S giovanni bosco


XXIX. Caduta di Napoleone e il Congresso di Vienna



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XXIX.
Caduta di Napoleone e il Congresso di Vienna (151).

(Dall’anno 1810 all’anno 1814).


Napoleone, rimasto padrone di quasi tutta Europa, ne distribuì i regni a’ suoi parenti. Fece re di Napoli suo fratello Giuseppe, poi Gioachino Murat, suo cognato. Questi, oscuro di nascita, aveva saputo col suo coraggio affezionarsi tanto l’animo di Napoleone, che, fatto imperatore, lo innalzò a quella dignità. In principio del suo regno Murat espugnò l’isola di Capri, situata a ponente del regno di Napoli, la quale era occupata dagli Inglesi. In appresso abolì la feudalità, e riuscì a disfarsi quasi interamente dai briganti, che infestavano il suo regno. Tentò d’impadronirsi della Sicilia, ma non poté. In fine cercò di rendersi affatto indipendente dai Francesi, ma ottenne solo di farne uscire le soldatesche.

Un altro cognato di Napoleone, il principe Borghese, ebbe il governo del Piemonte; sua sorella Elisa ebbe quello della Toscana. Nel 1811 creò re di Roma un proprio suo figliuolo, nato da Maria Luigia, figliuola dell’imperatore d’Austria (*).


[(*) Il figlio di Napoleone non vide mai Roma, di cui suo padre avealo creato re; e mori di 21 anni per flussione di petto, in quel medesimo palazzo di Vienna, dove l’imperatore aveva segnato nel 1809 il decreto della spogliazione del Papa (a).]
Al suo fratello Luigi diede il regno d’Olanda, al fratello Giuseppe il regno di Spagna, ad altro fratello, Luciano (**) [(**) Leggi: Gerolamo (*).] il regno di Vestfalia.

Queste arbitrarie donazioni avvisarono i popoli, che Napoleone non voleva dar loro libertà, ma imporre nuovi padroni. La qual cosa fu cagione di molte guerre sanguinose, e, fra le altre una ferocissima cogli Spagnuoli. Colà le milizie italiane si copersero di gloria. Avvenne che, sedendo Napoleone ad un banchetto insieme coi grandi dell’Impero, gli fu recata la notizia di una battaglia vinta col valore e col sangue degli Italiani. L’imperatore parlò con molto onore di que’ prodi soldati. Allora suo fratello Luigi gli disse: Se scorgete tanto valore negli Italiani, perché non fate di tutte le provincie d’Italia un regno solo? Bonaparte rispose: Ciò non farò mai, perché allora gli Italiani diverrebbero superiori ai Francesi.

Infatti da lui l’Italia fu divisa in nove parti, fra cui una sola prese il nome di Regno Italico. Questo regno estendevasi dal fiume Sesia al fiume Isonzo, altro fiume dell’Italia Settentrionale, e dalle Alpi al Po. Oltre al Po comprendeva ancora i ducati di Modena e Guastalla ed alcune altre provincie. La popolazione ascendeva a sei milioni e mezzo.

Intanto Napoleone non metteva più limite alla brama di conquistare: sacro e profano, tutto voleva in suo potere. Per le profanazioni da lui commesse, il Papa lo scomunicò pubblicamente, ed egli se ne rideva dicendo: Crede forse il Papa che le sue scomuniche facciano cadere le armi di mano ai miei soldati? Ma vedrete fra breve che lo scherzo si cangiò in realtà a danno dello schernitore.

Per desiderio di rendersi tutto il mondo soggetto, egli concepì l’orgoglioso pensiero di conquistare il vasto impero di Russia, che abbraccia un’immensità di paesi posti alla estremità settentrionale dell’Asia e dell’Europa. Napoleone non ignorava che tale impresa era difficilissima; perciò pose in piedi un esercito di oltre a quattrocentomila combattenti. Traversò (anno 1812) per mezzo il vasto impero di Germania, e si avanzò nelle immense contrade della Russia, per abbattere il grande colosso di quell’impero. Il rinomato esercito, il nome formidabile del condottiero recavano seco tale spavento, che i paesi, ove passavano, divenivano vaste solitudini. Dopo alcune scaramucce ed una sanguinosa battaglia, egli giunse ad impadronirsi della città di Mosca, la più grande e la più antica di quell’impero. Ma non se ne rese padrone, se non per essere testimonio di uno spaventevole incendio, che il russo governatore Rostopchin fece appiccare in varie parti della città, Affinché non servisse di ricovero all’esercito francese nell’inverno imminente. Colà dimorò un mese, sperando di costringere i Russi ad accettare le condizioni di pace che egli proponeva. Ma quelli a bella posta tardavano a rispondergli, né mai risolsero di venire ad una conclusione, aspettando che l’inverno sopraggiungesse ad assediarlo in quella provincia abbandonata.

Allora Napoleone si accorse di essersi troppo inoltrato in quei paesi senza le debite munizioni indispensabili per un esercito così numeroso. Altro formidabile nemico si avvicinava, ed era l’inverno. Dovete sapere, o miei cari, che questa stagione è rigidissima in quei paesi. I fiumi ed i laghi sono interamente agghiacciati; le strade e le campagne coperte di grossi ghiacci e di alta neve. Per reggere a quei geli sono necessarie pellicce, abbondanti cibi, buone caserme ed altri ripari; invece l’esercito mancava di tutto. Farei piangere, o giovani miei, se vi narrassi le disgrazie di quella ritirata, le privazioni, i dolori sofferti dai nostri soldati. Alcuni si arresero prigionieri ai Russi, altri vollero piuttosto morire sul campo, e i più venendo meno del freddo si lasciavano cadere di mano le armi, e perivano o di fame o di malattia, e pochissimi poterono sfuggire a quegli infortunii. Napoleone stesso a stento poté scampare fuggendo.

Distrutto quel grande esercito, Napoleone aveva perduto il sostegno della sua potenza, e tutte le nazioni da più anni oppresse gli si levarono contro. Gli alleati lo assalirono presso la Città di Lipsia nella Germania, e rimase sconfitto (18 ottobre 1813). Napoleone fuggì a Parigi, e là parimenti fu inseguito. Allora ritiratosi nel castello di Fontainebleau, è costretto a rinunziare alle sue corone, e nel dolore bagna di sue lagrime quel luogo medesimo, dove egli aveva fatto scorrere quelle del Romano Pontefice. Le Potenze alleate lo mandano in esilio nell’isola d’Elba, posta nel Mediterraneo tra la Corsica e la Toscana (11 aprile 1814).

In questo tempo gli Austriaci avevano riconquistata l’Italia, e i sovrani alleati eransi radunati a congresso in Vienna, per deliberare a chi toccherebbero le provincie prese dalle loro armi. Colà si ristabilirono gli antichi governi, che presero quelle medesime forme di reggimento che prima avevano.

Mentre si trattavano questi gravi affari riesce a Napoleone di fuggire da Elba e di ripigliare le redini dell’impero. Sbarca all’improvviso sulle spiagge della Francia, ove molti antichi suoi soldati lo ricevono con trasporto di gioia; ad ogni passo si uniscono gli avanzi del grande esercito; entra vittorioso in Parigi, e ristabilisce la potenza imperiale.

A sì inaspettata notizia gli alleati ripigliano le armi, che avevano appena deposte, e nuovamente si raccolgono sulle frontiere della Francia. Napoleone andò arditamente ad incontrarli nel Belgio, e si trovò a fronte del nemico presso un villaggio di quel paese chiamato Waterloo. Colà successe una delle più tremende battaglie; l’imperatore dei Francesi, sopraffatto dal numero dei nemici, dopo i più gagliardi sforzi delle sue truppe, dovette cedere e ritirarsi a Parigi. Così, dopo aver nuovamente regnato cento giorni incirca, cadde per la seconda volta. Allora Napoleone comprese che ogni resistenza era divenuta inutile; ed al cospetto dell’Europa intera armata contro ad un solo, acconsentì di rinunziare per sempre all’impero e si diede nelle mani dei suoi nemici. Questa volta il luogo del suo esilio fu l’isola di S. Elena, la quale è un povero scoglio dell’Oceano Atlantico, situato più di trecento leghe distante da tutti i paesi conosciuti. Vi sbarcò il 15 ottobre 1815. Quell’uomo straordinario, che aveva veduto quasi il mondo intero ai suoi piedi, passò colà cinque anni meditando i suoi passati trionfi e la presente sua povera condizione. Allora entrando in se stesso, poté conoscere appieno il nulla delle cose umane. Accorgendosi poi che si avvicinava il fine della sua vita, volle per tempo munirsi dei conforti della cattolica religione. «Io voglio morire, andava dicendo, nella religione cattolica, in cui son nato; il potere sbalordisce gli uomini, ma la fede fu sempre meco; ora desidero di glorificare Iddio». Morì il 5 maggio 1821. Egli riconosceva il principio della sua caduta nell’oppressione fatta al Romano Pontefice: perciò spesso andava ripetendo ai suoi amici: «Temete sempre il Papa, come se avesse dugentomila uomini armati accanto a sé».

Confinato Napoleone nell’isola di S. Elena, i sovrani di Europa poterono tranquillamente continuare il trattato di pace in Vienna. Se ne stipulò ancora uno in Parigi, dopo cui si distribuirono i regni a chi spettavano. In forza di quei trattati la Sardegna, la Savoia, il Piemonte, il Novarese furono restituiti ai nostri sovrani e vi fu allora aggiunto il Genovesato. I paesi della repubblica di Venezia e della Lombardia si unirono al dominio dell’Imperatore di Austria, sotto al nome di regno Lombardo-Veneto. Gli Stati Napoletani e i Ducati di Toscana tornarono ai primitivi loro sovrani.

Il Sommo Pontefice poi tornò liberamente al possesso degli Stati che prima aveva, senza che i suoi dominii venissero diminuiti od aumentati.

I ducati di Modena, di Reggio e della Mirandola furono dati a Francesco, arciduca d’Austria, e quelli di Parma, Piacenza e Guastalla a Maria Luigia, moglie di Napoleone.


XXX.
Rivoluzione di Napoli e di Sicilia (152).

(L’anno 1820).


Dopo la ripartizione dei regni fatta nel congresso di Vienna, l’Italia godette alcuni anni di tranquillità, di cui si valsero i sovrani per riparare ai mali cagionati dalle lunghe guerre e dalle rivoluzioni. In quel medesimo tempo quelle società segrete che già avevano sconvolta tutta la Francia, formarono lo strano e nuovo progetto di fare una repubblica sola di tutti i regni d’Italia. Per riuscire a questo intento, voi ben vedete, dovevano prima rovesciare tutti i troni italiani e la medesima religione. Studiarono pertanto di sollevare i popoli contro ai loro re, chiedendo una Costituzione pari a quella conceduta nella Spagna, mercé cui il principe faceva parte del suo potere al popolo, e tutti i sudditi erano uguali dinanzi alle leggi. Questa società segreta o società massonica o società italiana, oppure dei Carbonari, che si voglia appellare, prese grande incremento in tutta Italia e specialmente nel regno di Napoli. Nella sola Sicilia si contavano dugentomila cittadini pronti a tutto spendere e tutto dare, anche la vita, per effettuare la ideata repubblica italiana.

Con promesse, con danaro ed anche con minacce riuscirono a guadagnarsi molti soldati. Fra gli altri indussero un generale, di nome Guglielmo Pepe, a mettersi alla testa dei ribelli. Nel mattino del 2 luglio 1820 uno squadrone di cavalleria stanziato a Nola inalberò lo stendardo dei Carbonari, che era nero, vermiglio ed azzurro. Era quello il segnale della rivoluzione. Molte città ed altri soldati, sollecitati dai Carbonari, si riunirono in grande numero sotto al comando di Pepe per marciare contro Napoli e costringere il re Ferdinando a dare la Costituzione.

Il re, per sedare i tumulti, mandò i suoi soldati, i quali, eziandio sedotti dai ribelli, in gran parte disertarono e loro si unirono. Il re per riparare al disordine e risparmiare il sangue dei suoi sudditi, pensò di rinunziare il regno a suo figliuolo primogenito, di nome Francesco. Il quale, volendo eziandio tentar di frenare la ribellione, accordò la Costituzione spagnuola, salve le modificazioni che si sarebbero giudicate da introdursi nel futuro Parlamento nazionale. A questa concessione i rivoluzionari comandati da Pepe si acquetarono, e seguiti da immensa turba di contadini concorsi da tutte le provincie, fecero il loro trionfale ingresso nella città di Napoli e fra strepitosi applausi sfilarono dinanzi al novello re e a tutta la reale famiglia.

In mezzo a codesti avvenimenti gli abitanti dei due principati di Benevento e di Pontecorvo i quali, sebbene alquanto internati nel regno di Napoli, erano soggetti alla Santa Sede, diedero mano ai ribelli, si eressero in repubblica e si crearono nuovi magistrati e nuova milizia.

Mentre i rivoluzionari andavano consolidando il novello governo e discutevano le leggi da adottarsi, le grandi Potenze d’Europa si radunarono in un nuovo congresso a Lubiana (Laybak), città della Croazia. Si accorsero bentosto che la rivoluzione di Napoli era un torrente, che di bel nuovo minacciava di sconvolgere tutta l’Italia, e forse l’intera Europa; e per provvedere ai mezzi efficaci ad arrestarlo, invitarono il re Ferdinando ad intervenire egli stesso a Lubiana. Esso aderì volentieri all’invito, e la sua partenza segnò la sconfitta dei rivoluzionari.

Nel tempo stesso i Siciliani, eccitati dal medesimo desiderio di libertà vollero rendersi indipendenti (*).
[(*) "Ma un delitto conduce ad un altro" dicevano qui le prime edizioni (*).]
Sotto pretesto di scuotere il giogo del re di Napoli, si rivoltarono contro ai soldati napoletani stanziati in Palermo, poscia diedero la libertà ai prigionieri, e con essi misero a sacco quella città e trucidarono tutti i Napoletani che sventuratamente caddero nelle loro mani. La qual cosa fu cagione di gravi combattimenti ed uccisioni tra i soldati regi ed i Palermitani.

Mentre si reprimevano i tumulti della Sicilia e si andava consolidando il governo costituzionale, un incidente inaspettato deluse ogni aspettazione e desiderio d’indipendenza. Giunto appena il re Ferdinando a Lubiana, gli fu comunicata la risoluzione degli alleati, i quali protestavano di non voler riconoscere cangiamento di sorta nelle forme del governo di Napoli, intimando che fosse immediatamente abolita la Costituzione. Siffatta risoluzione fu inviata dal re a Francesco suo figliuolo.

Lascio a voi immaginare quale indignazione, malcontento ed odio eccitasse una somigliante notizia. Da ogni parte sollevaronsi tumulti, e parecchi si dimostrarono decisi di difendere la Costituzione contro a qualunque assalitore. Intanto giunse la nuova che un esercito di cinquantamila Austriaci marciava verso Napoli. Non punto per ciò atterriti i Napoletani, si disponevano a vigorosa resistenza; quarantamila soldati regolari, numerose milizie e bande irregolari correvano contro agli Austriaci. Io vi assicuro, cari amici, che se quelle genti fossero state guidate da generali periti e bene intenzionati, avrebbero forse messo in fuga i nemici, o almeno avrebbero contesa lungamente la vittoria. Ma l’accordo loro fu di poca durata. Sorsero varie discordie fra i costituzionali, e all’avvicinarsi dei nemici l’esercito napoletano si sbandò e la vittoria fu degli Austriaci, quasi senza combattere.

Il generale Pepe si provò a far resistenza: tentò due volte la sorte delle armi e combatté prodemente; ma privo di soccorso e quasi intieramente abbandonato dai suoi, venne sopraffatto e compiutamente sconfitto. Dopo di ciò l’intero regno delle Due Sicilie si sottomise al suo legittimo re. Ponte corvo e Benevento implorarono la clemenza del Pontefice Pio VII, il quale concedette generoso perdono. In questa maniera finì la guerra di Sicilia, che non lasciò alcun risultato, se non la rimembranza di pubbliche e private sciagure.

Ferdinando I, puniti i principali della rivoluzione, continuò a governare il regno con vigore fino all’anno 1825, in cui morì di apoplessia. Il generale Guglielmo Pepe prese ancora parte in altri affari politici e si occupò assai della guerra dell’indipendenza, di cui presto avrò a parlarvi; ma la fortuna nol favorì. Dopo alcuni anni di vita privata e sconosciuta egli terminava i suoi giorni in una villa situata sui colli di Torino, presso la chiesa di S. Vito, l’anno 1857.

XXXI.
La rivoluzione in Piemonte (153).

(Dall’anno 1821 all’anno 1822).

Le turbolenze del regno di Napoli influirono, secondo il solito, nel confinante Stato Pontificio. Allora che gli Austriaci varcarono il Po per marciare verso Napoli, il Santo Padre fece pubblicare un editto, col quale annunziava come egli pregava Iddio che tenesse lontano il flagello della guerra: che se per gl’imperscrutabili divini giudizi i popoli d’Italia dovessero essere afflitti da un sì gran male, per la sua qualità di Capo visibile della Chiesa e come sovrano essenzialmente pacifico, terrebbe una perfetta neutralità verso tutte le nazioni.

La Provvidenza preservò per allora la città di Roma dai disastri della guerra. I Carbonari si sparsero bensì negli Stati Pontifici a fine di suscitarvi l’incendio della rivoluzione; ma furono conosciuti, inseguiti e scacciati da quel regno. Migliori accoglienze ebbero in Piemonte, dove quelle società, particolarmente in Torino, eransi assai moltiplicate. Cominciò a farsi a poco a poco un certo malcontento dell’attuale governo, che presto degenerò in uno spirito rivoluzionario ed irreligioso. Molti attendevano niente altro che un’occasione per ribellarsi, e questa non tardò molto a presentarsi.

Alcuni studenti dell’Università di Torino per più sere fecero chiasso al teatro, ed una sera (11 gennaio 1821) quattro v’intervennero con berrettino rosso, che era il distintivo dei più caldi per la rivoluzione. La polizia n’ebbe sospetto, ed una sera, terminato lo spettacolo, li fece arrestare. Altri loro compagni, in numero di trecento circa, tentarono di strapparli dalla forza pubblica; si restrinsero dentro al palazzo dell’Università e protestarono di non allontanarsene finché i loro compagni non fossero posti in libertà. Molti si arresero alle minacce della polizia e molti furono ostinati né si risolsero a separarsi se non quando videro che i soldati erano pronti a ferire.

Questi fatti accrebbero in parecchi il malcontento, ed i costituzionali se ne valsero a promuovere la rivoluzione. La decisione fu presa nella città di Alessandria, ove in segreta adunanza giurarono la Costituzione spagnola, e promulgarono il ristabilimento del regno d’Italia, che dovesse abbracciare l’intera nazione. Alessandria fu la prima ad innalzare bandiera verde, rossa ed azzurra, e gridando viva il re, viva l’Italia, proclamò un governo provvisorio. Fossano, Pinerolo e gran parte dei Torinesi, unitamente a molti capitani e soldati, stanziati nella città di Torino, seguirono il movimento rivoluzionario, che in un baleno si propagò quasi per tutto lo Stato (*) [(*) COPPI, all’anno 1821 (a).].

Dicesi che i costituzionali proponessero a Carlo Alberto, allora soltanto principe di Carignano, di mettersi egli stesso alla testa della sommossa con promessa di farlo re d’Italia, e che egli da prima, lusingato da così speciosa proposta, acconsentisse; ma riflettendo poi al giuramento di fedeltà dato al legittimo sovrano, e sospettando di ciò che era realmente, che quella fosse opera dei Carbonari, pensò meglio di rifiutarsi. Regnava ancora negli Stati Sardi il re Vittorio Emanuele I, il quale da parecchi anni si adoperava pel bene de’ suoi sudditi. Egli era buono e contando sulla fedeltà dei suoi soldati, sperava di riuscire a reprimere gli insorti, che di fatto sul principio non erano in gran numero. Ma quando seppe che molte città e parecchi de’ suoi medesimi soldati si erano collegati coi ribelli e che perciò dovevasi venire ad una guerra civile, cioè a spargimento di sangue tra i suoi sudditi stessi, pensò di rinunziare la corona in favore di suo fratello Carlo Felice, che allora dimorava nella città di Modena. Affinché poi non restasse il suo regno senza capo, nominò reggente Carlo Alberto; egli colla sua famiglia si ritirò a Nizza, rimasta fedele in quel generale sconvolgimento (**) [(**) COPPI, luogo citato (a).].

Intanto i tumulti crescevano da tutte le parti. Nella stessa capitale tutto era in disordine. Una turba di ribelli scorreva le vie della città, e radunandosi sulla piazza con alti schiamazzi domandava la Costituzione.

Il municipio di Torino, intimorito da queste grida, spedì al principe una deputazione, con cui partecipava che in vista dei gravi ed imminenti pericoli era indispensabile la Costituzione.

Carlo Alberto cedette alle istanze, ed affacciatosi al balcone del suo palazzo annunziò ai tumultuanti la Costituzione, che pubblicò nel giorno seguente. Poi non volendo tradire la fedeltà dovuta al sovrano, si assentò celatamente da Torino, andò a Novara, donde si recò in Toscana.

La Costituzione fu accolta con entusiasmo dagli assembrati, e con somma celerità venne comunicata in tutti gli Stati di terraferma.

Le mire dei costituzionali erano di assecondare lo spirito di indipendenza dei Napoletani, persuasi che gli Austriaci colà mandati sarebbero stati sconfitti, e che un esercito di Piemontesi, cui si erano già uniti molti Lombardi, avrebbe in breve scacciati gli Austriaci e fatto un sol regno, od una sola repubblica di tutta l’Italia. Ma fu breve l’esistenza della Costituzione a Napoli ed ancora più breve in Piemonte.

I soldati Piemontesi, rimasti fedeli al loro sovrano, si concentrarono in Novara, ed i ribelli portaronsi colà per assalirli. Ma il barone della Torre, che governava Novara, per espresso comando del re aveva chiesto soccorso al generale austriaco di Milano, il quale gli mandò parecchi battaglioni in aiuto, affinché i Piemontesi non avessero a combattere contro ad altri Piemontesi, e non si destasse una guerra civile. I costituzionali, come videro gli Austriaci a sbucare dalla porta di Novara, si diedero alla fuga, ed il barone della Torre coi suoi soldati si avviò verso Torino, dove entrò senza incontrare nessuna resistenza, e ristabilì le cose come erano prima.

I capi della rivoluzione furono condannati a morte; ma i più erano fuggiti; due soli furono arrestati e condotti al patibolo. Poco stante il re Carlo Felice si ricondusse da Modena nei suoi Stati. Così terminò quella sconsigliata impresa, la quale, invece di unificare l’Italia, valse a disunirla sempre più, ed in cambio di liberarla dagli Austriaci, fu cagione che questi occupassero per qualche tempo la cittadella di Alessandria.



XXXII.
La guerra dell’Indipendenza Italiana (154).

(Dall’anno 1822 all’anno 1849).

La rivoluzione napolitana e piemontese del 182I fu solamente repressa colla forza, ma lo spirito fu sempre il medesimo. Il piano era di fare una repubblica sola di tutta l’Italia, e perciò di allontanare il Papa da Roma, e togliere dal trono tutti i re d’Italia. Questa idea cagionò un secondo tentativo di rivoluzione nel 1831; ma fu intieramente soffocato nel primo apparire.

Le cose passarono con un’apparente tranquillità fino al 1847. In quest’anno, miei cari, fu suscitato un entusiasmo di novità per tutta l’Italia, che parve avere perduto il senno. Pio IX era stato eletto alla sede pontificia l’anno innanzi; egli aveva conceduto un’amnistia, vale a dire un perdono a tutti quelli che per essersi ribellati alle leggi dello Stato eransi mandati in esilio. Aveva altresì concesso alcune riforme giudicate utili a’ suoi popoli ed alla cattolica religione. Questi tratti di bontà e di clemenza facevano risuonare il suo nome con mille applausi in ogni parte. Gli amatori della rivoluzione seppero approfittare di quell’entusiasmo a fine di spargere di nuovo in tutta l’Italia il pensiero di fare un regno solo cacciando dalla Lombardia gli Austriaci, che erano formidabili loro rivali. Per dare principio ad una impresa di questa fatta era necessario prendere le armi e combattere. Ed ecco da ogni parte gridarsi: Viva l’Italia, viva Pio IX, morte agli Austriaci!

I Piemontesi accoglievano ogni più piccola occasione che potesse contribuire a tale scopo. I Milanesi furono i primi ad impugnare le armi per allontanare gli Austriaci dalla loro città e dar principio alla guerra detta dell’Indipendenza, perché pretendevasi di liberar l’Italia da ogni dipendenza straniera. Fu sparso molto sangue da una parte e dall’altra, e la cosa sarebbe stata condotta alle più deplorabili calamità, se i Piemontesi non fossero corsi a soccorrere i Milanesi e combattere contro ai medesimi Austriaci. Alla testa dell’esercito piemontese era Carlo Alberto, re di Sardegna, di cui è bene che vi parli alquanto di proposito.

Questo principe è quel medesimo che nella rivoluzione del 1821 aveva proclamato la Costituzione spagnuola; al quale progetto rinunziò intieramente sia per ubbidire al suo legittimo sovrano, sia per non opporsi alle potenze alleate riunite nella città di Lubiana, sia anche perché erasi già accorto che i capi di quel movimento appartenevano alle società segrete, perciò uomini da non fidarsi. Nel 1831, alla morte del re Carlo Felice, egli salì pacificamente sul trono e governò diciotto anni i suoi sudditi con un governo il più benigno che mai si possa desiderare. Il suo governo fu quello di un padre e non quello di un sovrano. Ogni sua cura, ogni suo pensiero era intento a far rifiorire l’ordine e la moralità ne’ suoi Stati. Nel 1847 pubblicò alcune riforme intorno al modo di amministrare la giustizia e governare i suoi sudditi. L’anno seguente poi pubblicò lo Statuto, ossia Costituzione, con cui tutti i suoi sudditi furono dichiarati uguali dinanzi alla legge. Si dichiarò eziandio che la sola religione dello Stato è la cattolica, apostolica, romana; gli altri culti esistenti soltanto tollerati in conformità alle leggi.

Egli dunque si pose alla testa di circa centomila combattenti per recare soccorso ai Milanesi e sostenere la guerra dell’indipendenza. Pensava che tutti gli altri popoli d’Italia avrebbero mandato genti in suo aiuto: e di fatto il re di Napoli spediva sedici mila uomini nella Lombardia, ma accortosi che si minacciava una ribellione nei suoi Stati, egli richiamò i suoi, e colla forza acquietò i tumulti e ristabilì l’ordine. Si diceva eziandio che il Papa mandava un generale (Durando) alla testa di dieci mila Romani, quasi che Pio IX fosse egli il promotore di quella guerra; ma è cosa certa che il Papa inviava que’ dieci mila soldati unicamente per difendere gli Stati pontificii con ordine espresso di non oltrepassarli. Tuttavia quel generale, trasgredendo gli ordini del suo sovrano, si portò nella Lombardia, venne anzi tempo alle mani cogli Austriaci e ne ricevette grave sconfitta. Anche il granduca di Toscana mandò sei mila uomini in soccorso di Carlo Alberto, i quali non poterono unirsi all’esercito piemontese; imperocché in uno scontro cogli Austriaci, dopo avere con valore combattuto, furono interamente sconfitti.

Allora Carlo Alberto rimase solo. Tuttavia la sorte delle armi gli fu propizia, e riportò molti vantaggi sopra gli Austriaci i quali furono costretti a cercare una favorevole posizione per aspettare rinforzi dalla Germania. Al di là del fiume Mincio sorgono quattro fortezze, Peschiera, Mantova, Verona e Legnago, le quali occupano per così dire i quattro angoli di una specie di quadrilatero. Il generale Radetzky si ritirò entro questo quadrato donde usciva talora ad inquietare i Piemontesi. Questi assediarono Peschiera e la presero, poi si avanzarono verso Verona. Radetzky, che aveva già ricevuto rinforzi, usci ad incontrarli, e dopo alcune battaglie fatte con vario evento, alfine li ruppe e li inseguì sino a Milano, dove il re intendeva di rinnovare la prova delle armi; ma la plebaglia di quella città, avendolo accolto come nemico, egli ripassò il Ticino, rientrò coll’esercito nei suoi Stati, dopo aver domandato un armistizio, ossia una sospensione delle ostilità, che ottenne.

Fu un momento, in cui l’Austria si vide a mal partito, perché mentre la Lombardia si era sollevata e vi stavano le armi piemontesi, anche in Vienna e nella Boemia il popolo si era rivoltato e voleva novità. Allora offrì a Carlo Alberto di cedergli la Lombardia sino al fiume Mincio, ma i ministri piemontesi, animati dal successo delle armi, elevatisi a maggiori speranze, ricusarono l’offerta pretendendo di avere la Lombardia e la Venezia.

Intanto si avvicinava la primavera del 1849, e Carlo Alberto, non avendo perduto né il val9re né la speranza di vincere, mandò a denunziare agli Austriaci il fine dell’armistizio, deliberato di entrare nuovamente in campagna, e vi entrò infatti colle sole sue forze che sommavano a più di centomila uomini. Si avanzava verso il Ticino per affrontare l’esercito nemico, quando il generale Ramorino che doveva difendere questo fiume, là dove gli Austriaci facilmente tragittar lo potevano, per sua incuria li lasciò passare. Allora avendo così tramezzato l’esercito piemontese, i nemici capitanati dal maresciallo Radetzky si recarono contro al maggior nerbo che stava presso a Novara.

I due eserciti s’incontrarono nelle pianure di Novara. Si diedero parecchi attacchi parziali, che in parte furono favorevoli ai Piemontesi; ma il terzo giorno (23 marzo 1849) si venne ad una battaglia campale presso un borgo detto la Bicocca. Colà si combatté accanitamente. Alle ore undici del mattino gli Austriaci assalirono l’esercito piemontese con grande impeto da tutte le parti. La brigata di Savona, che occupava le prime posizioni, ripiegò subito; ma rinforzata dalla brigata di Savoia ricuperò tosto il terreno perduto e fece alquanto indietreggiare i nemici. Allora incominciò il fuoco da tutte le parti. Moschetteria, artiglieria ed ogni arma da fuoco era in opera. La riserva sotto gli ordini del duca di Genova accorse a sostenere lo sforzo dei nemici che cominciavano a ripiegarsi. Il giovane principe dando l’esempio di raro coraggio fece prodigi di valore, e dopo che gli furono feriti o uccisi sotto diversi cavalli si pose a combattere valorosamente a piedi. Sforzi inutili. Prevalsero i nemici, i Piemontesi furono respinti; sopraggiunse la notte, e il campo di battaglia rimase in potere dei vincitori.

Il re Carlo Alberto, sempre esposto al fuoco, ricercando a preferenza le posizioni che offrivano maggior pericolo, fu magnanimo pel suo coraggio in tutti que’ fatti; ma quando vide perduta la battaglia radunò lo stato maggiore, cioè i principali del suo esercito, e: «Poiché, disse esclamando, non potei in questo giorno né salvare l’Italia né morire della morte del soldato, l’obbligo mio è ormai compiuto. lo non posso più rendere servigi alla patria, alla cui felicità consacro da diciotto anni la mia vita, rinunzio volontariamente alla corona per deporla sulla fronte di mio figlio». Carlo Alberto era circondato dai due suoi figliuoli, e dai principali ufficiali, che tutti tentavano di farlo desistere dal suo proposito, ma egli restò irremovibile nel voler suo. «Vi ringrazio, disse abbracciandoli, vi ringrazio di tutti i servigi che avete renduti allo Stato del pari che alla mia persona; ma non sono più re, il vostro re è mio figliuolo Vittorio Emanuele».

Dopo questo avvenimento Carlo Alberto, immerso in dolore profondo, accompagnato da un solo servo recossi in Oporto, città del Portogallo. Ivi aggravato dal peso della sventura e da una antica malattia cessò di vivere il 28 di luglio 1849.

La cagione della sconfitta di Novara si attribuì principalmente alla colpa del generale Ramorino, il quale, essendo poi stato giudicato in un consiglio di guerra, fu condannato a perdere la vita.

Così terminò la guerra dell’indipendenza, ed il Piemonte per ottenere la pace dovette pagare settantadue milioni.


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