recò colà armata mano alla testa d’iniqua sbirraglia, mandando insane grida contro al Papa, che era Bonifacio VIII. Se gli presentò quel generale innanzi, e in tuono minaccioso a nome della corte di Francia imposegli o di accondiscendere a quanto desiderava il re (che pretendeva cose illecite), o di acconciarsi ad esser trascinato in Lione per essere ivi deposto. Il Pontefice pacatamente rispondeva: «Per la fede di Cristo e per la sua Chiesa sono disposto a soffrir volentieri qualsiasi cosa ed anche la morte».

Per tre giorni il Papa restò come prigione nel proprio palazzo, ove soffrì mille insulti ed abbiezioni, specialmente per parte di un romano chiamato Sciarra Colonna. Costui giunse a tale scelleratezza che diede un forte schiaffo al Papa; e lo avrebbe pur anche ucciso, se non fosse stato rattenuto dallo stesso Nogaret, meno feroce di quella belva. Intanto la prigionia del Pontefice dispiaceva oltremodo a quei di Anagni, i quali prima mossi a compassione, indi a furore, impugnarono le armi, cacciarono via i sacrileghi, ed uniti si a quelli che da Roma erano accorsi per liberare il loro padre e sovrano, lo condussero sano e salvo nella sua sede tra le acclamazioni e gli applausi della fedele città.

Ma fu di breve durata il contento di Roma, imperciocchè trentatré giorni dopo il suo ritorno Bonifacio morì consumato dagli anni e sfinito dalle oppressioni (a. 1303). Dopo questo avvenimento i Papi non ebbero più libertà in Roma, anzi i cardinali incontravano gravissime difficoltà per radunarsi ad eleggere un successore al defunto Pontefice. Per questi motivi il pontefice Clemente V, vedendo l’Italia insanguinata da orribili fazioni, da inimicizie spietate ed implacabili, ed essere impedita la libertà della Chiesa, se continuava a dimorare in Roma, trasportò nell’anno 1305 la romana sede in Avignone, amando meglio accomodarsi a volontario esiglio, che assistere a tante stragi e rovine. In cotesta guisa Avignone divenne la stanza dei Papi per circa 70 anni; e Roma e l’Italia restarono prive del loro principale ornamento.

Io non posso enumerarvi ad una ad una le triste vicende, cui andò soggetta Roma, e direi tutta l’Italia nel tempo che i romani Pontefici dimorarono in paesi stranieri. Cessò quel numero straordinario di forestieri, che in vari tempi dell’anno sogliono recarsi in quella grande città per visitare il Capo visibile di tutti i cristiani, la qual cosa era sorgente di molte ricchezze. Le scienze, le arti di Roma, che avevano servito di modello a tutte le altre nazioni, mancarono quasi interamente, siccome prive di alimento; anzi all’ordine, alle scienze, alle arti sottentrarono il disordine, la guerra civile e lo spargimento di sangue.

La storia ci fa perfettamente conoscere che l’Italia senza Pontefice diventa un paese esposto alla più tristi vicende. I Ghibellini, fatti arditi per l’assenza del Papa, invitano un re d’Allemagna, di nome Enrico VII, il quale sotto al pretesto di riacquistare i diritti de’ suoi antecessori viene in Italia, sottomette molte città, impone gravi tributi; si fa incoronare re in Milano, di poi va difilato a Roma per cingersi la corona imperiale.

Ma in Roma vi erano gli Angioini, cioè i partigiani di Roberto d’Angiò, che sostenendo le parti dei Guelfi costringono il novello imperatore a ritirarsi in Toscana nella città di Pisa, dove poco dopo, sorpreso da improvvisa malattia, muore.

Dopo la morte dell’imperatore, i Pisani, che erano quasi tutti Ghibellini, raccolsero un migliaio dei soldati dell’imperatore per opporsi ai Guelfi, e ne affidarono il comando ad un generale detto Uguccione della Faggiola. Sostenuto da quei valorosi egli poté rendersi padrone di Pisa e di Lucca, e vincere gli stessi Fiorentini che non erano del suo partito. Ma mentre egli da Pisa se ne andava a Lucca, per sedare un tumulto, venne escluso dalla signorìa d’ambedue le città. Lucca si creò un altro signore, di nome Castruccio Castracane; il quale occupò le città di Prato, Pistoia, Pontremoli e la Lunigiana; combatté vittoriosamente contro ai Fiorentini, e portò le armi sotto la stessa loro città.

Frattanto formossi una lega di Guelfi, a cui non potendo resistere i Ghibellini invocarono l’aiuto dell’imperatore di Germania, che allora era Lodovico IV. Venne esso in Italia, e per farsi danaro ed amici vendette a Castruccio il titolo di duca; e da lui accompagnato se ne andò a Roma, ove si fece incoronare a dispetto del Papa. Ma poco dopo morì Castruccio, e la lega Guelfa avendo ripreso animo, costrinse l’imperatore a partirsi di Roma. Lodovico dopo essersi fermato ancora qualche tempo in Lombardia partì d’Italia odiato da tutti.

Roma intanto liberata dai nemici esterni andò soggetta a gravi discordie civili. I seguaci dei Colonna, ostinati nemici del Papa, tentano farla da padroni; altri loro si oppongono, e si viene a sanguinosa battaglia tra i medesimi cittadini. In que’ momenti il figliuolo di un oste, di nome Cola di Rienzo, Uomo ardito e intraprendente, col disegno di liberare la patria da quelle oppressioni, si unisce al dotto letterato Francesco Petrarca, e vanno insieme dal Papa in Avignone, per supplicarlo di ritornare a Roma, a fine di ristabilire l’ordine e la tranquillità. Il Papa non giudicò a proposito di acconsentire; e Rienzo, riputandosi capace di far grandi cose, si mette alla testa di un grande numero di cittadini, muove una ribellione, e resta capo di una repubblica sotto il nome di Stato buono. Combatte i nobili e tutti quelli che erano al potere: ma di poi invece di adoperarsi pel bene della patria egli combatte, uccide gli uni, opprime gli altri, impone enormi gabelle e diviene un vero tiranno. Come tale a furia di popolo è cacciato da Roma. In quello scompiglio di cose si eccita una guerra generale in tutta l’Italia. Tutto era in rivolta: discordie e guerre le più accanite ardevano tra città e città e tra cittadini della medesima città. Per tanti mali che l’Italia patì in questo spazio di tempo, i settant’anni passati dai Papi in Avignone soglionsi chiamare i settant’anni di schiavitù babilonica, sia per gravi danni che ne vennero all’Italia, sia perché il romano Pontefice, che è vescovo di Roma, dovendo vivere lontano dalla sua sede, ne seguivano eziandio gravi sconcerti a tutto il cristianesimo.



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