S giovanni bosco


XIX. Masaniello pescivendolo



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XIX.
Masaniello pescivendolo (141).

(Dall’anno 1642 all’anno 1660).

Dopo la pace di Castel Cambresis e più ancora dopo il trattato di Cherasco gli Spagnuoli rimasero padroni di molti Stati Italiani. Lombardia, Sicilia, Sardegna, Napoli erano governate da un viceré a nome del re di Spagna. Siccome poi la Spagna figurava in quei tempi la prima potenza d’Europa, così tra il dominio che aveva in Italia, e l’influenza che esercitava sopra gli altri Stati, si può dire quasi che l’Italia divenne spagnuola. Noi abbiamo molte usanze che ci rammentano quell’epoca (*).
[(*) Nella 1.a edizione seguiva qui un periodo con una notizia poco esatta sulla moda spagnolesca del vestire: quindi: «Gli Italiani alle persone di riguardo davano del messere e del signore, ed a questo nome venne surrogata la voce don, che deriva dalla voce latina dominus, signore» (*).]
Per cento quarant’anni, cioè dal 1560 al 1700, sebbene in Italia siano stati pochi moti di guerra, ad eccezione delle discordie insorte tra i Francesi ed il duca di Savoia, nulladimeno l’Italia ebbe molto a soffrire sotto al governo di padroni così lontani, siccome erano gli Spagnuoli. Il re di Spagna mandava bensì uomini chiari per senno e per valore a governare i paesi che egli possedeva tra noi; ma per lo più essi attendevano a dilatare il loro dominio, e a far danaro da spedire nella Spagna. Fra costoro devo farvi menzione particolarmente di un generale, di nome Leganez, governatore di Milano. Esso ebbe grande parte nelle guerre che agitarono il Piemonte dal 1630 al 1644. Per conquista e questi paesi al suo Sovrano, egli erasi recato con poderoso esercito nel Monferrato, ponendo strettissimo assedio a Casale. Codesta città apparteneva al duca di Savoia, Carlo Emanuele II, i cui Stati, essendo egli ancora in tenera età, erano governati da sua madre, chiamata Maria Cristina.

La principessa ebbe il dolore di vedere i suoi due cognati unirsi agli Spagnuoli: sicché trovatasi nell’impossibilità di poter loro resistere, fece una lega col re di Francia, in forza della quale ella cedevagli Cherasco, Savigliano, e Carmagnola. Dal che i suoi cognati presero motivo di eccitare i sudditi a ribellarsi contro di lei, che perciò fu costretta a fuggire da Torino.

Il re di Francia inviò un famoso generale di nome Harcourt con molti soldati in soccorso dei Piemontesi.

I due capitani fecero le prime loro prove di valore sotto le mura di Casale (anno 1640), dove gli Spagnuoli toccarono una fierissima rotta. Piacevole ed arguta fu la risposta del generale francese dopo questa vittoria. Leganez pieno di dispetto gli mandò a dire: Se io fossi re di Francia vi farei tagliare la testa per avete arrischiata la battaglia con forze così deboli. - Ed io, rispose Harcourt, se avessi l’onore di essere re di Spagna, farei decapitare il Marchese Leganez per essersi lasciato vincere da un pugno di gente. Dopo quella battaglia Leganez raccolse le sue genti, e, fatta nuova leva di soldati, si recò ad assediare Torino. Fatti lunghi, ma inutili sforzi per impadronirsi di questa capitale, depose il pensiero di conquistare il Piemonte, e coll’avanzo del suo esercito ritornò a Milano.

La duchessa tosto ritornò a Torino riacquistando parecchie città, che le erano state tolte. Giunta intanto al termine della reggenza, consegnò le redini del Governo al figliuolo Carlo Emanuele II (anno 1648).

Questo principe nei primi anni del suo governo rivolse le sue cure per sedare una rivoluzione, che i Valdesi avevano suscitato contro di lui; sostenne una breve guerra contro ai Genovesi; poi godé di una perfetta pace durante il suo regno, che tutto impiegò a bene de’ suoi sudditi. Attese a riordinare la milizia, a costruire strade e a compiere opere di magnificenza, fra cui il palazzo Carignano, il palazzo reale, la cappella di S. Sudario e i portici di Po.

Trista era la sorte del Piemonte mentre era occupato dalle armi spagnuole e francesi; ma assai più tristo era lo stato dei Napoletani e Siciliani per la grande smania che il viceré aveva di far denaro per arricchire se stesso, e mandarne in Ispagna. Le somme estratte dal solo regno di Napoli nello spazio di pochi anni montarono oltre a cinquecento milioni di franchi. Per accumulare sì enormi somme erano indispensabili gravi imposte. Case, campi, suppellettili, persone, ogni sorta di animali e di commestibili era aggravata da tali pesi, che quasi tutto il provento delle terre cedevasi ai gabellieri. In que’ tempi molte famiglie, non potendo più procacciarsi i necessari alimenti, lasciarono i paesi nativi per andare a cercarsi ospitalità presso gente straniera. Anche i cittadini di Milano, che dugent’anni prima sommavano a trecentomila, si ridussero a centomila; la qual cosa faceva che molti tratti di terreno rimanesero incolti per mancanza di contadini, ed il commercio fosse privo di avventori. Il malcontento allora divenne universale, e nulla mancava se non un capo per venire ad un’aperta ribellione.

Certo Alessio di Palermo, capitale della Sicilia, di professione battiloro; cioè artefice che riduceva l’oro e l’argento in foglie molto sottili, aveva tentato di scuotere il grave giogo, ed era riuscito a guadagnarsi il popolo, i nobili, ed essere proclamato primo capitano e re di Sicilia. Ma sorpreso dagli Spagnuoli fu condotto al patibolo insieme co’ suoi compagni (anno 1647). Casi più gravi avvennero a Napoli, che non si poterono così facilmente sedare, e che ebbero funestissime conseguenze. Il viceré di Napoli, chiamato conte Arcos, uomo insaziabile, per avere una grossa somma da spedire agli Spagnuoli, come ne era stato richiesto, non sapendo a qual cosa aggiungere imposte, stabilì una tassa particolare sulle frutta, che colà sono principale nutrimento della povera gente.

Un certo Tommaso Aniello di Amalfi, comunemente detto Masaniello, pescivendolo, non potendo più vivere del suo mestiere, si era posto a fare il fruttaiuolo nella città di Napoli. Egli e i suoi compagni di piazza rimasero sbalorditi alle novelle imposte. Il malcontento crebbe ognor più pel rigore e pei modi villani con cui i gabellieri facevano le esazioni. Una domenica mattina, 7 luglio 1642, nacque un tumulto nella piazza, e questo fu la scintilla che accese il fuoco della ribellione. Chi grida da una parte, chi dall’altra; uomini, donne, vecchi e fanciulli si radunano intorno a Masaniello. Era questi un bel giovane, gagliardo della persona, e di forza tale, che con un pugno poteva gittare a terra un uomo dei più robusti. Corrono i gabellieri per sedare il tumulto; ma rimangono malconci di pugni e di bastonate, e costretti a ritirarsi. Accorrono a squadre i soldati colle armi, ma non sono più a tempo, perché era divenuto immenso il numero degli insorti; i quali da tutte parti acclamando per capo Masaniello, e arditamente respingendo i soldati reali, in poche ore diventano padroni della città.

Quel Masaniello, miei cari, era un rozzo negoziante, privo di lettere, senza pratica di milizia o di governo; tuttavia il suo genio, la sua probità, il suo disinteresse e il desiderio di fare del bene, di sollevare la povera sua patria, fecero si, che egli potesse sostenere le pàrti di principe e di capitano, trattando con maravigliosa attitudine i più gravi affari.

Il viceré provò a combattere Masaniello colla forza; ma scorgendo inutile ogni tentativo, pensò di venire ad un accordo. Riconoscendolo capitano generale di Napoli, gli promise l’abolizione di tutti i balzelli, gli offrì una ricca collana d’oro, grandi onori e grasse pensioni. Masaniello, dubitando della lealtà del viceré, rifiutò tutte le proposte, e continuò ad essere il difensore del popolo. Ma per gli onori offerti dal viceré, che a lui in certa maniera si sottometteva, e per gli applausi universali che gli faceva il popolo, levatosi in superbia, dimenticò la naturale sua modestia, e invece di continuare ad essere il benefattore della sua patria, divenne avverso al re, spregiatore di tutti i suoi. Queste nuove maniere lo resero odioso ai suoi patrioti a segno, che alcuni dei più scellerati, per avere una ricca mancia promessa dal viceré, lo fecero perire sotto ai pugnali.

Allora in Napoli vi fu un disordine universale: chi teneva la parte del re, chi stava per Masaniello. I cittadini non sapevano più a chi ubbidire. In mezzo a quel guazzabuglio di cose fu proclamata la repubblica. Intanto altri continuavano a sostenere le parti di Masaniello, finché alcuni malcontenti chiamarono in soccorso il duca di Guisa, discendente di Carlo d’Angiò, celebre capitano francese. Venne egli prestamente; e già era quasi assoluto padrone di Napoli, quando sopraggiunse un forte esercito di Spagnuoli, i quali entrando in città, se ne impadronirono. Molti, abborrendo il giogo degli stranieri, ricusavano ostinatamente di sottoporsi a quel dominio, perciò furono miseramente condannati a morte o mandati in esilio. Insomma la ribellione di Masaniello non produsse altro effetto che spargimento di sangue, un governo tirannico, morte ed esilio. Tant’è vero che le rivoluzioni non fanno mai la felicità dei popoli!

In mezzo a questi avvenimenti anche Genova andò soggetta ad una grave sciagura. Il re di Francia Luigi XIV, invidioso che questa repubblica fosse più amica dalla Spagna che di lui, mandò un generale di nome Duquesne alla testa di grossa flotta per intimare il disarmo di quattro galere poc’anzi messe in mare. Non risposero i Genovesi a quella domanda. Allora la flotta nemica cominciò un bombardamento che durò parecchi giorni senza intermissione. Dopo di che la città, ridotta quasi tutta in rovina, fu costretta ad ubbidire ai Francesi ed accettare la pace a dure condizioni.

Mentre Genova e gli altri paesi d’Italia erano travagliati da diverse calamità, anche Venezia ebbe a sostenere assalti i quali però le furono cagione di gloria. Già da parecchi anni i Turchi tentavano di toglierle l’isola di Candia. Resistettero i Veneziani; e, guidati da buoni capi, fra cui merita special menzione il capitano Francesco Morosini, riportarono parecchie vittorie. Ma avendo poi i Turchi accresciute fuor di misura le loro forze, i Veneziani furono costretti a cedere l’isola ai nemici, malgrado gli aiuti loro inviati da altre Potenze di Europa. Quindici anni dopo, ricominciate le ostilità, Francesco Morosini, s’impadronì di Atene e della Morea, che è una penisola al mezzodì della Grecia, anticamente detta Peloponneso. Il Morosini, dopo di essere stato creato Doge, ritornato a combattere nella Grecia, vi perdé la vita nell’anno 1694.


XX.
Bartoli e Segneri (142).

(Dall’anno 1608 all’anno 1694).


La lingua italiana, che incominciò a fiorire con san Francesco d’Assisi, e giunse a grande perfezione per opera di Dante, Petrarca, Boccaccio e di altri celebri del Trecento, quest’aurea nostra lingua, dopo lo splendore del secolo di Leone X, venne a smarrire nel Seicento quasi affatto la sua antica semplicità e bellezza. Gli stranieri da varie parti giunti ad impadronirsi dei nostri paesi, i diversi loro dialetti, le usanze, le leggi da loro introdotte ed abolite da altri, che sopraggiunsero a combatterli, sono una delle principali cagioni dello scadimento della lingua italiana, specialmente per ciò che riguarda il suo colorito, ossia lo stile. Oltre a ciò, introdottosi da molto tempo nelle nostre scuole il classicismo pagano, ed essendosi quasi messo da parte l’elemento religioso nello studio letterario, ne avvenne che, oltre alle metafore ed alle figure smodate, nel Seicento la teologia pagana, la favola e talvolta lo stesso parlare inverecondo erano divenuti come il cardine del comune scrivere, sì in prosa, come in verso. I poeti, gli storici ed anche gli oratori sacri quanto più si mostravano ampollosi, allambiccati e stravaganti nei loro concetti, tanto più si acquistavano lode; e noi ora non possiamo trattenerci dal ridere nel leggere, per esempio, che le stelle per essi fossero:
Della banca del Ciel zecchini ardenti.

L’Arciprete dei monti in bianca stola; - il Monviso.

Dell’aureo mellon la argentea fetta: - la Luna.
E quando ci viene in mano, per citarne uno, il poema di Girolamo Graziani sopra la conquista di Granata, ci maravigliamo che sul serio ei cantasse:
Pare che il Cielo ondeggi, il mare avvampi,

Scorran l’onde pel Ciel, pel mare i lampi.


Non tutti però scrivevano a questo modo nel secolo decimo­settimo; in mezzo al guasto generale v’ebbero alcuni avveduti, i quali appartandosi dalla moltitudine, mediante lunghi studi e pertinaci fatiche riuscirono a conservare nei loro scritti la purezza della lingua e la bontà dello stile. Fra questi pochi vanno celebri il Bartoli e più il Segneri, dei quali vi darò qui un breve cenno.

Daniello Bartoli era nato in Ferrara l’anno 1608. A quindici anni entrò nella Compagnia di Gesù in Roma, dove attese agli studi sacri e letterari. Datosi per tempo alla predicazione, acquistò fama di valente oratore. Imbarcatosi per Palermo, a fine di predicarvi la Quaresima, un naufragio lo respinse all’isola di Capri. Rimessosi in viaggio, poté trasferirsi nella capitale della Sicilia, dove si segnalò colla sua eloquenza. Ritornato a Roma, pose mano a scrivere molte opere, tra cui sono specialmente commendevoli: L’uomo di lettere, La Ricreazione del saggio, La Geografia, I Simboli trasportati in morale, La Povertà contenta, L’ultimo fine beato dell’uomo, L’Eternità consigliera e La Storia della Compagnia di Gesù.

Vincenzo Monti, di cui fra poco avrò a parlare, dice che tutte queste opere in quanto a lingua sono tanto corrette e fiorite di leggiadrissime locuzioni, che vi si trova da biasimare più presto l’eccesso della eloquenza, che la penuria. Daniello Bartoli terminava la sua vita mortale in Roma nel 1685.

Più sublime e nel tempo stesso più popolare e classico fu Paolo Segneri, il quale a buon diritto si può chiamare il padre della eloquenza sacra italiana.

Nato, in Nettuno, città del Lazio, nel 1624, in assai giovanile età entrò nella Compagnia di Gesù ed ebbe maestro il dotto cardinale Sforza Pallavicino, che pure va annoverato tra i più purgati scrittori del Seicento (*).


[(*) Oltre alla Storia del santo Concilio di Trento lodansi del cardinale Pallavicini i libri: Del Bene, e il trattato: Dello Stile e del Dialogo (a)].

Sentendosi inclinato alla predicazione, cominciò dal fare un’attenta lettura della Bibbia, dei santi Padri; studiò le opere di Cicerone, e si addestrò nel maneggio della lingua italiana esercitandosi in diligenti traduzioni dal latino. Considerando poi quanto fosse vantaggioso il propagare la religione fra il basso popolo, si diede ad evangelizzare i poverelli di campagna, dove riportò copioso frutto. Volendo poi accondiscendere ai ripetuti inviti di persone autorevoli, si recò a predicare nella città di Perugia, di Mantova e nel Vaticano a Roma. Il Papa, che lo aveva chiamato, ammirandone il vasto e profondo sapere, lo fece teologo del sacro Palazzo. Ma le sostenute fatiche, alcuni malori, che lo avevano travagliato nella vita e reso sordo, le lunghe missioni, i faticosi viaggi a piedi e le sue penitenze austere avevano consumato affatto la sua persona. Caduto malato a Roma, ivi settuagenario cessò di vivere nel 1694. Le più celebri sue opere sono: Il Quaresimale, Il Cristiano istruito, L’Incredulo senza scusa e La Manna dell’anima. Queste e le altre sue opere a buon diritto furono raccomandate e proposte dagli Accademici della Crusca come testo di lingua. Esso suole essere appellato Segneri Maggiore, Affinché non si confonda col suo nipote Paolo Segneri, soprannominato Juniore. Questi era nato a Roma nel 1673, apparteneva pure alla Compagnia di Gesù, e moriva a Sinigaglia il 1713. Fu valente predicatore anch’esso, ma non eguagliò la fama del suo predecessore.



XXI.
Vittorio Amedeo II e la guerra per la successione di Spagna (143).

(Dall’anno 1665 all’anno 1700).


La Francia e la Spagna furono qualche anno in amichevole relazione. Ma queste nazioni possedevano ambedue alcuni paesi in Piemonte: perciò i Francesi volendone possedere in altre parti d’Italia, quando vedevano gli Spagnuoli a dilatare il loro dominio, cercavano di opporsi in tutte guise: e qualora i Piemontesi fossero attaccati dagli Spagnuoli, i Francesi venivano in aiuto dei primi per combattere i loro rivali. In mezzo a queste vicende il re di Francia Luigi XIV, sdegnato per le gravi discordie cagionate nuovamente dai protestanti, giudicò di non poter più sedare i tumulti se non allontanando tutti gli eretici dai suoi Stati. Di più temendo che essi tornassero a turbare la pace tra i suoi sudditi, volle che il duca di Savoia Vittorio Amedeo II seguisse il suo esempio. Questi non ricusava pubblicamente di fare la volontà del re, ma operava con tale indolenza, che il re di Francia giudicando si offeso, determinò di muovergli guerra.

Il duca di Savoia era un buon principe, amava molti i suoi popoli, da cui era del pari amato. Malgrado ogni sua resistenza non poté impedire che i Francesi invadessero i suoi Stati e vi facessero immensi guasti. Raccontasi che da Torino vedendo il suo castello di Rivoli ridotto in fiamme dai Francesi, esclamasse: Voglia il Cielo che sia incendiato ogni mio castello, ogni mio palazzo, purché siano salve le capanne dei miei contadini! Altra volta si presentarono a lui alcuni contadini di Carmagnola, le cui abitazioni erano state incenerite dai Francesi e, gettandosi ai suoi piedi, esposero la loro miseria. Vittorio tutto commosso loro distribuì il denaro che gli restava; poi trattasi una collana d’oro tempestata di gemme (era il collare della SS. Annunziata) la spezzò e la diede a que’ poveri contadini.

Il duca vedendo le cose del Piemonte ridotte a pessimo stato, pensò di venire ad un accomodamento colle Potenze straniere, e per mezzo di un trattato stipulato a Torino nel 1697, ridonò la pace al Piemonte e a tutta l’Italia.

Ma la morte di Carlo II, re di Spagna, venne a turbare la tranquillità di tutta Europa, siccome intraprendo a raccontarvi. Quel re aveva lasciato erede un principe francese, di nome Filippo, nipote del re di Francia. Luigi XIV, a nome di suo nipote, con un esercito francese invase la Spagna, e senza contrasto pose in possesso di quel trono Filippo, il quale così divenne re di Spagna, della Lombardia, di Sardegna, di Napoli e di Sicilia. Ma Leopoldo I, imperatore di Germania, siccome parente di quel re, pretendeva anch’egli la corona di Spagna; il duca di Savoia eziandio vantava qualche suo diritto alla medesima corona. A questo fine si unì all’imperatore di Germania, come più forte, e che nel tempo stesso gli faceva più larghe promesse. In breve fu dichiarata la guerra la quale, sebbene non sia stata molto lunga, fu assai atroce per il grande spargimento di sangue. Questa fu detta guerra per la successione di Spagna, perché ebbe origine dalle pretese che diversi monarchi vantavano per ottenere quel trono.

Allora seguì uno sconvolgimento in tutta l’Europa. Da una parte era la Francia, la Spagna e quella parte d ‘Italia che apparteneva alla Spagna; dall’altra era l’imperatore di Germania, l’Inghilterra, il Portogallo, il duca di Savoia con altri regni di Alemagna. Lungo sarebbe raccontarvi tutti gli avvenimenti di quella guerra; io mi contenterò di trasceglierne alcuni dei più luminosi e accaduti ne’ nostro paesi.

Come si seppe che il duca di Savoia erasi unito all’imperatore, subito un numeroso esercito composto di Francesi e di Spagnuoli assalì i suoi Stati. Vittorio Amedeo mise arditamente tutto il paese in pie’ di guerra e si dispose a forte resistenza. Tuttavia non poté impedire che la Savoia, Nizza, Susa, Aosta, Ivrea e Vercelli non cadessero nelle mani dei nemici. Incontrarono gravi ostacoli nella fortezza di Verrua, la quale sostenne per sei mesi gagliardi attacchi da parte dei nemici, né si sarebbe arresa, se i difensori non fossero rimasti privi di aliménti e di munizioni per la guerra colle mura smantellate e rovinate. Superata la fortezza di Verrua, i nemici volsero i loro passi alla volta di Torino.



XXII.
L’assedio di Torino e la pace di Radstadt (144).

(Dall’anno 1700 all’anno 1714).


Vittorio Amedeo aveva concentrate le sue forze nella capitale che era assai ben fornita di munizioni. Gli assedianti erano in numero di ottantamila, provvedutissimi di ogni strumento atto a rovinare e distruggere. Per proseguire l’assedio con sicurezza avevano cinta la cittadella di due trincee, una delle quali serviva per difenderli dai colpi degli assediati, l’altra per tenere lontano chiunque tentasse di portare a quelli soccorso. Per qualche settimana lavorarono in silenzio nelle trincee, avvicinandosi passo passo alle fortificazioni. Ma quando vi furono dappresso, tentarono un fierissimo assalto colle armi, colle artiglierie e colle mine. Alla vista di sì terribili attacchi non si perdettero di animo gli assediati. Erano in città ottomila cinquecento militi piemontesi e mille cinquecento tedeschi. Un illustre ingegnere di nome Bertola regolava i lavori per la difesa, il conte Solaro dirigeva le artiglierie. In quel momento supremo ogni età, ogni sesso si affaticava a recar sassi, terra e fascine. Tutti i cittadini erano soldati e tutti erano pronti a fermissima resistenza. Si erano messi qua e là grossi vasi pieni d’acqua per ispegnere gli incendi, erasi levato il lastrico alle vie, le case erano puntellate e coperte di terra, perché potessero reggere al continuo scoppio delle bombe nemiche.

In tali pericoli il popolo trovava conforto nella religione, nell’affezione del principe, nella speranza dei soccorsi. Non cessava il concorso alle chiese, ove stava di continuo esposto il SS. Sacramento. I fanciulli andavano a squadre a lavorare nelle mine; e qualora accadeva che taluno di loro rimanesse estinto, essi medesimi ne traevano fuori con istento il piccolo cadavere, e lo portavano a seppellire. I parroci, incoraggiati dalle parole e dall’esempio del beato Sebastiano Valfrè, che si facea tutto a tutti, giravano per le piazze ad assistere i feriti e confortare i moribondi.

Il duca Vittorio, considerata l’immensa superiorità dei nemici, quando vide che essi avevano investita la città e la cittadella dalla banda di Porta Susina, risolse di uscire di Torino per sollecitare soccorsi, radunare soldati, con cui potesse sorprendere il nemico e interrompergli i lavori di assedio. Dispose egli ogni cosa, incoraggiò tutti a stare forti contro gli assedianti e fedeli agli ordini suoi, quindi uscì dalla città accompagnato da una scelta di prodi. Con essi e con quei pochi che poté raccogliere intorno a sé, andava attaccando ora qua ora là i Francesi, i quali più volte tentarono di sorprenderlo; ma egli, o colla prestezza, o coraggiosamente combattendo, fuggiva dalle loro mani.

Tuttavia malgrado l’attività e l’accortezza del duca ed il coraggio degli assediati, le cose erano giunte ad uno stato lagrimevole. Molte case erano spianate al suolo, molti avevano lasciata la vita o sotto i colpi dei nemici o sotto alle rovine delle case; le munizioni da guerra cominciavano a mancare, e la fame già facevasi sentire. L’unica speranza dei cittadini e del duca stava riposta nell’aspettazione di un suo cugino, di nome Eugenio, principe di grande valore, che alla testa di un esercito tedesco marciava in soccorso dei Torinesi.

Nella sua prima età questi aveva vestito l’abito ecclesiastico. La lettura delle guerre antiche lo innamorò della gloria militare, e a questo fine si presentò al re di Francia Luigi XIV, chiedendogli il comando di un reggimento. Il re sogghignò a tale dimanda, e chiamandolo un buon abatino, lo mandò via dalla sua presenza con dirgli che andasse a recitare il breviario. Offeso da queste parole, Eugenio andò a prendere servizio in Austria come semplice volontario. Colà egli fece tali progressi, che all’età di trentaquattro anni fu creato generale in capo in una guerra contro ai Turchi. I vecchi soldati vedendolo piccolo di statura, vestito di semplice tunica, senza alto fregio che bottoni di metallo, andavan ripetendo fra di loro: Questo piccolo capuccino non strapperà molti peli alla barba de’ Turchi. Ma dopochè egli ebbe vinto una grande battaglia succeduta vicino alla città di Zenta, cominciarono ad amarlo come padre, e sotto si lui si credevano invincibili.

Il re di Francia si pentì troppo tardi del suo rifiuto, e per indurlo a passare sotto alle sue bandiere, gli offerì la qualità di maresciallo col governo della Sciampagna. Ma Eugenio, che aveva un animo retto, non si lasciò indurre a tradire il suo sovrano per unirsi ad un suo nemico, e rimase fedele alla casa d’Austria. Ora, sia per vendicare l’affronto, che aveva ricevuto dal re di Francia, sia per venire in aiuto di Vittorio Amedeo, suo cugino ed alleato, egli corse a grandi giornate alla volta di Torino. Il re di Francia inviò contro di lui prima un generale di nome Catinat, poi un altro chiamato Villeroi, e finalmente il duca di Vandomo, che erano i più reputati e valenti guerrieri di quel tempo. Eugenio li superò e li vinse tutti e tre in tre distinte battaglie campali, cioè una all’Adige, l’altra al Mincio, la terza al Po. Passata quindi la Bormida e il Tanaro, si avvicinava rapidamente a Torino.

Vittorio corse ad incontrarlo a Carmagnola con seimila cavalli e mille fanti. Si abboccarono in un prato presso a questa città alla presenza di tutta la soldatesca. Di là sentendo il rumoreggiare continuo delle artiglierie, che battevano Torino, e pensando alle strettezze a cui erano ridotti i difensori, presero tutte le necessarie disposizioni contro a sì formidabili nemici. Per distinguere meglio i siti occupati dai Francesi, i due principi salirono sul colle di Superga. Il duca, alla vista dei guasti fatti alle case e alla cittadella, alla vista dei terribili apparati nemici e dell’immenso loro numero, conobbe essere per lui. impossibile conseguire la vittoria senza una speciale protezione del Cielo. Stava sulla sommità di quel monte una cappelletta dedicata alla Beata Vergine. Amedeo si volge a quella, s’inginocchia, e, pieno di fede, prega così: Se voi, o grande Madre di Dio, ottenete che io disperda i miei nemici, io vi faro qui innalzare un magnifico tempio in riconoscenza della vostra grazia. Terminata la preghiera, in compagnia del principe Eugenio, vengono insieme ad unirsi alle proprie schiere, passano il Po, e facendo un largo giro verso la Dora e la Stura, tentano di pigliare i Francesi alle spalle.

Mentre queste cose avvenivano, la cittadella era al punto di cadere in mano degli assedianti; e già una schiera di granatieri. nemici nottetempo erano riusciti ad aprirsi un passaggio nel fosso della cittadella senza essere punto né osservati né veduti. Pian piano si avvicinavano alla porta di un sotterraneo che metteva nell’interno della fortezza. Niun soldato era in quello: un solo minatore Biellese, per nome Pietro Micca, stava con un ufficiale attendendo colà ad apparecchiare una mina. Non potendo opporre valida resistenza ai nemici, delibera in suo cuore una magnanima azione. Vedendo già apparecchiata la mina, risolve di darvi fuoco. Ma quella non era ancora fornita dell’artifizioso apprestamento, onde l’accenditore avesse campo a salvarsi. Non importa. Pietro, riputando essere quella favorevole occasione di dare la vita pel bene della patria, raccomanda la povera sua famiglia all’ufficiale testimonio della sua generosità e soggiunge: Scostatevi e salvatevi; io do la vita, ma spero di salvare la patria. Dio mi aiuti. Data poscia di piglio ad una miccia, pone il fuoco a quella mina, e coi granatieri francesi resta egli stesso sepolto sotto quelle rovine. Questo fatto seguì la notte del 29 agosto 1706.

Il mattino del 7 settembre Eugenio e Vittorio assalgono i Francesi, i quali dal canto loro fanno prodigi di valore. Non ostante l’immenso numero e gli acquisti già ottenuti verso la Città e la cittadella, sono costretti di venire a combattere a corpo a corpo. Gli assediati, accortisi dei soccorsi del principe Eugenio, fanno una sortita, ed unendosi loro insieme contro i nemici, ne menano tale strage, che circa 40.000 rimasero estinti in battaglia o fatti prigionieri. La vittoria fu compiuta; tutte le artiglierie e le provvigioni dei Francesi caddero in mano dei vincitori. Il duca col valoroso Eugenio fecero ingresso nella città in mezzo alle acclamazioni del popolo, e, accompagnati dall’Arcivescovo di Torino, ne andarono alla cattedrale, dove fu cantato un solenne Te Deum in rendimento di grazie per la vittoria riportata.

Lieto di questo avvenimento e fermo nella sua promessa, il duca stabilì che ogni anno al giorno otto di settembre fosse fatta grande solennità; e fece innalzare il magnifico tempio di Superga, che venne poi solennemente aperto al pubblico culto dal figlio di lui Carlo Emanuele III, succedutogli nel regno. Così voi, cari amici, quando alzerete lo sguardo a rimirare quel grandioso monumento, ricorderete la grande vittoria riportata sui Francesi, e nello stesso tempo la manifesta protezione del Cielo a favore dei Torinesi. Per conseguenza di quella grande giornata i Francesi sgombrarono l’Italia, ed il Piemonte risorse dalle sue calamità.

Dopo la battaglia di Torino, il dissidio per la successione di Spagna durò ancora sette anni fuori d’Italia. Ma le nazioni essendo stanche pei gravi mali che sempre porta seco la guerra, dopo dodici anni di sconvolgimento, fu tenuto un congresso in Utrecht, città di Olanda (anno 1713). Colà fu cominciato un trattato di pace, che fu poi conchiuso in Radstadt, città d’Alemagna. In forza di questo trattato il regno di Spagna fu confermato al nipote del re di Francia, detto Filippo V. La Lombardia, il regno di Napoli e la Sardegna furono uniti all’impero d’Austria. D’allora in poi per lo spazio di cento anni la Francia e la Spagna perdettero quasi tutta la loro influenza sopra l’Italia, e si può dire che la nostra Penisola divenne austriaca.

L’anno 1714 è altresì memorabile per tre morti importanti: quella di Luigi XIV, re di Francia; la morte della regina d’Inghilterra, di nome Anna, ed in fine la morte della regina di Spagna, chiamata Maria Luisa, figliuola del duca di Savoia.

In quest’anno medesimo i Turchi dichiararono guerra ai Veneziani per rifarsi di alcune perdite toccate, e specialmente della perdita della Morea. Qui devo farvi notare che Venezia non era più quella florida e formidabile potenza dei secoli trascorsi. Nel tempo di cui parliamo erasi già introdotta nei cittadini la mollezza e la corruzione. Il Governo, invece di addestrare il popolo alle armi pei casi di guerra, amava meglio chiamare soldatesche straniere e così a stranieri eziandio affidarne il comando. Siccome queste due cose erano già state cagione della decadenza del Romano Impero, così furono causa della decadenza di questa repubblica.

I Veneziani adunque sentendosi deboli, chiesero aiuto alle potenze Cristiane; ma prima di poterne avere, toccarono gravi sconfitte. Finalmente avendo ottenuto soccorsi dall’imperatore d’Austria, dal Papa, dalla Toscana e dai cavalieri di Malta, poterono tener fronte ai Turchi, i quali perciò furono costretti a chiedere la pace. Questa fu concessa a patto che i Turchi cedessero nuovamente ai Veneziani buona parte delle fatte conquiste. Così finì l’ultima delle guerre sostenute dalla repubblica di Venezia.



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