S giovanni bosco



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XL
La guerra del 1859

ossia la conquista della Lombardia (162).
La pace conchiusa nel 1849 tra il Piemonte e l’Austria dopo i disastri di Novara fu piuttosto un armistizio che una pace: poiché da una parte e dall’altra continuarono tali animosità, che ognuno poteva giudicare i due nemici non essersi veramente conciliati. Cagione principale di questi rancori fu l’idea di fare un solo regno di tutta Italia, idea da tanto tempo vagheggiata, ma non mai potutasi effettuare. L’Austria sapeva tutto e viveva in continuo timore di essere molestata nel possesso della Lombardia e della Venezia. Queste due provincie poi erano continuamente in agitazione, e perciò presidiate da grosso numero di gente armata pronta ad ogni evento per tutelare l’ordine e difendersi in caso di attacco.

Ma quello che da quasi dieci anni si andava immaginando come idea, cominciò a dare speranza di essere realizzato in sul finire del 1858. Il Piemonte ravvisava una minaccia di guerra nei forti armamenti, che l’Austria aveva fatto nel Lombardo­Veneto, quindi si diede anch’esso ad armare. Intanto diveniva sempre più accreditata la voce che si volesse nuovamente tentare la liberazione del Lombardo-Veneto dal dominio austriaco. Ciò nulladimeno fin qui non erano che dicerie. Il principio della guerra si può collocare in alcune parole, che Napoleone III disse al barone Hubner, ambasciatore austriaco a Parigi, nel ricevimento solenne del primo dì dell’anno 1859. In quelle parole taluni scorsero una sola rimostranza verso l’Austria; ma altri le ebbero per indizio di guerra; il fatto mostrò che costoro non s’ingannavano. D’allora in poi l’Austria cominciò ad aumentare straordinariamente le sue genti in Italia. Il Piemonte si diede anche ad armarsi potentemente; e la Francia (lasciando a parte le ragioni che a ciò la spinsero) si collegò coi Piemontesi contro l’Austria. Mentre facevansi questi apparecchi guerreschi, fu messa in campo l’idea di un congresso delle grandi potenze per assestare le cose d’Italia senza spargimento di sangue. Ma Dio voleva visitare i popoli col flagello della guerra, ed il congresso andò fallito. L’Inghilterra fece anch’essa proposte di riconciliazione, le quali non ottennero miglior esito del congresso.

L’Austria allora, 23 aprile, minacciò d’invadere il Piemonte, se fra tre giorni non si venisse ad un disarmamento generale. Rifiutando il Piemonte di assoggettarsi a così fatte pretese, la guerra fu dichiarata alli 26 aprile. In questo giorno stesso cominciarono ad arrivare truppe francesi in Genova, mentre altre andavano giungendo in Torino per la via del Moncenisio. I migliori generali di quella guerresca nazione guidavano i corpi d’armati, che numerosi venivano in Italia; Napoleone era alla testa de’ suoi.

Gli Austriaci, dopo il rifiuto del Piemonte, passarono il Ticino il 29 aprile, e si avanzarono fino a Mortara, Novara, Vercelli, Vigevano, Sannazzaro e Trino, contentandosi di alcune imposizioni di viveri, di bestiame e di denaro nella città e nei borghi in cui passavano. Troppo lungo sarebbe il parlare di tutti i fatti d’armi che ebbero luogo durante questa guerra, perciò noi accenneremo soltanto i principali, in cui si segnalarono le milizie piemontesi.

Dopo un piccolo attacco a Frassinetto, paese posto sulle rive del Po vicino a Casale, il nemico seguitò ad avanzarsi fino a Tortona, Voghera e Biella. Ma non vi furono vere battaglie se non al 20 maggio. In questo giorno stesso ebbe luogo un vivo combattimento a Montebello presso Casteggio, paesi poco distanti dal Po e già a voi noti per la vittoria riportata dal celebre capitano Annibale contro ai Romani. Ivi gli Austriaci ebbero la peggio. Ai 30 di maggio fu grande battaglia a Palestro, in cui gli alleati sotto la guida del nostro Re fecero mostra di gran valore combattendo il nemico e facendo molti prigionieri. Più importante fu la battaglia del 4 giugno, per cui gli Austriaci furono vinti a Magenta, lasciando nelle mani degli alleati molti prigionieri e sul terreno gran numero di morti e di feriti. Dopo questi successi Vittorio Emanuele e l’imperatore Napoleone poterono entrare in Milano alli 8 di giugno. Il giorno dopo riportarono altra splendida vittoria presso ad un borgo molto celebre nella storia, detto Melegnano o Marignano. Ma la battaglia decisiva fu a Solferino ed a S. Martino, che sono due piccoli paesi prossimi al Mincio, fiume che divide la Lombardia dal Veneto. Colà fu combattuta una battaglia, di cui non si legge siavi stato esempio dopo quella d’Ezio e di Attila avvenuta nelle pianure Catalaune o di Chalons. La linea di battaglia si estendeva oltre a dieci miglia. Si calcola che si trovassero circa 250.000 uomini da ambe le parti. L’imperatore dei Francesi, il re di Sardegna e l’imperatore d’Austria comandavano in persona i loro eserciti. Il combattimento cominciò il 24 giugno alle quattro del mattino. Dall’esito di quella battaglia dipendeva la gloria o la sconfitta d’una delle due nazioni; perciò si combatté accanitamente dall’una e dall’altra parte. Gli Austriaci, più pratici dei siti e più favoriti dalle loro posizioni, riportarono molti vantaggi, mentre i Francesi ed i Piemontesi avevano toccato gravissime perdite. Sino alle tre dopo il mezzodì la vittoria pareva pendere pegli Austriaci, quando gli alleati favoriti dalla veemenza di un uragano, assalirono i nemici con tale impeto e con tanto coraggio, che dopo orribili massacri la vittoria fu per loro. Laonde giungendo la notte, il campo di battaglia rimase in potere dei nostri.

Grandi furono le perdite da ambe le parti. Il nemico dovette ritirarsi al di là del Mincio e rinserrarsi in una pianura difesa dalle fortezze di Mantova, Peschiera, Verona e Legnago. Questa posizione era formidabile per chi volesse attaccarla, e gli alleati, sebbene vincitori, giudicarono bene di venire ad una sospensione d’armi per dare la sepoltura ai morti, curare i feriti e riparare ai guasti toccati in quella memoranda giornata. Il giorno 8 di luglio fu conchiuso l’armistizio di Villafranca, che sospendeva le ostilità sino al 16 agosto. Pare che il successo delle armi avrebbe dovuto incoraggiare gli alleati a proseguire l’opera incominciata; ma Napoleone III capì che cimentando il suo esercito contro a quelle fortezze mettevasi in pericolo di perdere quanto aveva guadagnato. Perciò proposto un colloquio all’imperatore d’Austria a Villafranca, l’11 di luglio, furono segnati colà i preliminari di una pace, che fu più tardi definitivamente conchiusa in Zurigo, città della Svizzera, per mezzo d’inviati delle tre potenze guerreggianti. I punti più importanti del trattato sono i seguenti: L’imperatore d’Austria cede all’imperatore dei Francesi i suoi diritti sulla Lombardia, eccettuate le fortezze di Mantova e di Peschiera. L’imperatore dei Francesi rimette il territorio ceduto al re di Sardegna.

Così una guerra, che pareva dover durare assai, fu terminata quando meno era da aspettarsi, e l’iride di pace tornò a balenare sui nostri Stati. I Francesi, gloriosi delle vittorie riportate, ritornarono in patria, ed il Piemonte diè mano a consolidare il suo governo nelle nuove provincie. Tuttavia l’ingrandimento degli Stati sardi sulla Lombardia fu assai indebolito dalla cessione della Savoia e di Nizza fatta alla Francia dal nostro governo. In questo frattempo altri avvenimenti compievansi in Toscana, a Parma, a Modena e nelle Romagne, di poi a Napoli ed in Sicilia, i quali per la loro gravità e perché troppo recenti (*), si devono rimettere ad altro tempo, prima di poterne parlare imparzialmente e con verità.
[(*) Il capitolo fu scritto nel 1861 per la terza edizione del libro. I fatti posteriori al 1859, fino al 9 gennaio 1873, sono ricordati nel Sommario Cronologico aggiunto nel 1874 in fine della Storia (*).]


XLI.
Uomini celebri. - Carlo Denina (163)

(Nato nel 1731, morto nel 1813).

La serie dei gravi avvenimenti, che vi esposi dalla venuta di Napoleone I in Italia, erano così tra loro collegati, che io stimai bene di non interromperli per parlarvi degli uomini celebri, i quali in questo medesimo tempo accrebbero assai la gloria italiana; credo ora di farvi cosa grata tessendovi breve racconto della vita dei principali di essi, secondo l’ordine del tempo in cui vissero. La qual cosa faccio tanto più di buon grado, in quanto che alcuni di essi forse saranno stati da voi personalmente conosciuti. Comincio da Carlo Denina.

Sulla sinistra riva del Po, tre miglia in distanza dalla città di Saluzzo, avvi un paese assai popolato, detto Revello. In esso ebbe i natali Carlo Denina il 28 gennaio 173 l. Fin dalla prima sua giovinezza egli si mostrò inimicissimo dell’ozio. Ogni momento di tempo era per lui un tesoro. Il che contribuì a farlo progredire maravigliosamente nello studio. Sentendosene la vocazione, abbracciò lo stato ecclesiastico. In giovanile età fu eletto professore di eloquenza italiana e greca nell’università di Torino. Ivi trattò molto col dotto abate Valperga di Caluso e col celebre tragico Vittorio Alfieri di Asti. Anzi il Denina consigliò l’Alfieri a darsi con maggiore assiduità allo studio e a tenere una vita più regolata e più cristiana. Fu in questo tempo che, confortato, e forse anche aiutato dall’insigne cardinal Costa di Arignano, arcivescovo di Torino, scrisse la prima e la più pregiata delle sue opere: Le rivoluzioni d’Italia, che fu tosto accolta con grande ammirazione e lode da tutti i dotti d’Europa. La fama di sua erudizione giunse fino al re di Prussia Federico II. E poiché il Denina desiderava di scrivere un’opera da intitolarsi Rivoluzioni di Germania, quel re lo invitò a recarsi a Berlino, capitale del suo regno, e gli offerì mezzi e protezione per intraprendere l’opera ideata. Federico, nel suo primo colloquio col Denina, gli chiese in quale spazio di tempo credeva di poter compiere le Rivoluzioni di Germania. In cinque anni, gli rispose. Allora, soggiunse il re, io non le vedrò più. E fu veramente così, perché quel re morì prima dei cinque anni. Qualche tempo dopo il Denina fu chiamato in Francia. Napoleone, anche in mezzo alle sue guerresche imprese, diede segni di stima verso di lui. Lo accolse più volte in udienza particolare, accettò la dedica di un suo libro, e lo fece suo bibliotecario privato in Parigi. Sorprende l’animo il riflettere alla moltiplicità ed alla varietà di opere e di volumi composti da questo scrittore. Ma l’opera di special pregio e che lo fece salire a grande rinomanza fu quella intitolata: Le Rivoluzioni d’Italia.

Quest’opera è composta di 24 libri, in cui, cominciando dagli antichi Etruschi e passando ai Romani, viene investigando le cagioni della loro grandezza e decadenza; indi tratta delle invasioni dei barbari, delle repubbliche del medio evo e del risorgimento delle potenze Italiane. Tutti i dotti stimano quest’opera, sia per lo stile sia per la esattezza dei fatti, che egli espone (*).
[(*) Carlo Boucheron, di cui più sotto fo un cenno, nell’aurea vita del Caluso dice del Denina: Primus historiam uberius audentiusque tractavit (a).]
Basti il dire che appena stampata fu tradotta in tutte le lingue d’Europa e nello stesso greco moderno e perfino nella lingua turca.

Il Denina aveva passato 82 anni di vita nello studio e nella fatica. Anche nella sua vecchiaia non lasciava un momento senza leggere o sentire a leggere, o scrivere o correggere qualche suo lavoro. Egli attendeva a compiere un’opera, che doveva servire come di conclusione alla sua Storia d’Italia, quando fu colto da una paralisia, che lo tolse di vita in Parigi il 5 dicembre 1813.

Egli era di mediocre statura, ed agile di persona; occhio penetrante, pronto a parlare, energico nel ragionare; sino all’ultima vecchiaia apparve sempre in lui una mente risoluta ed operatrice. La sua erudizione, i suoi bei modi di trattare lo rendevano piacevole a tutti.


XLII.
Giuseppe De-Maistre (164)

(Nato nel 1754, morto nel 1821).

Un profondo scrittore politico e religioso fu il conte Giuseppe De-Maistre, nato il 10 aprile 1754 in Ciamberì. Suo padre era presidente nel Senato di Savoia. La sollecitudine dei genitori, la bella indole e il grande ingegno del figlio contribuirono ai maravigliosi progressi che egli fece negli studi. Toccava appena ventidue anni quando entrò nella carriera delle pubbliche magistrature, e ben presto fu nominato Sostituto dall’Avvocato fiscale generale di Savoia, donde fece passo al Senato. Il suo profondo studio nella politica e nella religione, la frequenza di persone dotte e pratiche dei grandi affari, le sue produzioni filosofiche e letterarie stampate fin dalla giovanile età portarono il De-Maistre a grande rinomanza. Fu cosa notabile che fino dal 1784 abbia potuto prevedere gli sconvolgimenti politici, che dovevano ben tosto metter sossopra la Francia e l’Europa. Fra le altre cose egli soleva dire: Questo secolo è caratterizzato da uno spirito distruttore, che nulla ha risparmiato; leggi, costumi, instituzioni politiche, tutto ha assalito, tutto cerca di scuotere e distruggere. Il disordine e la strage si estenderanno sino a certi confini, di cui per ora non si può comprendere quale sia per essere il termine.

Sosteneva da sei anni la carica di senatore in Ciamberì, quando (1793) i Francesi invasero la Savoia. Allora si ritirò in Piemonte. Fedele al suo sovrano Vittorio Amedeo III non lo abbandonò; e poiché il suo successore Carlo Emanuele IV dovette allontanarsi da’ suoi Stati di terraferma, egli lo accompagnò nell’isola di Sardegna, contento di dividere con. lui il pane della sventura. Mentre tutta Europa era in rivolta (1803), il De-Maistre fu mandato in qualità di ministro plenipotenziario a Pietroburgo presso l’imperatore della Russia. In quella congiuntura egli fece conoscere il suo raro ingegno e nel tempo stesso la sua grande fermezza nella politica e nella religione. Caduto Napoleone e ritornati i sovrani tranquilli possessori dei loro Stati, egli fu dal suo re (1817) richiamato in Torino a nuove cariche in favore della patria.

Al vedere il conte De-Maistre costantemente occupato nei grandi affari politici, voi crederete, cari amici, che non poté più coltivare gli studi. Ma non è così. Egli era inimicissimo dell’ozio e in mezzo alla moltitudine delle sue occupazioni trovò tempo a scrivere molte opere di sublime erudizione, che lo fecero chiamare il santo padre della filosofia. Amava la patria e la religione; e mentre le sue fatiche tendevano a beneficare altrui, co’ suoi scritti faceva una costante opposizione ai princìpi della moderna falsa filosofia, ovvero dell’incredulità. Fra le sue opere è sommamente pregiata quella che porta il titolo: Del Papa. L’autore parlando dell’infallibilità del Papa si esprime così: «L’infallibilità nell’ordine spirituale e la sovranità nell’ordine temporale sono due parole perfettamente sinonime; l’una e l’altra esprimono un’alta potenza, che domina tutte le altre e da cui tutte derivano. Quando noi diciamo che la Chiesa è infallibile, non dimandiamo per lei alcun privilegio particolare. Noi dimandiamo soltanto che ella goda del diritto comune a tutte le sovranità possibili, le quali tutte operano necessariamente come infallibili; imperciocchè ogni governo è assoluto; e dal momento che il suddito sotto pretesto di errore o d’ingiustizia gli si può opporre, tal governo non esiste più. La sovranità ha certamente delle forme differenti; ma quando essa ha parlato, ogni suddito è in dovere di sottomettersi senza appello. Tale deve essere eziandio il governo della Chiesa, altrimenti non avrebbe più né aggregazione, né assemblea, né unità. L’unica differenza sta, che nelle sovranità temporali l’infallibilità è umanamente supposta, e nella spirituale del Papa è divinamente promessa». Così pensava quel filosofo cristiano.

È pure segnatamente celebre l’opera del De-Maistre intitolata: Serate di Pietroburgo, nella quale in forma di ameni trattenimenti tratta parecchie importanti questioni, in cui si nota una morale pura e religiosa, l’amore dell’ordine, della giustizia, grande elevazione di pensieri e forza di eloquenza. Le Serate di Pietroburgo si possono appellare un Trattato di filosofia cristiana.

Mentre gli scritti del De-Maistre correvano in ogni parte di Europa e si traducevano in tutte le lingue, egli giungeva ai sessantott’anni di una vita consumata a favore della patria e della religione. Era ministro di Stato, aveva ricevuto una grande decorazione dal suo re, quando nel 26 Febbraio 1821, munito dei conforti della religione, tutto lasciava per andare a ricevere il premio dei buoni nella patria dei beati. Poco prima della morte significava ad un amico il prossimo suo fine con queste parole: «Mi accorgo che la mia sanità e il mio spirito s’indeboliscono ogni giorno più. Nulla più mi rimane al mondo se non quello: Hic iacet, qui giace. Io finisco e me ne vo coll’Europa; non è egli un andarmene in buona compagnia?». Queste ultime parole egli proferiva prevedendo le grandi guerre e gli sconvolgimenti politici che si andavano preparando, e che sarebbero seguiti dopo la sua morte.


XLIII.
Antonio Canova (165)

(Nato nel 1757, morto nel 1822).


Ai progressi delle scienze storiche e letterarie vanno congiunte le opere insigni di pittura e di scultura di molti valenti artisti. lo voglio almeno farvene conoscere uno chiamato Antonio Canova, che a ragione possiamo chiamare il ristoratore della scultura antica, il più celebre dopo Michelangelo Buonarroti. Egli era figlio di un povero scalpellino, e rimasto privo di padre in tenera età, fu affidato alle cure di un suo avolo che per tempo lo mise al mestiere del padre. La fortuna volle che nei dintorni di Possagno, patria del Canova, paese non molto lontano da Venezia, venisse in villeggiatura certo Giovanni Fallieri, senatore Veneziano. Vedendo la naturale attitudine al lavoro, la diligenza e l’indole soave di Antonio pensò di beneficarlo. È curioso l’incidente che fece conoscere il genio di Canova per la scultura. Il Fallieri lo invitò un giorno a pranzo, e mentre gli altri commensali erano intenti ai loro discorsi, Antonio tutto in silenzio, come per divertimento, fece un lione di butirro. Tutti ammirarono la esattezza di quel lavoro.

Affinché poi l’ingegno del nostro giovanetto potesse essere a dovere coltivato il Fallieri lo mandò ad imparare l’arte della scultura in Venezia. Fece Antonio maravigliosi progressi. Quando poi giunse a conoscere bene l’arte sua, si accorse che senza studiare il disegno non avrebbe potuto divenire un valente artista: onde convenne col suo padrone che gli lasciasse libera una parte del giorno per esercitarsi nel disegno.

In mezzo alle vicende politiche la scultura era decaduta; ed egli si adoperò coll’ingegno, coll’arte e collo studio a far progredire quest’arte maravigliosa. Egli fece molte statue che sono oggidì, e lo saranno sempre, l’ammirazione di tutti. Pieno di gratitudine pel suo benefattore fece parecchi lavori secondo che potevano tornargli di maggior gusto. Con queste sue opere e con altre assai il giovane scultore si acquistò grande fama e considerevoli somme di danaro. Con questo mezzo poté appagare il suo desiderio di recarsi a Roma per disegnare i capolavori degli artisti antichi.

In quella grande città il nome di Antonio Canova divenne presto l’ammirazione degl’Italiani e dei forestieri, che tutti applaudivano alla maestria del grande artefice, che fin d’allora salutavano principe della scultura. I lavori che lo segnalarono furono il sepolcro del Papa Clemente XIII, e quello di Clemente XIV, le quali due opere costarono molta fatica al Canova, ma ne fu largamente ricompensato dalla buona riuscita del lavoro e dai generosi stipendi a lui retribuiti.

Ma egli in cuor suo sentiva la propria ignoranza nelle buone lettere, e mancando queste si accorgeva mancargli le ali con cui l’immaginazione di un artista si eleva alla perfezione de’ suoi lavori. Comprò dunque libri, scelse buoni maestri e si pose a studiare la lingua italiana, i nostri poeti e la storia; imparò eziandio il francese e l’inglese. E poiché la moltiplicità delle sue occupazioni non gli permettevano di appagare il suo desiderio sempre avido di cognizioni letterarie, egli trascelse alcuni giovinetti e da loro facevasi leggere gli scrittori classici mentre egli lavorava i marmi.

Nell’anno 1798, essendo Roma invasa dalle soldatesche della repubblica francese, non v’era più chi volesse spendere danaro in quadri, statue ed architettura, quindi le arti languivano, e la miseria era generale. E ciò fu sempre verificato dalla storia, che quando i disordini mettono scompiglio in Roma, che si può a buon diritto chiamare madre delle arti, colla miseria vi succede il decadimento delle scienze e delle arti. Questo affliggeva l’anima del Canova, che perciò con maniere le più delicate aiutava gli apprendisti e soccorreva gli artisti più bisognosi. A questi mali si aggiunsero i disordini per cui il Papa fu allontanato da Roma; di che il Canova disgustato si ritirò in sua patria ed ivi dimorò finché l’imperatore d’Austria lo chiamò alla sua corte per fargli eseguire alcuni lavori promettendogli pensione e buoni stipendi; a patto però che mettesse studio a Vienna. Ma egli innamorato dell’Italia non poté risolversi ad accettare le generose offerte di quel sovrano.

Acquietate alquanto le cose di Roma, Canova vi si ricondusse e venne accolto onorevolmente dal Papa che lo creò cavaliere ed ispettore delle belle arti. Buonaparte innamorato egli pure delle meraviglie che si raccontavano del Canova, volle chiamarlo a sé nella capitale della Francia. Napoleone al primo vederlo gli disse:

- Come vanno le cose a Roma?

- Maestà, Roma languisce, gli antichi monumenti rovinano, il commercio è interrotto.

- Visiterò Roma; amo il bene dell’umanità, e quello voglio.

Intanto ditemi: quali cose possono farvi bisogno?

- Nulla, Maestà, vengo agli ordini vostri.

- Farete la mia statua.

Conversando poi familiarmente col gran capitano lo ritrasse in creta per iscolpirlo poi in marmo, e appena ebbe compiuto il suo lavoro si mise in viaggio alla volta di Roma, vivo oggetto de’ suoi desideri e sua dimora prediletta.

In quel tempo Canova compì molti suoi lavori, tra i quali l’Italia che piange sulla tomba di Alfieri, che, come sapete, fu un insigne poeta tragico della città d’Asti, nato nel 1749 e morto in Firenze nel 1803. Propose pure al Papa di raccogliere nelle sale del Campidoglio i busti ed i ritratti degli Italiani più insigni nelle scienze, lettere ed arti. Il Papa acconsentì, ma ordinò che si mettesse anche il busto del Canova vivente.

Napoleone preso di ammirazione pel Canova, e quasi per compensarlo dei lavori fatti per lui, lo nominò Senatore dell’impero francese. Il credereste? Quel decreto offese la modestia dello scultore e non vi fu mezzo per risolverlo ad accettare l’alta carica. Ciò non conviene a me, egli diceva, io sono un semplice artista, io amo le belle arti e solo di esse voglio occuparmi. Andò tuttavia di nuovo a Parigi per modellare la statua di Maria Luigia sposa di Buonaparte. Mentre stava compiendo il suo lavoro, il valente scultore conversando con Napoleone, spesso colle lacrime agli occhi diceva: - Maestà, io vi raccomando le accademie di Roma, di Venezia e di Firenze.

- Vi appagherò, io amo l’Italia perché i miei genitori sono italiani.

- Dunque V. M. è italiano, e noi ce ne vantiamo.

- Lo sono di certo, conchiuse Napoleone.

In quei domestici colloquii Canova ottenne larghi assegni pecuniari per le accademie d’Italia. Avvenne altra volta che Canova, vedendo Napoleone tutto pensieroso, gli domandò qual Cosa occupasse così seriamente i suoi pensieri. «Devo pensare, rispose, a settanta milioni di sudditi, a ottocento mila soldati, a centomila cavalli: nemmeno i Romani ebbero tanta forza d’armi».

Caduto Napoleone, il Sommo Pontefice Pio VII ritornato a Roma incaricò il Canova di andare a Parigi per riconoscere i monumenti d’arte che i Francesi avevano trasportato da Roma e dagli Stati papali. La commissione era difficile, perciocché i Francesi tenevano in gran pregio quei rari monumenti dell’antichità. Non di meno Canova l’accetta, va a Parigi e tanto fa e tanto dice che riesce a riacquistare quasi tutti i monumenti rapiti nell’invasione francese. Quei monumenti con indicibile gioia del popolo italiano vennero restituiti a Roma.

Mentre tutti i Romani sono in festa per accogliere il Canova nel suo ritorno, il Papa gli conferisce il titolo di Principe e gli assegna una pensione vitalizia di tremila scudi, circa sedici mila franchi. Non potendo il Canova rifiutare il dono del sovrano, ne usa così nobilmente che meglio non possono fare i prìncipi, distribuendo quel danaro alle accademie, ai giovani più studiosi, agli artisti poveri di Roma. Da quel momento quasi tutti i prìncipi d’Europa andavano a gara per avere qualche lavoro del Canova, offrendogli decorazioni le più gloriose.

Gli onori, che si accumulavano sulla persona del Canova, non lo fecero punto insuperbire, e nemmeno valsero a fargli deporre lo scalpello. Le sue sculture furono tutte riguardate quali altrettanti capolavori, tra i quali una effigie colossale di Pio VI, che tutto dì forma uno speciale ornamento di S. Pietro in Vaticano. La mente sublime, le principesche liberalità e le maniere soavi del Canova traevano in alta ammirazione i popoli, fra mezzo a cui recavasi. Quando un giorno entrò nel teatro di Verona, ed altra volta in quello di Padova, gli spettatori si alzarono tutti in atto di riverenza, e fecero plauso ad un artista, che colle sue opere tanto onorava il nome italiano.

Canova per ringraziare Iddio dei doni dell’intelletto e dei tanti favori di cui lo ricolmava, pensò di recarsi in Possagno con animo d’innalzarvi un gran tempio. S’accinge immediatamente all’impresa; lo scultore si fa architetto e pittore, raccoglie massi, statue, bassorilievi; e in breve si compie un tempio il più magnifico che un privato possa costruire, e che forma la meraviglia dei forestieri che lo vanno a visitare. Ma ogni mortale ha il limite del suo vivere; mentre l’opera del tempio progredisce, egli cade ammalato, e pel desiderio di consultare valenti medici si conduce a Venezia. Colà in mezzo al pianto degli amici e dell’amato fratello, munito dei conforti della religione, prepara si ad incontrare tranquillamente la morte. Le ultime sue parole furono: L’anima bella e pura è accolta da Dio (*). Morì nell’anno 1822.


[(*) Queste parole sembrano un ricordo del salmo 23 dove dice: Quis ascendet in montem Domini, aut quis stabit in loco sancto eius? Innocens manibus et mundo corde (a)].
Il Canova era di un’indole soavissima; fu vero amico coll’amico, sincero e rispettoso coi grandi, modesto con tutti. Vestiva pulito, ma senza lusso; perdonava le ingiurie, beneficava i parenti, gli artisti poveri, e persino gl’invidiosi della sua fama. Amava molto la sua patria e sforzò il suo ingegno senza badare a fatiche e a stenti per accrescerle onore. L’Italia deve a lui la gloria di superare tutte le altre nazioni nella scultura. Centosettantasei lavori uscirono dalla sua officina e sono altrettanti portenti! Si dedicarono a lui otto medaglie mentre viveva; dopo morte si scrissero di lui più vite. Insomma in vita e dopo morte meritò gli onori che si sogliono tributare ai grandi uomini della terra. Le sue ossa riposano in Possagno nel tempio da lui eretto.

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