S giovanni bosco



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XLIV.
Antonio Cesari (166).

(Nato nel 1760, morto nel 1828).

La lingua italiana, che noi abbiamo veduto sorgere nel secolo XIII con tanta bellezza di parole e sublimità di pensieri, andò soggetta a gravi guasti in mezzo alle guerre che l’Italia ha dovuto sostenere. Molte parole francesi, inglesi, tedesche vennero a mischiarsi colla nitida nostra favella, onde essa era imbrattata di parole bastarde appartenenti ad altra lingua. Vittorio Alfieri si era occupato a richiamarla alla sua purezza in quella parte di poesia che si appella tragedia; e Carlo Denina aveva pure lavorato per quanto riguarda la storia. Ma l’uomo che sembrò dato dalla Provvidenza per riformare la lingua del nostro paese e portarla in fiore come era nel 300, fu il celebre Antonio Cesari. Si può dire che questo grande ingegno non sia vissuto che per questa lingua; componeva, traduceva, predicava, parlava, e, staremmo anche per dire, sognava nella lingua del 300! Per questo motivo il Cesari meritò di essere annoverato fra i primi letterati.

Egli nacque in Verona li 16 gennaio 1760 da un mercante. Aveva un’indole buona, ed era costantemente esatto nell’ubbidienza e negli altri suoi doveri. Oltre alla bontà dei costumi, il padre, scorgendo in Antonio una grande attitudine allo studio, lo mandò alle scuole del seminario, ove imparò grammatica, rettorica, filosofia. Tutti i suoi compagni e gli stessi maestri ammiravano il profitto e il grande ingegno di Antonio. A diciott’anni, per non occuparsi in altro fuorchè nello studio e nella pietà, vestì l’abito ecclesiastico della Congregazione dell’Oratorio. Nello scopo di meglio intendere e gustare la lingua italiana studiò a fondo la lingua greca e la latina, mentre attendeva alla teologia ed alla storia. Ma se di queste lingue egli era innamorato, potevasi dire spasimante dell’italiana. Avvenutosi, come egli soleva dire con giubilo, nella fortuita lettura dell’opera intitolata: Specchio della vera penitenza di Fra Iacopo Passavanti, fu pieno di meraviglia a quel candore di lingua e di frasi. Lo baciò e ribaciò le mille volte, come quello che con mano sì dolce gli aveva dato il passo e la chiave agli scrittori del 300. Per animare tutti a studiare l’italiano nella sua purezza originale diede opera che fossero pubblicati alcuni dei migliori trecentisti. Tra essi rimise in luce l’amato libro del Passavanti, le Vite dei Santi Padri di Domenico Cavalca, i Fioretti di S. Francesco d’Assisi ed altri libri di quell’aureo secolo della lingua italiana.

Intanto si pose a leggere, studiare e spiegare Dante a tutti quelli che volevano andarlo ad ascoltare. Lo studiò 40 anni, e l’imparò tutto quanto a memoria. L’udire qualcuno a censurare la Divina Commedia era un far montare sulle furie il nostro Cesari.

Le vicende politiche turbarono alquanto i suoi studi; ma passato il tempo della rivoluzione francese e ricomposte le cose in Italia, egli continuò ad occuparsi a tutt’uomo per far rifiorire la lingua del 300. A quest’uopo ristampò il vocabolario degli Accademici della Crusca con aggiunte che furono chiamate le giunte Veronesi. Scrisse molte belle opere che per la purezza della lingua, della morale e per la materia che trattano furono annoverate fra le opere classiche. I dotti le giudicano testi di lingua da imitarsi, ed io vi raccomando di farne lettura. Le più celebri di queste opere sono: Le bellezze di Dante; Alcune spiegazioni dei sacri libri; La vita di Gesù Cristo; I fatti degli Apostoli; I fiori di storia ecclesiastica, che vengono reputati come preziosi monumenti di eloquenza e di lingua italiana.

In mezzo ai profondi suoi studi non dimenticava i doveri di sacerdote, perciocché egli attendeva con grande frutto alla predicazione, a cui interveniva immensa folla di uditori, che tutti ammiravano l’eleganza, la grande arte dell’oratore. Trovava tempo ad istruire la gioventù, visitare i carcerati, assistere gl’infermi e portar soccorso alle private famiglie che si trovavano nell’indigenza.

Esiste ancora in Verona presso una chiesa dedicata a S. Filippo Neri un giardino di ricreazione ove il Cesari nei giorni festivi raccoglieva giovanetti quanti poteva, e dopo averli fatti assistere alle sacre funzioni li tratteneva in piacevole ed onesta, ricreazione. In simile guisa li istruiva nella religione, mentre tenevali lontani dai pericoli cui sono esposti i giovanetti abbandonati, specialmente nei dì festivi.

Per accrescere il corredo delle sue cognizioni si pose a visitare la Romagna, e in tutte le città trovò le più onorevoli e liete accoglienze. Mentre poi da Faenza andava a Ravenna, fu sorpreso per via dalla febbre, ed in mezzo ai conforti della religione, che aveva sempre amata e predicata col più caldo zelo, spirò in una villa del Collegio dei nobili il 1° ottobre 1828, pochi giorni prima della morte del Monti.

Gli fu fatta un’epigrafe in cui è chiamato il primo scrittore che vanta ai dì nostri la lingua italiana. Egli era fornito di grandi virtù, ma è principalmente lodata la sua mansuetudine, per cui non ebbe mai rancore di sorta nemmeno con quei suoi nemici, che cercavano di screditare lui e le sue opere; anzi a questi medesimi cercava di fare tutto il bene che poteva.




XLV.
Vincenzo Monti (167).

(Nato nel 1754 e morto nel 1848).

Se mai vi a£cadesse, giovani mei, di fare un viaggio per le terre della Romagna e andare dalla città di Fusignano verso le terre di Ravenna dette Alfonsine, voi trovereste a sinistra della strada alcuni fertili poderi di bello sguardo, di aria serena, di soggiorno lietissimo. Colà in fondo ad un largo piano si erge una casetta di semplice eleganza. In quel modesto abituro nacque Vincenzo Monti. Fanciullo si mostrò ammirabile per la sua carità verso ai poveri e per la sua grande propensione a far del bene al suo simile. Ogni risparmio, i premi di scuola, talvolta anche una parte del suo alimento dava ai poveri; ed era per lui un vero premio il permettergli di distribuire la limosina agl’indigenti che numerosi intervenivano alla sua casa paterna. Entravano i meschini per una porticella ed uscivano per un’altra; ma di frequente alcuno più avido o più bisognoso tornava a presentarsi, e Vincenzo per non doversene accorgere volgeva altrove la faccia e donava senza guardare. Questo spirito di carità lo accompagnò negli studi e nel rimanente della vita. Il padre, destinandolo all’agricoltura, il mandava a pascolare i giumenti. Ma avendo in lui osservato grande attitudine per lo studio, decise d’inviarlo alle scuole, e per assicurargli un mezzo d’istruzione scientifica e religiosa lo mandò nel seminario di Faenza. Ivi imparò assai per tempo e assai bene la lingua latina. Cominci? a manifestare un genio poetico fra i suoi compagni nelle stesse classi inferiori: e mentre i giovani di quella età solevano misurare i versi colle dita, egli già cantavali all’improvviso. Ma il savio suo maestro lo proibì di fare l’improvvisatore, e gli comandò di meditare bene quanto sarebbe per iscrivere. Egli ubbidì e si diè ad esercitare il suo ingegno pensando e meditando i suoi primi lavori.

Compiuto lo studio di retorica e di filosofia, il Monti passò all’Università di Ferrara. Qui per secondare il desiderio dei suoi genitori si applicò allo studio delle leggi. Ma l’amore della poesia e delle lettere gli fecero presto lasciare la toga dell’avvocato.

Era allora legato di Ferrara il cardinale Borghese, che, conosciuta la bella indole del giovane poeta, il prese a proteggere; e perché avesse le comodità necessarie per istudiare, lo condusse seco a Roma col titolo di suo segretario. Egli aveva allora diciotto anni. Mediante assiduo studio e colla scorta di valenti maestri giunse in breve ad essere annoverato fra i più dotti letterati, che da varie parti del mondo sogliono accorrere a quella grande capitale. Il Sommo Pontefice Pio VI nel 1782 deliberò di portarsi a Vienna per trattare di alcuni affari religiosi coll’imperatore Giuseppe II. Il Monti approfittò di quella occasione per comporre il canto intitolato il Pellegrino Apostolico. Sotto questo nome viene raffigurato Pio VI, che prima di partire alla volta di Vienna entra nel tempio di S. Pietro in. Vaticano, ove la fede lo abbraccia e lo esorta ad andare, e superar tutte le difficoltà pel bene della Chiesa. Confortato da queste parole il Pellegrino muove il passo; vari mostri gli contendono il cammino, ma egli passa intrepido, e quelli fuggono debellati. Giunto il Pellegrino al monte Soratte, gli appare il Pontefice S. Silvestro, che lo incoraggia, e gli fa i più lieti auguri, e desta nel suo petto profonda commozione. Questo lavoro fece salire il Monti a grande rinomanza.

Mentre era in Roma conobbe il conte Alfieri d’Asti, le cui tragedie si rappresentavano in quella città con molto successo. Mosso da nobile emulazione si pose anch’egli a trattare vari argomenti tragici, che fecero vie più pubblicamente conoscere il grande ingegno del nostro poeta.

Ma la più bella delle opere del Monti è la Basvilliana, ossia la cantica composta sulla morte di Ugo Basville. Era questi un incaricato della repubblica francese inviato a Roma per propagare idee rivoluzionarie. I Romani amavano la pace e non la guerra, e in una sommossa popolare il Basville venne alle mani, e restò ucciso nel 1793. II poeta prende a descrivere questo fatto. Finge che un angelo liberi l’anima di Basville dall’inferno, perché negli estremi momenti della vita aveva ottenuto il perdono delle colpe col pentimento; e, come fosse in purgatorio, lo guida fino alle porte di Parigi a contemplare il duolo della Francia e i delitti dei ribelli. In fine assiste al supplizio dello sventurato Luigi XVI. Quest’opera è il più compiuto lavoro di Vincenzo Monti. Il Parini leggendolo esclamò: «Costui sempre minaccia di cadere colla repentina sublimità de’ suoi voli e non cade mai», volendo dire che ogni verso sembra dei più belli che si possano avere, e intanto si scorgono tutti un dell’altro più sublimi da capo a fondo.

Siccome taluno di voi non potrà comodamente leggere la Basvilliana (*), così io stimo bene di recarvene alcuni passi che servono a darvi una qualche idea delle bellezze di questo lavoro.


[(*) La Biblioteca della Gioventù Italiana dell’Oratorio Salesiano di Torino pubblicò la Basvilliana e gli altri poemetti del Monti con note dichiarative del sac. prof. Francesia, per vantaggio degli studiosi (a)].
Il poeta adunque introduce l’ombra di Basville a parlare di Roma con quella di Luigi XVI neI modo seguente:

Stolto, che volli coll’immobil fato

Cozzar della gran Roma, onde ne porto

Rotte le tempia, e il fianco insanguinato.

Ché di Giuda il Leon non anca è morto,

Ma vive e rugge, e il pelo arruffa e gli occhi,

Terror d’Egitto, e d’Israel conforto;

E se monta in furor, l’aste e gli stacchi

Sa spezzar de’ nemici, e par che gridi:

San la forza di Dio, nessun mi tocchi.

Questo Leone in Vaticano io vidi

Far coll’antico e venerato artiglio

Securi e sgombri di Quirino i lidi.

E a me, che nullo mi temea periglio,

Fè con un crollo della sacra chioma

Tremanti i polsi e riverente il ciglio.

Allor conobbi che fatale è Roma,

Che la tremenda vanità di Francia

Sul Tebro è nebbia che dal sol si doma;

E le minacce una sonora ciancia,

Un lieve insulto di villana auretta

D’abbronzato guerriero in sulla guancia.

L’ombra di Luigi XVI come atterrita da queste parole prega caldamente quella di Basville che, se mai ritorna a Roma, non manchi di raccomandare la Francia al Pontefice:
Vanne poscia a quel grande, a quel verace

Nume del Tebro, in cui la riverente

Europa affissa le pupille e tace;

Al sommo Dittator della vincente

Repubblica di Cristo, a lui che il regno

Sorti minor del care e della mente;

Digli che tutta a sua pietà consegno

La franca fede combattuta; ed Egli

Ne sia campione e tutelar sostegno.

Digli che tuoni dal suo monte, e svegli,

L’addormentata Italia, e alla ritrosa

Le man sacrate avvolga entro i capegli,

Si che dal fango suo la neghittosa

Alzi la fronte; e sia delle sue tresche

Contristata una volta e vergognosa.

Digli che invan l’Ibere e le Tedesche

E l’armi Alpine e l’Angliche e le Russe

Usciranno a cozzar colle Francesche,

Se non v’ha quella onde Mosè percusse

Amalecco quel di, che i lunghi prieghi

Sul monte infino al tramontar produsse.

Salga egli dunque sull’Orebbe e spieghi

Alto le palme; e se avverrà che stanco

Talvolta il polso al pio voler si nieghi,

Gli sosterranno il destro braccio e il manco

Gl’imporporati Aronni e i Calebidi,

Dei quai soffulto e coronato ha il fianco.

Parmi de’ nuovi Amaleciti i gridi

Dall’Olimpo sentir, parmi che Pio

Di Francia, orando, ei sol li scacci e snidi.

Quindi ver lui di tutto il dover mio

Sdebiterommi in cielo, e, finché Ei vegna,

Di sue virtù ragionerò con Dio.
Intanto mutandosi ognor più le cose d’Italia, si fondò quella repubblica che dissero Cisalpina. Il nuovo governo invitò il Monti a Milano coll’uffizio di segretario generale al Ministero degli Affari esteri. Accettò la carica proposta e, mentre dimorava in questa città, egli contrasse amicizia con vari celebri letterati, tra cui Silvio Pellico ed Amedeo Peyron, di cui presto avrò a parlarvi. Dalla frequenza di questi dotti riportò molto vantaggio nella scienza; perciocché l’andare coi dotti e coi virtuosi è come camminare al sole; volere o non volere bisogna sentirne il calore. Vincenzo Monti dopo qualche tempo venne fatto commissario nella provincia del Rubicone. Ma altro è scrivere versi, altro è amministrare affari pubblici, in cui oltre al sapere ci vuole esperienza, della quale mancava il Monti. Laonde avendo svelata l’iniquità di alcuni impiegati, dovette sostenere una gagliardissima lotta. Egli allora si ritrasse da ogni pubblico uffizio.

In mezzo a quei torbidi, il Monti oltre la carica dovette perdere eziandio le sostanze e andare in esilio. Andò Vincenzo di paese in paese finché giunse in Savoia. Ivi si trovava solo, senza soccorso, in terra sconosciuta. né avendo di che sfamarsi, vagava le intere giornate per le campagne raccogliendo le frutta che cadevano dagli alberi, e non di rado seduto sopra la riva di un qualche torrente faceva l’unico pasto della sua fame, piangendo nel pensare all’Italia. Pure, miei cari, il credereste? in mezzo a tanta miseria il Monti trovava modo di esercitare la carità e soccorrere gl’infelici. Una sera immerso nelle sue triste idee passeggiava fra le tenebre di un’angusta via di Ciamberì; due soli fiorini, ossia 5 franchi, rimanevangli nella borsa. Uno sconosciuto se gli appressa e con voce tremante gli domanda limosina. Egli aveva una madre inferma, cinque figliuoli gli chiedevano pane, ed egli era sfinito dalla stanchezza. Alle parole di madre inferma, di figli affamati, il Monti è commosso, e trattolo in disparte: amico, gli dice, io sono un povero esiliato e non ti posso aiutare come vorrei; non mi restano che questi due fiorini; dividiamoli, uno per te, l’altro per me.

Quella divina Provvidenza che promette largo compenso a chi dà un bicchier d’acqua per amor di Dio compensò la carità del Monti. Egli fu raggiunto da sua moglie e da sua figliuola, che andavano in cerca di lui. Lo assistettero in una malattia, gli portarono soccorsi, mercé cui in breve riacquistò sanità e forze per potersi recare a Parigi, ove ebbe onore e protezione. Tornati i Francesi in Italia, il Monti fu chiamato da Napoleone alla cattedra di professore di eloquenza nella Università di Pavia. Egli accettò volentieri la proposta, perché così poteva rivedere la patria, ed occuparsi della pubblica istruzione, il che molto gli andava a genio. Come giunse ai confini d’Italia, sentissi il cuore ripieno di gioia, che egli espresse con un inno il quale incomincia:

Bella Italia, amate sponde,

Pur vi torno a riveder:

Trema in petto e si confonde

L’alma oppressa dal piacer.
Nell’università di Pavia egli attese con ardore a regolare gli studi e a far del bene ai giovani, che in folla accorrevano ad ascoltarlo. Ivi pure diede opera a correggere una cantica intitolata: La Mascheroniana, cui aveva dato principio mentre era in Francia.

Lorenzo Mascheroni, insigne filosofo e leggiadrissimo poeta bresciano, fuggendo dalle mani degli alleati, si rifuggì a Parigi. Ivi morì nel 1798 con grande cordoglio di tutti e principalmente del Monti, che volle temperare il dolore dell’esilio, col cantare le virtù dell’amico e compagno di sventura. La Mascheroniana è uno dei più rinomati lavori poetici, che taluni non esitano di giudicare superiore a tutti quelli dell’antichità e che insieme colla Basvilliana fecero chiamare il Monti Dante ingentilito.

Se io volessi parlarvi di tutte le belle opere del Monti, dovrei scrivervi un volume a parte. Vi basti il sapere che egli era amato da tutti i dotti per la sua scienza ed ammirato da tutti i buoni per le sue virtù. Napoleone stesso trattò più volte familiarmente con lui, lo decorò di due croci d’onore. Caduto questo imperatore, egli continuò a godere del favore del governo Austriaco, che fu assai largo in onorarlo e beneficarlo. Egli aveva fra le mani un lavoro intitolato La Feroniade, in cui ragionando della dea Feronia, antica protettrice della cultura delle campagne, Il poeta prende a cantare l’asciugamento delle Paludi Pontine, opera immortale della munificenza di Pio VI. Pochi versi mancavano a compiere il terzo ed ultimo canto, quando fu sorpreso da un colpo di apoplessia. Pareva che egli prendesse miglioramento e già i suoi amici gli promettevano vita e salute, ma egli rispondeva loro: Poca è la speranza di riavermi, benché gli amici mi vadano pascendo di belle lusinghe.

La sua malattia fu lunga assai: durò un anno e mezzo. Egli la sopportò con rassegnazione, trovando a’ suoi mali un dolce sollievo nei conforti nella religione. Cessava di vivere il 13 ottobre 1828 in età d’anni 67, pochi giorni dopo la morte di Antonio Cesari.

Egli aveva passata la vita nello studio, e nel fare del bene ad altri; ma negli ultimi momenti sentiva rimorso per alcuni scritti non buoni, che, trasportato dalle vicende dei tempi, aveva pubblicato; desiderava di poterli abbruciare; raccomandò a’ suoi amici che ne facessero perdere la memoria. Solo trovò conforto nel pentimento ed in molte altre opere da lui composte assai favorevoli alla religione e alla moralità.


XLVI.
Il cardinale Giuseppe Mezzofanti (168).

(Nato nel 1774, morto nel 1849).

Bologna, miei cari giovani, è una delle principali città dell’Italia. Tra molti uomini illustri, che in essa ebbero i natali, fu il celebre cardinale Mezzofanti. Egli apparteneva ad una famiglia poco agiata; suo padre era maravigliato dei progressi che il figliuolo faceva nelle scienze, tuttavia voleva fargli tralasciare gli studi per dedicarlo ad una carriera che gli porgesse più pronto guadagno. Ma alcune pie persone, eccitate dall’ingegno e dalla buona condotta del giovine Giuseppe, si presero cura di lui, sicché egli poté continuare i suoi studii e giungere al sacerdozio. Metteva sua delizia nel fare catechismi, udire le confessioni nelle prigioni e negli spedali, predicare ed insegnare le scienze. Sebbene fornito di grande ingegno e di rara virtù, nulladimeno la sua modestia e ritiratezza lo rendevano quasi sconosciuto. Il curioso incidente, che sono per raccontarvi, cominciò a far conoscere chi egli fosse.

Quando i Francesi invasero l’Italia, stabilirono un grande ospedale in Bologna, dove erano portati infermi e feriti di tutte le nazioni. Ora ciascuno di questi stranieri era maravigliato che in paesi cotanto lontani dalla patria vi fossero sacerdoti che parlassero il loro linguaggio nativo. Avvenne un giorno che un Tedesco diceva: Ho trovato un sacerdote che parla ottimamente la mia lingua. - Io pure, soggiunse un Boemo, ne trovai un altro che sembra nato e vissuto in Boemia. - Io ho trovato un altro che parla a perfezione l’ungherese. - Ed io ho ragionato assai con un tale che parla per eccellenza lo slavo ed il polacco. - Altri e poi altri andavano esprimendo la loro ammirazione di aver trovato chi parlasse la lingua del proprio paese. Ma quale non fu la loro sorpresa quando conobbero che ognuno aveva parlato colla medesima persona? E che un uomo solo conosceva tutti quei diversi linguaggi? Quell’uomo era il sacerdote Mezzofanti.

Sparsasi la notizia di questo fatto, ognuno desiderava di conoscere personalmente quel prodigio dell’umano ingegno. Lo stesso Napoleone volle vederlo, e dopo di essersi con piacere trattenuto a ragionare con lui, pieno di stupore esclamò: Peccato che costui sia un prete! volendo significare che egli l’avrebbe destinato a qualche importante carica civile. Ma Dio lo chiamava ad una delle più sublimi dignità della Chiesa, quale è quella di cardinale.

Molti personaggi attirati dalla fama ognor crescente del Mezzofanti andavano di lontano a Bologna per fargli visita. Fra gli altri fu visitato dal celebre astronomo Zacco e dal letterato lord Byron. II primo si pose a parlare ora tedesco ora sassone, e nel discorso frammischiò qualche parola valacca. Il Mezzofanti continuò subito il discorso in quest’idioma. Tutti rimasero maravigliati ed il sapiente astronomo dovette darsi per vinto, non sapendo di codesta lingua se non le parole che gli aveva indirizzato. «Io era in viaggio per andare a vedere una maraviglia nel cielo, disse dipoi il nobile straniero, che si recava a Genova per osservare un eclissi annulare del sole nel 1824, ed un fenomeno mi presentò la terra non meno stupendo nella persona del sapiente professore di Bologna».

È bene per altro di notare che il Mezzofanti, anche fornito di prodigioso ingegno, non cessava dal coltivarlo con tutte le sue forze. La sua vita era costantemente regolare; non usciva mai di casa, se non per andare alla chiesa o alla sua cattedra di professore di lingua, o per qualche opera di carità. Le sue passeggiate per lo più erano dalla camera di studio alla biblioteca. La sua frugalità era tale, che per accennare un uomo veramente temperante dicevasi: Costui ha il vitto di Mezzofanti. Era indifferente ai cibi che gli venivano posti innanzi: dormiva non più di cinque ore; studiava regolarmente da quattordici a quindici ore al giorno. La sua conversazione era edificante ma piacevole assai, e le sue parole erano piene di gaiezza.

La fama della scienza e delle rare sue virtù giunse a notizia del sommo Pontefice che lo chiamò a Roma. In quella gran capitale egli percorse i vari gradi di prelatura, e finalmente nel 12 febbraio 1838 Gregorio XVI lo innalzava alla dignità di cardinale di santa Chiesa. Così aprivasi più vasto campo alla scienza e alla carità del Mezzofanti.

Poco prima d’innalzarlo al cardinalato il sommo Pontefice per fare una prova di quel maraviglioso ingegno apparecchiò una bellissima scena nei giardini del Vaticano. Fece nascondere nelle vie tortuose di quelli e dietro ai boschetti, che li abbelliscono, un certo numero di alunni del Collegio di Propaganda. In questo collegio sono raccolti giovani di ogni nazione, che vengono istruiti ed avviati allo stato ecclesiastico, Affinché possano poi portare la luce del vangelo ai loro compatrioti. Giunta intanto l’ora in cui il Pontefice soleva recarsi al passeggio, fece si accompagnare dal prodigioso linguista. Dato il segno convenuto, questi alunni uscirono e corsero in gruppo ad inginocchiarsi avanti al Papa, e tosto rialzandosi diressero il discorso tutti in una volta nei loro diversi idiomi al Mezzofanti con tale abbondanza di parole e su materie tanto diverse, che chiunque si sarebbe smarrito. Ma il Mezzofanti con egual prontezza e abilità rispose a ciascuno degli interlocutori con tanto brio ed eleganza, che li lasciò tutti pieni di ammirazione. L’animo del Pontefice fu colmo di gioia e volse su di lui uno sguardo di compiacenza, sorridendo per maraviglia di una memoria sì vasta, sì pronta e sicura, cui la sorpresa più inaspettata non valse ad abbattere.

Dalla creazione del mondo fino a noi non fu mai e forse non sarà uomo che a lui si possa paragonare per scienza di lingue. Si dice che Mitridate, antico re del Ponto, sapesse venti lingue. Molte lingue pure sapeva Pico della Mirandola. Ma questi che pel passato erano giudicati prodigi dell’umano sapere sono poca cosa in paragone del Mezzofanti. Egli giunse a parlare scrivere e ad insegnare in settantotto linguaggi uno diverso dall’altro, che è quanto dire che egli conosceva tutti i linguaggi del mondo: Né già pensatevi, giovani miei, che il Mezzofanti fosse a guisa di un gran vocabolario nella cui mente si contenessero nude parole spoglie di dottrina. Perciocché egli conosceva l’origine delle lingue, i costumi, la storia, le tradizioni, il commercio delle nazioni che parlavano questi o quegli altri linguaggi. Queste lingue parlava, insegnava, scriveva in prosa ed in poesia. Era poi ameno spettacolo quando visitava in Roma il Collegio di Propaganda. Senza confondere i vocaboli di una nazione con quelli dell’altra, egli indirizzava il discorso ora all’uno, ora all’altro; ora parlava greco, ora egizio; qua persiano, colà indiano; indi chinese, poi inglese, russo, americano, poi albanese, poi arabo, poi prussiano, slavo, turco, e quel che è più, passava da un linguaggio ad un altro senza confondere né la pronuncia, né le parole, né il senso delle medesime. Ma la nostra maraviglia cresce assai qualora si consideri che oltre alle lingue conosceva i dialetti che alle medesime si riferiscono. Per esempio, quando diciamo che il Mezzofanti sapeva l’italiano, vogliamo dire, che conosceva i vari dialetti che ad esso hanno relazione. Quindi sotto al nome di lingua italiana s’intende che sapeva il piemontese, il genovese, il milanese, il veneziano, il napolitano, il siciliano, il sardo: e questi differenti dialetti parlava con tale prontezza che sembrava essere nato e vissuto in ciascheduno di questi paesi. Laonde fatto calcolo dei principali dialetti che sono annessi alle lingue principali che sapeva, possiamo dire, che il Mezzofanti conosceva, scriveva e parlava oltre a trecento linguaggi diversi.

Più volte fu interrogato come mai avesse potuto giungere ad arricchire la mente di tanto estese e di tanto varie cognizioni, ed egli con ‘semplicità soleva rispondere [*Vedi Civiltà Cattolica, anno II, vol. VII (a)]: «Io sono d’avviso che Iddio siasi compiaciuto di concedermi sì gran dono, perché io nel richiesi non per la vana e meschina gloria mondana, ma per la salute delle anime. Essendo sacerdote in Bologna mia patria in tempo di guerra, io visitava gli spedali militari; e trovandovi infermi ungheresi e slavoni e tedeschi e boemi, e non potendoli confessare, e quel che è più non potendo ragionare e condurre i protestanti al seno della Chiesa cattolica, mi sentiva straziare il cuore. Per la qual cosa essendomi dato con sommo ardore allo studio di quelle lingue, mi venne fatto di poterne imparare tanto quanto bastasse a farmi intendere. Non volli altro. Cominciai ad avvolgermi fra i letti degl’infermi, e gli uni confessando e cogli altri conversando, venni di giorno in giorno accrescendo il mio vocabolarietto, sicché di mano in mano, aiutandomi Iddio, lo accrebbi in guisa, che alla lingua nobile aggiunsi i dialetti particolari delle varie provincie. Ad ogni forestiere, che per caso capitasse a Bologna, gli albergatori davansi premura di rendermi avvisato, ed io accorreva e ragionava con essi interrogando, notando, esercitandomi nelle varie loro lingue. Certi dotti personaggi spagnuoli, portoghesi, messi cani, che erano di stanza in Bologna, oltre alle scienze sacre, mi avevano insegnato altresì il greco, l’ebraico, il caldeo, il samaritano e le loro lingue natie. Poscia quante grammatiche venivanmi alle mani io dava opera di mettermele in mente. Che se a gentiluomo fosse accaduto di passare a Bologna, io noI lasciava senza che ne afferrassi dizioni e modi propri e singolari di suo linguaggio, e massimamente delle pronunzie, per cui Dio mi concesse organi flessibilissimi e lingua speditissima». Fin qui il dotto proporato in familiari colloqui coi suoi amici.

Tuttavia chi lo crederebbe? Fra i tanti motivi che aveva di far pompa dello straordinario suo ingegno si tenne nascosto quanto gli fu possibile. Neppur si poté mai indurre a scrivere qualche cosa attorno alle lingue e a manifestare i segreti rapporti e le misteriose collegazioni che ei solo poteva determinare con amplissima luce. Tuttavia invitato ripetute volte a lasciare almeno qualche memoria intorno alla chiave misteriosa che gli aveva aperta la via a quella straordinaria cognizione di lingue, promise di farlo con una tessera comparativa, che è una specie di grammatica con cui spiegare le radici delle lingue primitive da cui derivarono e si diramarono di poi tutte le altre. Questo lavoro tanto desiderato credevasi smarrito, ma ora sappiamo che fu conservato, e si spera che fra breve uscirà alla luce. Così sarà appagata l’aspettazione dei dotti e di tutti quelli che amano i progressi delle scienze.

Quando Pio IX per le calamità de’ tempi dovette allontanarsi da’ suoi Stati, il Mezzofanti rimase in Roma. Consumato dalla età e dalle fatiche, in mezzo ai conforti di quella religione che aveva con zelo professata, terminava i suoi giorni il 15 marzo 1849 quando il Romano Pontefice era esule a Gaeta. Fu sepolto nella chiesa di S. Onofrio, e sulla sua tomba fu posta una iscrizione latina che in nostra favella si può tradurre così: «Qui giace il Cardinale Mezzofanti per fama notissimo a tutti i dotti, memorabile per l’innocenza de’ suoi costumi e per la sua pietà, affatto singolare per la sua erudizione e per la sua cognizione di tutti gl’idiomi antichi e moderni».


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