S giovanni bosco


XI. I duchi di Toscana e la pace di Castel Cambresis



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XI.
I duchi di Toscana e la pace di Castel Cambresis (133).

(Dall’anno 1520 all’anno 1559).


In questo tempo, o miei cari, una grande sciagura cadde sopra la città di Firenze. Dovete ancora ricordarvi come Pietro de’ Medici, figliuolo di Lorenzo il Magnifico, di cui vi parlai nel raccontare la congiura de’ Pazzi, fu cacciato coi parenti suoi da Firenze. Or bene dopo diciott’anni di esilio i Medici riuscirono a rientrare in patria e prendere le redini del governo. Ma nel 1527 i Fiorentini cacciarono nuovamente i Medici e si ressero a repubblica; perciò nuove guerre e nuovi mali ai cittadini. Carlo V, dopo essersi rappacificato col Papa, mandò quel medesimo esercito, che saccheggiò Roma, a cingere di assedio Firenze per costringerla a ricevere il sovrano, che poco prima aveva cacciato chiudendogli in faccia le porte.

I Fiorentini non erano in numero bastante per opporsi ad un agguerrito esercito; tuttavia, appoggiati alla giustizia della loro causa, determinarono di resistere fino agli ultimi istanti. Ma siccome un governo senza capo non può reggersi, così nella loro confusione vennero a fare un’elezione, di cui niuna pari fu mai. Sorse uno dal mezzo della turba e disse, che per rendere la repubblica invincibile dovevasi proclamare Gesù Cristo re di Firenze. Chi lo crederebbe? ognuno aderì alla strana proposta, e sulla porta del palazzo municipale fu immediatamente scritto a grossi caratteri: Gesù Cristo re dei Fiorentini, eletto con decreto del popolo e del Senato. Quei miseri erano illusi, e non badavano che Gesù Cristo, essendo padrone del cielo e della terra, non aveva bisogno di essere eletto re dai Fiorentini.

L’assedio durò un anno, dopo il quale s’incominciò a patire fame, sete e penuria di soldati; gli stessi bastioni erano stati diroccati dalle artiglierie nemiche. In quelle angustie la divina Provvidenza suscitò per sostegno di Firenze Francesco Ferrucci. Da bassa condizione col suo valore egli erasi innalzato fino al grado di capitano, ed il suo nome era divenuto celebre per molte vittorie riportate combattendo per la patria. Quando ricevette l’ordine di soccorrere Firenze, vi accorse tosto con un piccolo ma valoroso esercito. Arrivato a Gavinana, incontrò i nemici. Qui diede molte e grandi prove di valore: ma le forze dell’uomo sono limitate. Un giorno, dopo avere risospinti i nemici, che si sforzavano di valicare le mura, attorniato ed oppresso dall’immenso numero, cadde nelle loro mani. Coperto di ferite, fu condotto a Maramaldo, generale nemico, che ebbe la crudeltà di ucciderlo. Allora fu forza di venire agli accordi, e si convenne coll’imperatore Carlo V che i Fiorentini dovessero riconoscere i Medici come loro legittimi sovrani, e che Alessandro de’ Medici fosse riconosciuto duca di Toscana con diritto di trasmettere la sovranità a’ suoi eredi. Devo tuttavia dirvi che Alessandro de’ Medici non era degno di quella dignità; egli fu un principe avaro e crudele, e perciò venne trucidato da un suo parente nel 1537. Dopo lui fu creato duca di Firenze Cosimo de’ Medici, figliuolo del celebre Giovanni dalle Bande Nere sopra menzionato. Così ebbe origine la lunga serie dei duchi di Toscana, i quali più tardi presero il nome di granduchi.

Poco dopo la caduta della repubblica di Firenze, cadde anche quella di Siena. Essa con grande eroismo aveva cacciati due volte gli Spagnuoli. Cosimo, duca di Firenze, avevale inviato contro ventiquattromila uomini; ma costoro eziandio furono coraggiosamente respinti; finché, morto Pietro Strozzi suo difensore, Siena dovette cedere e accettare le più umilianti condizioni di pace. Cosimo diede libertà di uscire dalla città a chiunque ciò desiderasse.

Intanto noi siamo pervenuti al 1559, epoca molto celebre pei gravi fatti che ebbero compimento, e che compie il periodo di sessantasette anni dalla scoperta del Nuovo Mondo, In questo spazio di tempo fiorirono in Italia le arti, le scienze ed il commercio; in quanto poi alle vicende politiche noi siamo stati il bersaglio dei re di Spagna e di Francia.

Quando Carlo V rinunciò all’impero dovette cedere la Germania a suo fratello, che fu eletto imperatore col nome di Ferdinando I. Diede poi la Spagna, l’America, i Paesi Bassi, Borgogna, Sardegna, Due Sicilie e Milano a suo figliuolo Filippo II; e così l’impero d’Austria tornò ad essere diviso dal regno di Spagna. Il re di Francia, di nome Enrico II, sempre invidioso della grandezza di Spagna, approfittò di questa separazione di regni per muovere nuovamente guerra al novello sovrano Filippo. La Fiandra divenne il teatro di quella sanguinosa guerra. Dopo molti attacchi parziali si venne ad una battaglia campale presso ad una città dei Paesi Bassi, detta San Quintino. Colà succedette uno dei più sanguinosi combattimenti. Il duca di Savoia, di nome Emanuele Filiberto, capitano generale dell’esercito Spagnuolo, fece prodigi di valore e riuscì a superare i Francesi e a riportarne compiuta vittoria. Se voi, cari amici, camminando per la città di Torino passerete per la piazza S. Carlo, vedrete in bronzo la statua di un capitano assiso sopra un destriero in atto di riporre la spada nel fodero. Quel capitano è l’eroe di S. Quintino, Emanuele Filiberto, che con quella vittoria ricuperò i suoi Stati e diede ad essi la pace.

Il valoroso Emanuele Filiberto nel ritornare ai suoi dominii li trovò in preda al disordine; onde lasciando a parte ogni idea di guerra, si occupò de’ suoi Stati. Rialzò le fortificazioni, pose nuovamente in piede la milizia, diminuì in gran parte il feudalismo, che era quella specie di governo, per cui i più deboli, quasi come schiavi, erano obbligati a servire ai più potenti; ristorò l’erario, riordinò l’amministrazione della giustizia, e promosse con ardore le scienze e le arti. Stabilì Torino capitale dei suoi Stati, trasferendovi la Corte ed il Senato e fondandovi l’Università degli studi.

Dopo la battaglia di S. Quintino, quei monarchi, tutti stanchi dalle lunghe guerre, si radunarono in Castel Cambresis, città di Francia, e conchiusero un trattato di pace, in forza di cui le potenze belligere deposero le armi per riparare ai molti mali cagionati dalle guerre passate (1559).



XII.
Cose di Francia (134).
Il trattato di Castel Cambresis diminuì molto l’influenza della Francia sull’Italia; e d’allora in poi, per lo spazio di centoquarant’anni, possiamo dire che gli Spagnuoli ne rimasero gli assoluti padroni, ad eccezione di alcuni Stati, che procurarono di mantenersi alleati cogli Spagnuoli.

Ma le rivoluzioni e le guerre, già cagionate nella Germania dai protestanti, vennero eziandio suscitate nella Francia. In questo regno ad Enrico II, di cui già vi parlai, succedettero l’uno dopo l’altro Francesco II, Carlo IX ed Enrico III, tutti figliuoli di lui e di una donna italiana, detta Caterina de’ Medici. Sotto il loro regno arse un’atroce guerra tra i Cattolici e gli Ugonotti, ossia protestanti, seguaci di Calvino, il quale disseminò in Francia gli errori di Lutero (*).

[(*) V. la nostra Storia Ecclesiastica ad uso della Gioventù, Ep. V, Cap. I (a).]

Due delle principali famiglie, per ambizione di avere la superiorità l’una sull’altra, si erano poste alla testa di due fazioni. In capo de’ cattolici era il duca di Guisa, alla testa de’ protestanti il principe di Condé. Si diedero molte sanguinose battaglie, in cui i cattolici furono quasi sempre vittoriosi. Si fece parecchie volte la pace, ma fu sempre di breve durata; ché ben tosto si veniva nuovamente alle armi. Finalmente il re, che si chiamava Carlo IX, con fine meramente politico, cioè per acquietare lo Stato, diede segreti ordini ai cattolici di assalire di nottetempo i protestanti e di ucciderne quanti potessero. Così fu fatto. Queste cose còmpievansi nella notte seguente alla festa di san Bartolomeo (24 agosto 1572), onde quel fatto è noto nella storia sotto il nome di Giornata di S. Bartolomeo. Morto Carlo IX, gli succedette Enrico 1I1, che invece di acquietare le discordie, le ravvivò. Ucciso Enrico III a tradimento, ebbe successore un principe protestante, che prese il nome di Enrico IV. Questi col coraggio, colla prudenza e colle belle maniere pose fine a quella lunga e dolorosissima lotta. Salito sul trono, abiurò l’eresia e fecesi cattolico; e siccome la religione vuol essere predicata non colla forza, ma colle ragioni e colla carità, così egli trattò amorevolmente i protestanti ed in questo modo li acquietò e riconciliò coi cattolici.

Morto Enrico IV, salì sul trono Luigi XIII. Questi affidò quasi interamente la cura dello Stato al celebre Richelieu, il quale governò con autorità assoluta: abbattè i protestanti del regno, ristorò il naviglio, istituì l’Accademia francese, ed accrebbe le ricchezze della Francia facendo venire molti prodotti dalle Indie. Morti quasi contemporaneamente Luigi XIII e Richelieu, il primo ebbe a successore al trono suo figliuolo in età d’anni quattro, che fu chiamato Luigi XIV; al secondo succedette Giulio Mazzarino nella qualità di ministro. Era questi un italiano molto destro ed astuto, che amministrò la Francia durante la minorità di Luigi XIV. In: questo spazio di tempo essendo egli invidiato dai principali della corte, dovette andarsene in esilio per cinque anni, dopo cui ritornò alla sua carica, e vi durò ancora parecchi anni. Luigi XIV giunto all’età di ventidue anni, essendo morto Mazzarino, prese da solo le redini del governo, e la sua prima cura fu di riordinare lo Stato coll’aiuto specialmente di un buon ministro, quale fu Colbert. Molte furono le sue imprese guerresche e grandi le opere di pace. Egli dilatò assai i confini del suo regno, e nel medesimo tempo diede massimo incremento alle arti ed alle scienze; giacché non mai nella Francia prosperarono tanto, quanto nel lungo spazio del suo regno, che durò anni settantuno.

XIII.
La battaglia di Lepanto (135)

(Dall’anno 1560 all’anno 1576).

Cessate alquanto le guerre in Italia, subito ritornarono a fiorire le scienze e l’industria ed il commercio. La città di Venezia per le molte isole che possedeva nel Mediterraneo si poteva ancora considerare come la regina del mare.

Aveva peraltro perduto del suo splendore da che gli Spagnuoli erano divenuti padroni dell’America, ove aprirono larga via al commercio per quei lontanissimi paesi. Ma i Turchi, da oltre cento anni stabiliti a Costantinopoli, vedevano con rincrescimento che i popoli d’Italia, e segnatamente i Veneziani, possedessero isole e città in mezzo alloro vasto impero. Cominciarono dal chiedere ai Veneziani l’isola di Cipro; la quale cosa essendo loro costantemente rifiutata, misero in piede un esercito di ottantamila fanti, tremila cavalli, con formidabile artiglieria. Con questo nuvolo di barbari l’imperatore dei Turchi, che si chiamava Selimo II, assediò Nicosia e Famagosta, che erano le città più forti dell’isola. Nicosia cadde dopo una valorosa difesa; Famagosta, in cui comandava un illustre guerriero veneziano, di nome Bragadino, respinse per sei volte i Turchi, e ne uccise sì gran numero, che più volte dovettero rinnovare l’esercito.

Ma la flotta turca impedendo agl’Italiani di portare soccorso agli assediati di Famagosta, presto Bragadino si trovò all’estrema penuria di uomini e di vettovaglie. I Veneziani allora ricorsero al Papa, Affinché volesse in qualche modo venire in loro soccorso per combattere ed abbassare l’orgoglio degli Ottomani, feroci nemici del cristianesimo. Il romano Pontefice che si chiamava Pio V, piemontese, ricorse al re di Spagna Filippo II, e al duca Emanuele Filiberto. Il re di Spagna, messo in piede un poderoso esercito, lo affidò ad un suo fratello minore, detto Don Giovanni d’Austria. Il duca di Savoia mandò di buon grado un numero scelto di forti soldati, i quali unitisi al rimanente delle forze, che si poterono radunare in Italia, andarono a congiungersi cogli Spagnuoli vicino alla città di Messina. L’anima di quella grande impresa era un veneziano di nome Sebastiano Venieri, ed un nobile romano chiamato Marco Antonio Colonna, il quale col suo gran coraggio e valore erasi meritato il grado di Contestabile di Napoli, o viceré della Sicilia. In quella spedizione egli a nome del Papa capitanava dodici galere di prodi. Alla vista di tanti guerrieri tanto animati per quella giusta impresa, ognuno riputava che la spedizione avrebbe avuto un esito il più felice. E già spiegavan le vele per Cipro, quando giunse la triste nuova che l’eroe Bragadino, dopo aver fugato, vinto, ucciso centocinquantamila Turchi, ridotto senza cibi e quasi a non aver più soldati, era caduto nella mani dei Turchi, i quali contro alla fede data lo scorticarono vivo. In mezzo ai più orrendi strazii Bragadino non fece un lamento: Mi è cosa gloriosa, andava dicendo, morire per la patria e per la religione.

Inorgogliti i Turchi di quel felice successo, con uno spaventoso apparato diressero le vele verso l’Italia. Tosto gli alleati si voltarono contro al feroce nemico: i due eserciti vennero a scontrarsi vicino a Lepanto, città della Grecia. Cento anni prima i Turchi dopo ostinato assedio di quattro mesi, ivi avevano toccata una grande sconfitta con perdita di trentamila soldati; perciò erano ancora molto ansiosi di riparare alla vergogna di quella gran disfatta. I Cristiani dal loro canto, smaniosi di vendicare la morte del gran Bragadino, ed impazienti di misurarsi con quei nemici di Dio e degli uomini, assalgono ferocemente i Turchi: questi fanno gagliardissima resistenza. Allora, miei cari, si vide un terribile spettacolo. Quei due eserciti si avventarono l’un contro l’altro; ogni vascello volgendosi d’improvviso tra vortici di fiamme e di fumo pareva che vomitasse il fulmine da cento cannoni, di cui era armato. La morte pigliava tutte le forme, gli alberi e i cordami delle navi spezzati dalle palle cadevano sopra i combattenti e li stritolavano; e le grida strazianti dei feriti di frammischiavano al rumoreggiare dei flutti e dei cannoni.

In mezzo a tale spaventoso sconvolgimento l’avveduto Venieri si accorge che la confusione cominciava ad entrare nelle navi turche; subito egli fa mettere in ordine alcune galere basse e piene di artiglieri destrissimi, cinge gli alti bastimenti nemici, e a colpi di cannone li squarcia e li fulmina. Allora crescendo la confusione dei nemici, si eccita un entusiasmo indicibile fra i Cristiani, e da tutte parti si leva un grido di vittoria! vittoria! La vittoria è con loro. Le navi turche fuggono verso terra, i Veneziani le inseguono e le fracassano: non è più battaglia, ma un macello: il mare è sparso di vesti, di tele, di frantumi di navi, di sangue e di corpi sbranati: trentamila Turchi morti, dugento delle loro galere in potere dei cristiani.

Quando la notizia della vittoria giunse nei paesi cristiani, fu una gioia universale. Il Senato di Genova e di Venezia decretarono che il dì 7 ottobre fosse giorno solenne e festivo in perpetuo, perché in cotal giorno appunto dell’anno 1571 era succeduta questa grande battaglia.

Il Santo Pontefice Pio V, principale motore di quella gloriosa spedizione, e che colle sue preghiere aveva preparato quel luminoso trionfo delle flotte cristiane, al primo annunzio della riportata vittoria non poté trattenersi dal ripetere in onore di Don Giovanni d’Austria le parole del Vangelo: Vi fu un uomo mandato da Dio che si chiamava Giovanni. Difatto Don Giovanni aveva contribuito assai alla vittoria di Lepanto. Avendo egli scorto in mezzo alla mischia il vascello dell’ammiraglio turco, mosse il primo ad assalirlo, e montatovi dentro, uccise l’ammiraglio di propria mano, indi fatta porre la testa di lui in cima ad una picca, annunziò ai Musulmani che non avevano più capo.

Dopo i due prodi Don Giovanni e Venieri tiene il primo posto il generale Colonna, che colle sue galere cooperò efficacemente alla gloria di quella giornata. Per la qual cosa il Sommo Pontefice non seppe meglio ricompensare il valore spiegato da quel generale nella battaglia di Lepanto che col fargli godere gli onori del trionfo alla foggia degli antichi Romani.

Quando la notizia della vittoria di Lepanto giunse a Filippo II, invece di rallegrarsi della gloria che a lui ne ridondava, egli ne fu tutto ingelosito per suo fratello, e non manca chi dice che gli abbia procurata la morte col veleno.

Non così fecero i Veneziani verso Venieri; i quali pieni di riconoscenza lo elessero loro doge nel 1576.

poiché questa memorabile vittoria è attribuita alla protezione del Cielo e della Beata Vergine, che tutti i Cristiani invocavano colla recita del Rosario, così venne dalla Chiesa istituita la festa del Santissimo Rosario, che in tutta la cristianità si celebra la prima Domenica di ottobre, e per ordine espresso di Pio V, alle litanie lauretane furono aggiunte le parole: Maria auxilium christianorum, ora pro nobis.

XIV.
La peste in Milano (136).

(Dall’anno 1576 all’anno 1584).

Ebbi già altre volte occasione di parlarvi di vari flagelli che cagionarono in vari tempi massima desolazione alla misera umanità; ma niuno è tanto formidabile quanto quello della peste. Questo morbo per lo più si comunica da uomo a uomo in molte guise, perciò i più timidi sogliono fuggire lontano quanto più possono al luogo del male. Quando poi infierisce gravemente, niun rimedio, nessuna fuga, niun preservativo può recar vantaggio all’ammalato. Questo morbo, miei cari, cui si dà il nome di peste, pestilenza, contagio ed anche epidemia, dopo di aver menata grande strage in varie parti d’Italia, prese ad infierire orribilmente in Milano.

Gli scrittori di quei tempi parlano della peste di Milano come di una delle più grandi calamità. Quel morbo da prima si manifestò negli ospedali, poscia cominciò ad assalire le persone malsane, mal nudrite, e segnatamente quelli che si davano alla crapula che è un eccesso brutale nel mangiare e nel bere; finalmente senza distinzione invase tutte le classi dei cittadini. Si costrussero lazzaretti, cioè case alquanto separate dalla città, destinate unicamente per accogliere gli appestati: queste case in breve furono piene. Era un lagrimevole spettacolo! Spesso avveniva che una brigata di amici si mettesse insieme a tavola e nel meglio del pranzo parecchi rimanevano colti dal male, cangiando così quell’allegria in funerale; spesso i padri e le madri al mattino andavano per chiamare i loro figliuoli e li trovavano morti o moribondi. Nelle vie della città si vedevano uomini cadere or qua, or là, e talvolta coloro stessi che correvano per porgere aiuto agli altri restavano colpiti dal morbo, e cadevano sul medesimo istante. Quanti contadini arando nei campi cadevano a metà dei solchi I Quanti signori furono trovati morti alla mattina dai loro servi, che lasciati li avevano sani alla sera! e non mancarono di quelli che morti o moribondi furono trovati nella vettura, in cui eran condotti a fare una breve passeggiata.

I cittadini, atterriti da quella sciagura, fuggivano ove potevano, e in breve rimasero la città e i lazzaretti pieni di morti e di ammalati, senza che vi fosse chi loro porgesse soccorso né spirituale, né temporale. Ma la Provvidenza divina, che veglia sopra il destino degli uomini, ne suscitò uno, che col suo coraggio e colla sua carità venisse in aiuto a quegl’infelici: e questi è S. Carlo Borromeo.

Quest’uomo straordinario fin dalla sua fanciullezza aveva condotto una vita pura ed innocente senza paragone. La sua educazione, l’assiduità allo studio congiunta ad una singolare prudenza, il suo sapere e la molta sua accortezza nel maneggiare grandi affari lo avevan innalzato alla dignità di cardinale fin dall’età di ventitré anni; tre anni dopo venne consacrato Arcivescovo di Milano, poco prima che scoppiasse il morbo fatale. Egli aveva dovuto sostenere gravi persecuzioni da parte del Governatore di quella città, perché volendosi costui immischiare in cose di religione, il santo vescovo gli si opponeva; ed era già sul punto di doversi allontanare dalla sua amata diocesi quando si manifestò la peste. Il governatore, sebbene valoroso capitano di eserciti, insieme coi primari signori abbandonò Milano, senza più occuparsi dell’arcivescovo.

Allora si vide qual cosa possa un buon pastore a sollievo degli infelici! Circondato da una folla di sciagurati, che chiedevano per pietà i soccorsi spirituali e temporali, deliberò di dare la vita pel suo popolo, come aveva fatto il Salvatore, andando egli stesso nelle case private a servire gli appestati. Anzitutto egli fece testamento, e lasciò ogni suo avere a beneficio dei poveri. Oro, argento, mobili di casa, tappezzerie, biancheria, guarniture e perfino le proprie vesti: tutto usò a soccorrere. i poveri e gli infermi. Tuttavia quella carità maravigliosa non potendo bastare ai gravi bisogni in cui la città e tutta la Lombardia si trovava, molti signori, spinti dall’esempio di San Carlo, si davano grandissima sollecitudine per mandargli soccorsi; e le donne erano contente di privarsi dei loro gioielli più preziosi per inviarli al santo prelato, che li convertiva in limosine.

Ma l’epidemia era così crudele ed incuteva tanto terrore, che il Santo rimase eziandio privo di persone di servizio. Nella impossibilità di poter accorrere a tanti bisogni egli fu inspirato di disarmare il braccio di Dio sdegnato pei delitti degli uomini, e ciò con atti di penitenza sì commoventi, che Milano ne serba ancora tuttavia viva la memoria. Egli ordinò delle processioni generali, in cui, seguito da quei pochi cittadini che erano rimasti in città, coperto con cappa di color lugubre, con cappuccio sopra gli occhi, con grossa fune al collo, portando in mano un grande crocifisso procedeva a piè nudi per la città, camminando sui ghiacci e sulle nevi, di cui le vie erano piene. In una di quelle processioni gli avvenne di porre il piede sopra un chiodo, che gli si conficcò tanto profondo nel pollice, che ne perdette l’unghia e lo fece quasi cadere di spasimo. Ciò non ostante egli non volle fermarsi, nemmeno permise che gli fosse medicata la ferita prima che fossero recate a termine le sacre cerimonie. Mosso Iddio a compassione dalle preghiere di tanti infelici, volse loro uno sguardo pietoso, e il morbo fatale cominciò a rallentare di sua fierezza, e poco stante sparì dopo di aver imperversato diciotto mesi. Immaginatevi, o miei cari, quali ringraziamenti ebbero fatto al santo Vescovo!

Fra le molte cose che si raccontano di questo Prelato fu un pellegrinaggio fatto da Milano a Torino a piè scalzi per visitare la santissima Sindone, cioè il lenzuolo in cui era stato avvolto il corpo del Salvatore dopo che fu deposto dalla croce. In quella medesima occasione Carlo Emanuele I, essendo gravemente ammalato, ebbe la consolazione di ricevere il Viatico dalle mani di’ quell’illustre pastore (*).
[(*) La santa Sindone conservavasi allora a Chambéry nella Savoia. Emanuele Filiberto, com’ebbe sentore che l’Arcivescovo di Milano erasi messo in via per prostrarsi, a compimento d’un suo voto, dinanzi alla sacra Reliquia, volle risparmiare all’augusto Prelato un lungo e disagiato viaggio tra le Alpi, e fece trasportare la S. Sindone a Torino senza indugio. E come san Carlo Borromeo fu alle mura della città (anno 1578), il Duca andogli incontro con la sua Corte e ricevettelo con quegli onori ch’egli ben sapeva fare e il Santo Arcivescovo ben si meritava. (V. VALLAURI, Storia di Savoia, pag. 101 e seg.) (a)].
Finalmente quest’uomo straordinario, benedetto da Dio e dagli uomini, morì in Milano in età di anni quarantasei nel 1584. In memoria delle grandi sue azioni gli fu innalzata una statua colossale di rame sopra un monticello vicino ad Arona, luogo di sua nascita. Quella statua si conserva ancora oggidì, e forma l’ammirazione dei viaggiatori. È alta settanta piedi, circa trentacinque metri. Nel solo interno del capo possono adagiarsi più uomini comodamente seduti.

XV.
Riforma Gregoriana. - Sisto V. L’interdetto di Venezia e gli Uscocchi (137).

(Dall’anno 1582 all’anno 1616).

In questi medesimi tempi governava la sede Romana un Papa di nome Gregorio XIII, il cui pontificato è assai memorabile per la riforma introdotta sul modo di computare i giorni dell’anno. Il calcolo dei giorni prima di lui, come dissi altrove, si faceva giusta il calendario ordinato e corretto da Giulio Cesare, l’anno 47 prima della nascita del Salvatore. In questo calendario si calcolava che il sole percorresse il suo corso annuo in 365 giorni e sei ore, perciò ogni quattro anni doveva esserci l’anno bisestile, vale a dire accresciuto di un giorno. Ma più esatte osservazioni fecero conoscere che mancavano undici minuti a compiere il suddetto numero di 365 giorni e sei ore; il divario produce un giorno di più nello spazio di 130 anni. Perciò col giro de’ secoli era già avvenuto che le stagioni e le solennità dell’anno si anticipassero di dieci giorni. Gregorio si accorse di questo inconveniente, e col desiderio di ripararlo radunò in Roma i più rinomati astronomi di quel tempo. D’accordo con essi stabilì, che in ogni spazio di quattro secoli ci fosse un anno bisestile di meno, il quale periodo di tempo giunge appunto a formare un giorno per accumulamento degli undici minuti di ciascun anno. Per formare e regolare le stagioni si convenne, che nell’anno 1582 fossero tolti dieci giorni al mese di ottobre; sicché dopo il 4 si cominciò a contare 15 ottobre. Tutti i principi d’Europa, eccetto l’imperatore di Russia, adottarono questa riforma, che dal nome del Papa si chiamò Gregoriana.

A Gregorio XIII succedette nel Governo della Chiesa Sisto V. Questi per nascita era di umile condizione, ma innalzatosi co’ suoi meriti fino al Pontificato, dimostrò che era ben degno di tanta dignità. In breve riuscì ad allontanare da’ suoi Stati i malandrini che in gran numero infestavano le terre Romane; condusse acqua in Roma da grande distanza; innalzò un alto obelisco nella piazza di S. Pietro in Vaticano, e provvide alle finanze, che erano quasi esauste. Più vasti erano i suoi disegni riguardo all’esterno. Egli si sforzò di abbattere i Turchi, di sottomettere l’Egitto, di riconquistare il S. Sepolcro, di aprire un canale di comunicazione tra il mar Rosso ed il Mediterraneo (*).


[(*) Il disegno di Papa Sisto V incontrò molte difficoltà e fu soltanto messo in opera in questi ultimi anni col famoso taglio dell’Istmo di Suez, eseguito sotto la direzione dell’ingegnere Lesseps (a).]
Ma questi disegni non poterono compiersi per cagione della sua morte avvenuta nell’anno 1590.

Ora passiamo ad alcuni fatti che riguardano alla città di Venezia.

La repubblica di Venezia, miei cari, possiamo dire essere stata in ogni tempo molto affezionata alla cattolica religione e di buon accordo col romano Pontefice. Mentre poi quasi tutta l’Europa era inaffiata di sangue umano sparso per le guerre eccitate dai protestanti, i Veneziani vivevano in pace, solo badando a promuovere il commercio e a portare i prodotti della loro industria nelle varie parti del mondo.

Ma un uomo turbolento ed apostata, conosciuto col nome di fra Paolo Sarpi, invece di praticare e sostenere quella religione cui erasi con voto speciale consacrato, si adoperò per introdurre l’eresia i, Italia, e specialmente in Venezia sua patria. Era questa un’azione da riprovarsi altamente; poiché così operando, egli cagionava, come di fatto avvenne, un grave danno ai suoi concittadini.

A fine di riuscire nel suo intento, stabilì una corrispondenza con alcuni ministri protestanti, ed intanto preparava i Veneziani a ribellarsi al Papa come Capo della Cristianità. Il Senato, seguendo i suoi consigli, aveva stabilito molte leggi contrarie alla Chiesa ed alla consuetudine in ogni tempo praticata dai cattolici. Quel Senato aveva con leggi proibito agli ecclesiastici l’alienazione dei loro beni e la costruzione di nuove chiese; nemmeno era loro permesso di vendere i proprii stabili a persone del clero, e quindi fece mettere in prigione alcuni sacerdoti senza partecipazione all’autorità della Chiesa.

Questo procedere era anticattolico, perciocché i buoni cattolici non istabiliscono leggi intorno a cose ecclesiastiche, senza l’accordo colle autorità della Chiesa, di cui è Capo il Romano Pontefice. Il Papa di quel tempo, di nome Paolo V, ne fu gravemente inquieto, ed avvisò più volte i Veneziani, che non volessero degenerare dai loro maggiori nelle massime di religione; venissero con lui ad un pacifico accordo, senza costringerlo ad usare le censure, che sono le punizioni di cui la Chiesa suole solamente servirsi in casi estremi.

Il senato di Venezia, sempre istigato dall’ostinato Paolo Sarpi, non diede ascolto alle paterne ammonizioni del Papa; e come una cosa ottima, se si corrompe, diventa pessima, così il Sarpi, uomo d’ingegno, ribellandosi al capo della propria religione, era divenuto un vero strumento d’iniquità.

Allora il Papa scomunicò il doge ed il Senato, e mandò l’interdetto sul dominio Veneto. L’interdetto è una pena terribile della Chiesa cattolica; perciocché un paese colpito dall’interdetto deve immediatamente sospendete l’esercizio del culto religioso. I Veneziani, in luogo di cercare di riconciliarsi col Papa, divennero più ostinati. Comandarono al clero di fare egualmente le sacre funzioni; al che rifiutandosi i veri ecclesiastici, perché era un tradire la propria coscienza, si venne ad un’aperta persecuzione; per cui molti sacerdoti e varie corporazioni religiose, ricusando di ubbidire, furono mandati in esilio (1616).

Il re di Francia ed il duca di Savoia, mossi dai mali e dallo scandalo di cotanta ostinazione dei Veneziani, s’interposero; ed avendo ottenuta la riparazione dei torti fatti alla Chiesa, fu tolto l’interdetto, si riaprirono le chiese, i religiosi tornarono ai loro chiostri, e ciascuno poté liberamente praticare la cattolica religione.

Solamente il Sarpi rimase ostinato: egli si sforzò ancora diciassette anni con prediche e con iscritti per introdurre il protestantesimo in Venezia, in capo ai quali morì senza dare alcun segno di ravvedimento.

Terminate le discordie religiose, i Veneziani si trovarono in nuovi disastri cagionati da una banda di assassini, noti sotto il nome di Uscocchi. Costoro abitavano gli scogli dell’Adriatico dalla parte della Dalmazia, donde facevano terribili scorrerie sopra i Veneziani, spogliandoli e trucidandoli. Quando erano inseguiti si ricoveravano negli Stati Austriaci, ed il duca d’Austria, che si chiamava Ferdinando, li proteggeva; anzi dichiarò aperta guerra ai Veneziani per sostenere gli Uscocchi.

Agli Austriaci si unirono gli Spagnuoli, e la repubblica dovette sostenere una guerra micidiale per mare e per terra durante tre anni, finché fu conchiuso un trattato di pace, in forza del quale si obbligò il duca a trasferire altrove la pericolosa masnada degli Uscocchi.




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