S giovanni bosco


XXXIII. L’assassinio del conte Rossi



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XXXIII.
L’assassinio del conte Rossi (155).

(1848).
Mentre le sciagure si andavano moltiplicando sopra i Piemontesi, gravissimi disastri avvenivano in Roma. Vi accennai come salito che fu Pio IX sulla sede pontificia, appena poté far conoscere al mondo cattolico la sua bontà, la sua sapienza, il suo coraggio, non vi fosse più paese ove il nome del gran Pontefice non echeggiasse di evviva. Quando poi pubblicò l’amnistia, gli applausi, le feste, i trasporti di gioia non ebbero più limite. Gl’Inglesi, che sono protestanti, i turchi, che sono avversi al nome cristiano, andavano a gara a far regali e dare segni di stima e di venerazione verso il Pontefice di Roma. Gli stessi Ebrei si andavano persuadendo che Pio IX fosse il Messia da loro aspettato. Migliaia di esiliati facendo ritorno alle proprie famiglie andavano a prostrarsi ai piè di Pio IX, loro liberatore e loro benefattore. Questi trasporti di stima e di amore da prima inspiravano alti disegni nell’animo del Pontefice; perciocché egli pensava che il solo amore avesse luogo in quelle pubbliche dimostrazioni. E noi abbiamo argomenti per credere che nella maggior parte quegli atti di ossequio e di rispetto fossero sinceri, ma un numero considerevole, per lo più forestieri, erano accorsi a Roma per eccitare lo spirito di ribellione e approfittare di quei medesimi favori, che il Papa concedeva, per valersene a danno di lui.

Molti uomini che già avevano messo sossopra le cose d’Italia negli anni precedenti, quasi quegli stessi che avevano posto a soqquadro le cose politiche della penisola, si recano a Roma per indurre il Papa a dichiarare la guerra agli Austriaci. Certamente voi direte che il Papa, padre di tutti i fedeli cristiani, non sarà giammai per determinarsi a muovere guerra ad alcuno, tanto meno a popoli cristiani, che, a qualunque paese o nazione appartengano, sono sempre tutti suoi figliuoli spirituali. Andate, diceva egli ai soldati che si portavano a sedare tumulti succeduti in alcune città della Romagna, andate, ma non più in là delle frontiere dei nostri Stati. Altre volte diceva: Sappiamo il vivo desiderio di molti che vorrebbero determinarci a dichiarare la guerra per allontanare alcuni popoli dall’ Italia, ma sappia il mondo tutto che noi amiamo bensì l’indipendenza dell’Italia, ma non verremo giammai ad una dichiarazione di guerra.

Fu in questo tempo che i soldati inviati a difendere i confini romani trasgredirono gli ordini ricevuti, e andarono ad azzuffarsi cogli Austriaci nella Lombardia. Nulla valse il loro coraggio, e dovettero ritornare a Roma dopo di aver toccate molte sconfitte. Allora si cominciò a gridare più che mai che il Papa dovesse dichiarare la guerra agli Austriaci; gli schiamazzi giunsero a tal segno, che minacciavasi di stabilire in Roma un governo provvisorio, qualora il Papa si fosse più oltre rifiutato.

Fare un governo provvisorio, miei cari, era un ribellarsi contro al legittimo sovrano, calpestare tutte le leggi per formare un regno, o una repubblica, o qualsiasi altra specie di governo fosse saltata in capriccio ai capi dei ribelli.

Non si lasciò Pio IX sgomentare dalle minacce; e poiché parecchi membri delle Camere ed alcuni ministri favorivano i ribelli, egli giudicò bene di cercarsi un uomo dotto e coraggioso, cui potesse affidare la presidenza del ministero. Questa presidenza vuol dire essere capo di tutti gli altri ministri, proporre al Re ed alle Camere dei deputati quelle leggi che sono riputate necessarie pel bene dello Stato. Il Presidente dei ministri si può chiamare viceré.

L’uomo cui il Papa giudicò di affidare quella carica in così difficili momenti fu un certo conte Pellegrino Rossi. Esso era nato a Carrara, città del Modenese (*), era di spirito penetrante, giudizioso, facondo, e aggiungeva alla cognizione delle lingue classiche quella della giurisprudenza e della filosofia.
[(*) Che cioè apparteneva al Ducato di Modena al tempo in cui l’A. scriveva (*).]
All’età di quindici anni aveva già compiuti i suoi studi. Ma essendosi compromesso in cose politiche, dovette allontanarsi dalla patria. In tutti i paesi che ebbe a percorrere, fece conoscere la sua abilità nel maneggio dei grandi affari, specialmente per la nazione francese, che lo rivestì della dignità di suo ambasciatore presso la corte di Roma, carica che sostenne con gloria di quella nazione. Ma, ammaestrato dalle passate vicende, quando vide che le cose politiche prendevano aspetto tenebroso, tornò alla vita privata finché la fiducia del Pontefice lo innalzò a grado di presidente per associarlo a’ suoi sforzi, e tentare di reprimere il disordine.

Rossi esitava ad accettare quella carica, e mentre un suo amico lo stimolava a risolvere, egli indirizzò a lui queste parole:

- Voi, amico, mi deste sempre ottimi consigli, ditemi: che ho da fare?

- Obbedire all’invito.

- È una situazione troppo scabrosa!

- Motivo di più per accondiscendere: e state certo che lo spirito di Dio vi guiderà.

- Sia fatta la sua volontà! e stringendo la mano all’amico, soggiunse: Sulla vostra parola io vado avanti. Sull’istante trasferitosi dal Pontefice accettò definitivamente la carica proposta.

Da quell’istante il novello ministro si pose coraggiosamente a riordinare le cose di Roma; e mentre si adoperava pel riordinamento civile dello Stato, trattava in Napoli, in Firenze ed in Torino le basi di una confederazione degli Stati italiani. I ribelli si accorsero che il Rossi voleva l’ordine e l’osservanza delle leggi; e reputandosi incapaci di mettersi a fronte dell’attività e della perizia di lui per gli affari politici si appigliarono ad una mostruosa risoluzione, cioè di ucciderlo.

Il conte Rossi non era ignaro di quel tristo progetto e sapeva l’opposizione esistente tra lui e le società segrete, conflitto che finisce quasi sempre coll’assassinio. Ciò non ostante non se ne sgomentò: perocchè fin da quando aveva ceduto all’invito di Pio IX aveva fatto il sacrifizio della propria vita.

Nell’occasione che si dovevano aprire le Camere il conte Rossi dava disposizioni Affinché i carabinieri e i soldati si mantenessero fermi nel loro dovere e pronti ad eseguire gli ordini che sarebbe loro per dare. Ma gli fu fatto sapere che se non desisteva dagli ordini di quella fatta sarebbe spedita per lui e pel Papa medesimo. Al che egli coraggiosamente rispose: «Io non rinunzio ad alcun mezzo per difendere i diritti della S. Sede; occorrendo saprò montare a cavallo per combattere i faziosi. Per giungere sino al Papa, bisognerà che passino sul mio corpo».

Qui la rabbia dei cospiratori non trova più limite; non vi è ingiuria, non violenza da cui si astengano per eccitare l’odio contro di lui. La trama è ordita e si stabilisce di trucidare il conte Rossi nell’atto medesimo in cui doveva presentarsi alle Camere. Al mattino di quel memorando giorno alle ore sette i suoi due figliuoli si presentavano a chiedergli biglietti per assistere alla seduta.

- Non ne ho, rispondeva egli.

- Come può essere, replicò il maggiore, che il primo ministro non abbia biglietti? Bisognerà dunque trovare altro mezzo di penetrare nelle camere.

- Ve lo proibisco.

- Ma perché, caro padre?

- Perché così voglio. Resterete presso a vostra madre.

Ciò diceva il conte Rossi perché prevedeva qualche grave accidente nelle Camere. La trama fatale non poté essere abbastanza celata che non giungesse a notizia di alcuno, e parecchi amici del Rossi scrissero lettere, altri andarono ad avvisarlo del gran pericolo che gli sovrastava. Monsignor Morini corse eziandio da lui, e appena lo vide gli disse:

- Per carità, signor conte, non andate oggi alle Camere; se ci andate siete morto; i congiurati sono già là al posto, ed il pugnale vi aspetta.

- Vi ringrazio, monsignore, replicò Rossi. Poi levati gli occhi al cielo esclamò: La causa del Papa è la causa di Dio! andiamo!

Vi dico schiettamente, o miei cari, che il conte Rossi avrebbe dovuto esaminare la realtà del pericolo e ritardare dal presentarsi alle Camere; ma egli fidavasi dei carabinieri e di altri soldati posti per mantenere l’ordine: d’altronde maneggiando la causa della giustizia era disposto a dare anche la vita per sostenerla. Giunto al palazzo della Cancelleria, ove si radunavano i deputati, contro agli ordini dati vide che non si trovava alcun carabiniere, per fare la guardia alla porta, e in loro vece era una compagnia di guardie civiche. All’entrata del cortile stava una truppa di sessanta uomini coperti di neri mantelli. Questi tutti in silenzio per inspirare una fatale fiducia accolsero con freddezza il ministro. Appena smontato dalla vettura si avanza in mezzo alla folla, ed un uomo piuttosto attempato, colla barba bianca, lo colpisce colla mazza sopra una spalla. Era quello il segnale. Rossi volge il capo per vedere l’assalitore, e nello stesso punto l’assassino gli caccia il pugnale nel collo. Il ministro cade senza dare neppure un grido, ma si alza subito, si pone un fazzoletto sulla ferita, e, sorretto dal suo domestico, sale macchinalmente i primi gradini della scala, che bagna con un torrente di sangue, e finalmente ricade per non rialzarsi più.

La notizia dell’assassinio di Rossi fu portata alle Camere raccolte in seduta, e queste, come se nulla fosse avvenuto, continuarono a discutere tranquillamente i loro affari, mentre in una stanza vicina giaceva il cadavere del conte. Una parte dei deputati era complice di quel misfatto. L’ambasciatore dei Francesi, duca di Arcourt, inorridito dell’indifferenza con cui la camera accoglieva la notizia di così atroce delitto, colla massima indignazione si allontanava dalla sala dicendo: Infamità! si parta per non essere complice di tanta indifferenza.

Questo, miei cari, fu l’assassinio del conte Rossi, commesso a chiaro giorno sotto gli occhi di quelli stessi che per dovere erano tenuti a difenderlo.



XXXIV.
La Repubblica Romana (156).

(1849).
Dopo l’assassinio del conte Rossi non vi fu più misfatto che facesse ribrezzo ai ribelli. Un sacerdote di nome Ximenes, che in un giornale difendeva con coraggio la causa del romano Pontefice, fu vittima del pugnale. Una turba di forsennati scorrendo e schiamazzando per le piazze va ad assediare il Quirinale, ove è il palazzo del Pontefice. Si domandano cose che il Papa non può concedere, e per questo è assediato nella propria abitazione, le sue guardie sono allontanate, i cannoni sono appuntati all’entrata del suo palazzo, e si minaccia un terribile saccheggio. Monsignor Palma, che era in una camera vicina a quella del Papa, è colpito da una palla di moschetto tirata dai ribelli, per cui cade morto sull’istante.

Questo, miei cari amici, è il ritratto delle cose di Roma. Voi direte: E quegli uomini che furono cotanto beneficati da Pio IX, queglino stessi a cui diede la libertà e la vita, non si sollevarono in aiuto del loro benefattore? Avrebbero dovuto fare così, ma avvenne il contrario. Quelli che furono maggiormente beneficati da Pio IX divennero i suoi maggiori nemici. lo voglio solamente darvi cenno di un solo, e da costui voi potete di leggieri conoscere gli altri.

È Giuseppe Galletti, più di tutti da Pio IX beneficato, e il più di tutti ingrato. Egli era figliuolo di un barbiere di Bologna. Esercitò qualche tempo il mestiere del padre, finché questi, osservata nel figliuolo particolare inclinazione agli studi, lo mandò a scuola. Lo scolaro fece considerevoli progressi, e presto diventò abile avvocato; ma annoiatosi dello studio e dei libri si arrolò alla milizia, e si segnalò in varie congiunture per fermezza e coraggio. Compromesso negli affari politici del 1831, si ritirò in terra straniera, donde ritornava dieci anni dopo, per promuovere una cospirazione, il cui scopo era, dicevasi, la morte del sommo Pontefice Gregorio XVI.

Comunque fosse, venne arrestato prima dell’esecuzione del nero progetto, e incatenato fu condotto a Roma, condannato alla galera a vita. Per commutazione di pena venne rinchiuso nelle prigioni degli Stati romani. Allora che l’amnistia di Pio IX gli concedette la libertà, egli non trovava modo per esprimere la sua gratitudine al santo Padre. Ammesso all’udienza papale, cadde ai piedi del Pontefice, e la sua voce fu soffocata dalle lagrime.

Pio IX lo rialzò con bontà, lo strinse teneramente al cuore dicendogli: Io sono più fortunato di voi: il padre di famiglia ha ritrovato il suo figliuolo; non mi lascierete più, non è vero? voi mi amerete come io vi amo; voi respingerete per l’avvenire le perfide suggestioni dei tristi; me lo promettete?

- Lo giuro, gridò Galletti, abbracciando la croce pontificale, lo giuro per questo segno di redenzione. La mia vita, le mie sostanze, tutto sarà per voi, beatissimo Padre. Io amo tanto Pio IX, che se egli mi domandasse la vita, gli risponderei: Santissimo Padre, voi esigete troppo poco, dimandatemi quella della mia consorte, ed ella ci ama abbastanza tutti e due per considerare il giorno della sua morte come il più bello della sua vita.

Il Papa, anch’egli commosso, basta, gli disse, basta, mio figliuolo.

Certamente, cari giovani, voi stenterete a credere, come un uomo cotanto beneficato dal Papa, e che gli fece così calde promesse di fedeltà, sia poi divenuto il più fiero nemico del suo benefattore. Pure è così. Fosse incostanza dell’umana volontà, fosse malizia o inganno prodotto dai malevoli, fatto è che egli divenne capo della ribellione.

Circondato il palazzo del Papa i ribelli volevano disarmare la guardia, e con baldanza intimavano a quei soldati essere un favore il far loro grazia della vita. Quegli onorati militari, fedeli al proprio dovere, ricusavano di abbandonare il posto e di deporre le armi. «Siamo qui, essi dicevano, per volere del Papa, e qui resteremo. In quanto alle nostre armi, se la canaglia le vuole, si provi di venirle a prendere. Se non possiamo servircene per difendere e salvare il nostro sovrano, siamo risoluti di morire piuttosto che consegnarle in altre mani fuorchè nelle sue; e se Pio IX ce le richiede, le deporremo agli augusti suoi piedi». Difatto mantenendo la parola non si sottomisero se non quando furono accertati essere questa volontà di Pio IX, il quale era deciso di esporsi a qualsiasi ventura piuttosto che permettere che per lui si versasse una sola stilla di sangue.

In que’ gravi momenti Pio IX, privato delle sue guardie, tenuto prigione nel suo palazzo, scorgendo essergli tolto il libero esercizio del suo potere tanto spirituale, quanto temporale, decise di fuggire da Roma. Ciò temevano i ribelli, perciò lo custodivano da ogni parte. Che cosa poteva egli mai fare? La Provvidenza divina veglia sulla sorte degli uomini, e veglierà certamente sul capo della Chiesa. La fuga del Papa da Roma è fissata. La sera del 23 novembre 1848, mentre la notte oscura e il tempo nuvoloso pareva rendere impossibile la partenza del Pontefice, esso va nel suo oratorio, fa breve preghiera a Gesù Crocifisso, indi mutando vestimenta si pone le scarpe nere con due larghe fibbie di argento, calzoni oscuri, una sopraveste nera, cappello largo e rotondo con occhiali. Così travestito portando in mano una lanterna, accompagnato da un solo servo, esce per una porta segreta, e dopo di avere traversato lunghi corridoi riesce ad illudere la vigilanza di coloro che lo governavano. Ad un luogo stabilito incontra il conte Spauro, ambasciatore del re di Baviera, colla sua famiglia che l’accoglie nella propria carrozza.

Fecero felicemente una porzione del viaggio, ma vicino alla città di Fondi, poco mancò che il Pontefice fosse riconosciuto. Imperocché un postiglione in vederlo mandò un grido di sorpresa e disse al compagno: Guarda, quell’abate somiglia al ritratto del Papa che è in casa nostra. La vettura cambiando spesso cavalli e postiglioni, per la premure e per l’oro del conte Spauro, stimolandoli a corso accelerato furono in breve trasportati al di là dei confini romani. I loro passi erano diretti verso Gaeta, città del regno di Napoli. Colà giunti, trovarono il cardinale Antonelli ed un altro cardinale recatisi in quella città per assistere il santo Padre in quelle cose che gli sarebbero state mestieri.

Di qui a poco vi racconterò le vicende del sovrano Pontefice durante la sua assenza della santa Sede; ora facciamo ritorno alle cose di Roma.

All’indomani, quando si sparse la notizia della fuga del Papa, ogni cosa fu sossopra. I buoni furono addolorati, perché sebbene sperassero che egli sarebbe presto ritornato a Roma, tuttavia temevano le conseguenze di quella precipitosa partenza; quelli che erano indifferenti rimasero stupiti perché non s’immaginavano un fatto di quel genere; e fu chi disse fin d’allora, che l’aver costretto il Papa a fuggire da Roma era un costringere le potenze cattoliche di venirlo a ristabilire sul trono. Perciocché, siccome vi raccontai altrove, il dominio temporale de’ Papi si può dire un dono fatto da vari prìncipi; dono approvato e posto sotto alla tutela di tutti i governi cattolici, ed è perciò nell’interesse di tutta la cristianità che il Papa viva tranquillo ne’ suoi Stati, Affinché possa liberamente esercitare la suprema autorità di Vicario di Gesù Cristo. Solamente i ribelli fecero feste di allegrezza: sulle prime essi invitarono il Papa a ritornare a Roma, al quale invito certamente non poté Pio IX risolversi ad accondiscendere, poiché avrebbe esposto la sua persona e la sua autorità ai pericoli di prima.

I ribelli, per effettuare il progetto da molto tempo meditato, cioè proclamare la Repubblica, cominciarono a formarsi un governo provvisorio sotto il nome di Giunta, come se Pio IX avesse abbandonato i suoi Stati senza incaricare chi a suo nome li governasse. Il municipio romano, vedendo le cose a questo punto si sciolse, né volle più mischiarsi di cose pubbliche per non rendersi colpevole di misfatti che si andavano ogni giorno commettendo. Le Camere fecero altrettanto; e in pochi giorni tutti gli uomini dabbene che avevano qualche carica, vedendo di non poter continuare senza rendersi complici dei pubblici delitti, abbandonarono i loro posti.

In mezzo all’avvilimento del nome romano trovaronsi non pochi uomini di petto forte, che mostrarono non essere ancora estinto il coraggio dei Romani antichi. Fu tra questi un venerando vecchio, il cardinale Tosti, prefetto dell’ospizio di S. Michele, che è un grande orfanotrofio destinato a ricevere molte centinaia di vecchi cadenti e di giovani abbandonati e pericolanti. Vari membri del novello governo vennero a congratularsi con lui perché non aveva abbandonato la sua carica per fuggire ad esempio de’ suoi colleghi. «Signori, rispose l’illustre porporato, voi venite a congratularvi meco perché non sono fuggito. lo ricuso i vostri elogi. Sappiate che io non ho punto paura di voi, e non l’hanno neppure i miei colleghi. Se essi lasciarono Roma e seguirono il Santo Padre lo fecero per amore e per obbedienza, così se io qui rimasi fu per obbedienza e per amore del Santo Padre il quale desiderò che io non abbandonassi questo stabilimento che dà ricovero a tanti sventurati. Del resto, io sono romano, e voi non lo siete. Rimarrò qui in Roma senza lasciarmi spaventare. Voi potete, è vero, trafiggermi con un pugnale; ma con ciò che farete? nient’altro che togliermi due o tre anni di esistenza giacché sono vecchio, perciò la mia vita non può essere che breve». Alla coraggiosa franchezza di quel santo vecchio, i rivoluzionari si ritirarono confusi.

Intanto le cose continuando di male in peggio si venne ad una vera anarchia, cioè ad un governo senza legge e senza religione. Fu allora che l’avvocato Galletti, presidente d’un’assemblea, che dicevasi Costituente romana, dopo di avere in più sedute discusso qual forma di governo si dovesse adottare, propose il seguente decreto, che pubblicò colla sua sottoscrizione: Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo degli Stati romani. La forma di governo prenderà il glorioso nome di Repubblica romana.

Questo decreto aveva la data del 9 febbraio 1849. Così il buon Pio IX era spogliato del trono da colui che fra mille spergiuri a’ suoi piedi si offriva pronto a dare le sostanze e la vita pel suo sovrano; colui che alla bontà di Pio IX doveva la libertà e la vita.

I rivoluzionari della Toscana stimolati da Mazzini, capo degli sconvolgimenti di questi tempi, proclamarono eziandio la repubblica, e si unirono ai Romani per far Roma capitale della grande repubblica italiana. E quasi per formare una stabile unione e fratellanza, Mazzini dalla Toscana si portò a Roma. Quest’uomo singolare fu accolto con giubilo dagli altri ribelli, e poiché la repubblica era stata proclamata, e i capi dovevano essere tre, egli fu nominato triumviro con Armellini e Saffi. Tosto il nuovo governo impose tributi, poi ordinò un imprestito forzato in guisa che ogni cittadino era costretto a portare Una parte delle proprie sostanze a quelli che si diceano capi del governo. Tuttavia non potendosi raccogliere denaro che loro bastasse, vennero alla carta monetata, che è quanto dire: presero carta, sopra cui fecero un bollo, e a quel pezzo di carta davano un valore arbitrario. Con questo mezzo poterono facilmente raccogliere l’oro e l’argento che circolava per lo Stato, lasciando invece quei pezzi di carta bollata,

Che più? Si appropriarono i beni delle chiese, gli oggetti d’oro e d’argento, o che racchiudevano cose di qualche pregio; calici, pissidi, ostensori ed altre cose sacre, tutto era involato per far denaro. Molte campane vennero calate giù dai campanili e fuse per lo stesso motivo. Che orrore sarebbe mai il raccontarvi le barbarie commesse in quel tempo! Monache e religiosi spogliati o cacciati dai loro chiostri; preti e frati trucidati; dodici trafitti dal pugnale in un giorno pel solo gusto di vederli spirare tra’ tormenti senza far loro alcun processo, per conoscere se erano colpevoli od innocenti; parecchi de’ migliori cittadini, non di altro colpevoli che di non voler esser ribelli, furono privati de’ loro averi, imprigionati o trucidati (*).


[(*) V. BALLEYDIER, Repubblica Romana; GUGLIELMO AUDISIO, Orrori della Repubblica Romana (a).]
Ma tiriamo un velo sopra le nefandità di que’ tempi. Dico soltanto che il Cielo non poteva benedire così fatti legislatori, e vedremo fra breve di quali mezzi siasi la divina Provvidenza servita per ricondurre sul trono quel sovrano che la rivoluzione aveva costretto ad allontanarsi da’ suoi Stati.

Piacemi intanto che riteniate che Pio IX, Ferdinando II, granduca della Toscana, e Carlo Alberto egualmente che tutti gli altri principi italiani avevano buona volontà di far del bene all’Italia. Mazzini e i suoi seguaci, per odio de’ troni e della religione, impedirono ad essi di proseguire nella loro impresa, sconvolgendo i loro progetti con danno immenso dei prìncipi e de’ popoli.



XXXV.
Roma liberata (157).

(Dal 30 aprile al 30 giugno 1849).

Roma era tutta in disordine. Pio IX peraltro in mezzo alle afflizioni cagionate da alcuni sudditi ribelli riceveva molte consolazioni da parte di parecchi illustri cittadini romani, che affrontarono gravissimi rischi per mantenersi fedeli. Non poche città e non pochi paesi degli Stati romani, ricusando di sottomettersi al governo rivoluzionario, si mantennero fedeli al legittimo sovrano. Grande consolazione gli recarono eziandio le preghiere fatte da tutto il mondo cattolico per la sua conservazione, i generosi sussidi da ogni parte a lui inviati, le premure e la sollecitudine del re di Napoli per fare che nulla gli mancasse durante il suo esilio. Appena questo principe seppe che il romano Pontefice erasi ricoverato a Gaeta, città de’ suoi Stati, partì immediatamente egli, la regina con tutta la sua famiglia per recarsi ad ossequiarlo, ed offrir gli quanto avesse fatto mestieri per lui, per quelli che l’accompagnavano e pel decoro della papale dignità. Il monarca ed i suoi figliuoli, la regina e tutta la real famiglia giunti in Gaeta andarono a prostrarsi ai piedi di Pio IX, spargendo lagrime di consolazione e ringraziando Iddio che aveva colà guidato sano e salvo il suo rappresentante sulla terra. Il Santo Padre profondamente commosso dai segni di venerazione, di cui era ricolmo, si affrettò ad alzarli da terra dopo aver loro data la pontificale benedizione.

Ad un avvenimento, che aveva costretto il Capo della cristianità a fuggire da’ suoi Stati, le potenze cattoliche d’Europa non rimasero inoperose. Prima fra tutte la nobile Spagna, che in quei tempi godeva di somma pace, cominciò a manifestare la formale intenzione di ristabilire l’autorità temporale del Papa. Ascoltate le generose parole che quel governo indirizzava alle altre potenze cattoliche.

«Il governo di Spagna è deciso di fare pei Papa quanto sarà necessario, onde riporlo in uno stato d’indipendenza e dignità, che gli permetta di adempiere le sue sacre funzioni. Per questo scopo dopochè intese la fuga del Pontefice, il governo spagnuolo si è rivolto al governo francese il quale si è dichiarato pronto a sostenere la libertà del Santo Padre. La Spagna crede che le potenze cattoliche non potrebbero abbandonare la libertà del Papa all’arbitrio della città di Roma, e permettere che, mentre tutte le nazioni si fanno premura di dare al Pontefice prove del loro profondo rispetto, una sola città d’Italia ardisca oltraggiare la sua dignità e porlo in uno stato di dipendenza, di cui quella potrebbe abusare un giorno come potere religioso. Tali considerazioni inducono il governo di Sua Maestà ad invitare le altre potenze cattoliche ad intendersi in quanto ai mezzi da adottarsi onde schivare i mali che sopraggiungerebbero, se le cose dovessero rimanere nello stato attuale».

La Francia, il Portogallo, l’Austria, Napoli fecero applauso all’invito della Spagna. Solamente il Piemonte e la Toscana si rifiutarono di unirsi a quelle potenze, forse perché travagliati dalle interne discordie.

Intanto cosa ben degna d’essere notata si è che soltanto i due sovrani, i quali non poterono prestarsi per ricondurre il Papa a Roma, fossero ambidue in breve costretti a lasciare il proprio trono ed andarsene in esilio.

Le potenze alleate, dopo di avere invano usati tutti i mezzi pacifici, deliberarono di venire colla forza delle armi a rimettere l’ordine negli Stati romani e ricondurre Pio IX sul trono. I Francesi ebbero tosto sotto le armi una poderosa armata che precedeva le altre nazioni a venire in Italia.

Mentre i soldati di Francia pieni di coraggio navigavano in alto mare, gli Austriaci si avanzavano dalla parte della Lombardia per mettere l’ordine nella Romagna e in Toscana. I Napoletani si diedero a reprimere i ribelli in quella parte degli Stati romani che è confinante col regno di Napoli, Gli Spagnuoli giunsero più tardi e stettero in riserva all’imboccatura del Tevere, pronti a prestar l’opera loro se fosse stato mestieri. Solamente i Francesi camminarono verso Roma, che era il centro dove erano radunati i nemici.

In questo spazio di tempo que’ capi repubblicani si prepararono a fare la più viva resistenza. Venne ad unirsi loro Garibaldi, nativo di Nizza Marittima, famoso capitano di ventura, alla testa di mille e cinquecento uomini scelti, i quali furono accolti con entusiasmo da quelli che avevano in mano il governo di Roma. Da ciò che vi ho finora esposto voi avrete già notato come i capi del governo e della milizia repubblicana erano la maggior parte forestieri, per lo più già rei di vari delitti. sicché gli alleati andando in Roma si può dire che andassero a distruggere e a combattere un nido di colpevoli fuorusciti che si erano radunati nella capitale della cristianità.

Tuttavia io devo confessarvi che i Francesi, volendo, per quanto era possibile, risparmiare lo spargimento del sangue, malgrado il loro coraggio e il loro valore dovettero combattere circa tre mesi sotto alle mura di Roma prima di poter entrare in città. Più volte si provarono a dare l’assalto, e ne furono respinti dagli assediati con gravi perdite e con non ordinarie prodezze da ambe le parti. Finalmente il 29 giugno, giorno della festa di S. Pietro i Francesi, superando i bastioni e le barricate in mezzo al fuoco dei nemici, che facevano gli sforzi della disperazione, entrarono in città e costrinsero i rivoluzionari a deporre le armi.

Al loro arrivo la città prende l’aspetto dei tempi felici: da ogni lato echeggiano voci di evviva i Francesi; ognuno si scopre la testa, si agitano per aria i fazzoletti, le finestre delle case si vedono stipate di spettatori, che col gesto e colla voce salutano i prodi liberatori. Generale entusiasmo accoglie l’esercito francese al solo entrare in Transtevere, I Transteverini insigni pel grande affetto alla persona del Papa, alla vista dei Francesi rammentando gli applausi un tempo innalzati a Pio IX, battono palma a palma e mandano vive acclamazioni. Le labbra, le mani, i cuori hanno soltanto applausi ed accenti di gratitudine pei discendenti dei soldati di Carlomagno, che, come vi raccontai, fu insigne benefattore della religione e del romano Pontefice.

Immensa folla circonda lo stato maggiore: ognuno accorre intorno al cavallo su cui sta il comandante in capo, di nome Oudinot, per vedere più davvicino il liberatore di Roma. Si confondono le grida evviva Oudinot, evviva la Francia.

Non mancarono alcuni ostinati, che tentarono di mettere ancora il terrore ed opporsi al giubilo universale: ma furono tosto repressi, ed i soldati vincitori andarono gloriosi a fermarsi sulla piazza dei Ss. Apostoli, ove il generale Oudinot smontato da cavallo recavasi a ringraziare la Provvidenza divina della vittoria riportata.

I principali capi della rivoluzione, perduta ogni speranza, avevano abbandonata quella città, che eglino stessi avevano dato in preda al disordine ed alle calamità della guerra. Allora Oudinot per dare un segno di venerazione al Santo Padre e far conoscere al mondo tutto, che egli intendeva di sostenere la causa del capo della cristianità, mandò immediatamente le chiavi di Roma a Pio IX; poscia si occupò per ristabilire l’ordine e la tranquillità negli Stati pontifici. Ma incontrava gravi difficoltà, perché quasi tutte le persone capaci di coadiuvarlo eransi allontanate da Roma. In quelle incertezze, un certo Mareschi, mal vestito, piccolo di statura e di aspetto ordinario, coperta la fronte da una berretta di seta nera, e sopra questo un cappello a tesa larga, si presenta alla porta del governatore di Roma, di nome Rostolan. Viene licenziato come spia: ritorna, e a forza d’insistere, alla fine viene introdotto.

Il governatore gli disse: Chi siete voi?



Mareschi. Un impiegato della Segreteria di Stato.

G. Che volete?

M. Giovarvi.

G. A me?


M. A voi ed al mio paese.

G. E come?

M. Con indicarvi i mezzi che vi possono aiutare a ristabilire l’ordine sconvolto dai nemici del governo e della società.

G. E per ciò che è da farsi?

M. Richiamare gli onesti impiegati scacciati dalla repubblica. G. Chi sono?

M. Ecco i nomi delle persone sul concorso delle quali potete far conto. - Così dicendo gli porse una lista in cui erano scritti diversi nomi.

G. Ma come trovare questa virtuosa gente?

M. lo so dove si sono rifugiati.

G. Indicatemeli.

M. Vado io stesso a cercarli.

G. Fermatevi: prendete questo danaro.

M. A che fine?

G. Per vostra ricompensa.

M. Colui che serve il suo paese per danaro è un tristo cittadino: io ne voglio un’altra.

G. E quale?

M. Quella che procura la coscienza quando si è adempiuto un dovere.

Si ricercano gli uomini accennati, i quali fatti certi che si attendeva a ristabilire l’ordine, nel desiderio di giovare alla patria, acconsentirono a ripigliare i posti di prima.

Da tutte le parti s’indirizzavano congratulazioni al generale Oudinot, perché aveva liberato Roma. Un giorno che si vide un gran numero di ecclesiastici guidati dal cardinale Castracane venire a lui pel medesimo oggetto, egli fu teneramente commosso, e pieno di gratitudine, loro rispose con queste parole:

«Signori, io vi ringrazio in nome. della Francia e dell’esercito dei voti che fate per noi. In quanto a me, sono pago di aver sostenuto l’onore militare della mia patria, e ristabilito qui l’ordine e la tranquillità, e godo specialmente di aver reso un tale servigio alla Chiesa ed a voi, che tanto dovete aver sofferto nei tristi giorni trascorsi.

»Adesso adoperiamoci tutti insieme a far dimenticare quelle calamità ed a rimettere l’ordine. La vostra lunga esperienza, la vostra preziosa cognizione dei bisogni del paese sono a me necessarie. lo conto sull’aiuto e sui lumi vostri. La milizia ed il clero sono i due grandi corpi chiamati a salvare l’avvenire. Solo nel sentimento religioso e nell’osservanza della legge può la società sconcertata trovare forza e salvezza».

In mezzo a indicibile trasporto di gioia, da tutte le autorità civili ed ecclesiastiche, unitamente al generale Oudinot col suo stato maggiore, alla presenza di tutto l’esercito e di immenso popolo, fu cantato un solenne Te Deum. Quando poi sul balcone del palazzo della Cancelleria si vide di bel nuovo comparire l’arma pontificia, non si udì più che un grido di universale allegrezza. Da ogni parte di quella grande piazza la moltitudine delle voci faceva un solo suono di: Evviva il Santo Padre, evviva il governo pontificio, evviva illegittimo sovrano!

Quando il generale francese mandò le chiavi della città a Pio IX, gli partecipò eziandio la liberazione di Roma e degli Stati romani, significandogli che poteva liberamente ritornare sul trono. Questa notizia tornava al santo Padre più gradita, in quanto che le cose eransi eziandio calmate in Piemonte, ove era salito sul trono l’amato nostro sovrano il re Vittorio Emanuele II, mentre gli Austriaci, dopo aver combattuto i ribelli in molte città degli Stati romani, erano pur riusciti a reprimerli nella Toscana e ricondurre sul trono il granduca Leopoldo.



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