S giovanni bosco


XXIII. Ultimi anni di Vittorio Amedeo II



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XXIII.
Ultimi anni di Vittorio Amedeo II (145).

(Dall’anno 1714 all’anno 1731).


La vittoria di Torino, dovuta piuttosto alla protezione del Cielo che al valore delle armi, portò la pace al Piemonte, e, possiam dire, a tutta l’Italia. In forza poi del trattato di Radstadt il duca di Savoia aggrandì molto i suoi Stati; acquistò l’intero Monferrato, Alessandria, Valenza, Lomellina, Val di Sesia, e tutto quello che possedevano i Francesi al di qua delle Alpi. In virtù di questo medesimo trattato fu data la Sicilia a Vittorio Amedeo col titolo di re: onde nel progresso di questa storia noi daremo sempre questo titolo ai principi Sabaudi.

Vittorio Amedeo divenuto tranquillo possessore dei nuovi Stati, si occupò con paterna sollecitudine a riparare ai gravi mali che le lunghe guerre avevano cagionato, e diede molte utili disposizioni a fine di promuovere le scienze e le arti.

Diede all’Università sede stabile in Torino, e ne accrebbe le cattedre. Fondò il così detto Collegio delle Provincie, dove i giovani dello Stato più studiosi fossero nutriti a spese del pubblico; riordinò gli studi secondari e ne affidò la cura ad una scelta d’uomini dotti, chiamati col nome di Magistrato della Riforma. Ma egli volle mischiarsi in cose di religione, cui un principe deve solo attendere per istruirsi e non mai per amministrare. E se il favore accordato ai protestanti eragli stato cagione di lunga guerra, avendo voluto di bel nuovo ingerirsi in affari ecclesiastici, dovette provare grandi rimorsi sul finire della vita. Soltanto giudicò di poter avere la pace del cuore col rinunciare la corona a suo figliuolo Carlo Emanuele, seguendo in ciò l’esempio di alcuni suoi antecessori. Ma non avendone le stesse virtù dopo due anni bramò di riprendere il suo regno. A questo fine venne dalla Savoia in Torino, ove trovando tutta la città in festa per onorare suo figliuolo, egli giudicò di ritirarsi a Moncalieri. Le inquietudini crescevano, ed egli volle provare di entrare nella cittadella di Torino, persuaso di essere bene accolto in un luogo, da cui aveva allontanati i nemici con tante fatiche e con tanti pericoli. Ma dal governatore glie ne fu proibita l’entrata. In questo frangente Carlo Emanuele non vedendo più altra via per calmare l’inquieto genitore, ed assicurare la pace al suo Stato, prese una deliberazione inaudita nella storia. Ordinò che il vecchio monarca fosse preso e custodito qual prigioniero. Era questo un fatto ripugnante alla natura, e lo stesso Carlo tremava nel sottoscriverne il decreto, né mai vi si poté arrendere se non quando i suoi consiglieri gli fecero conoscere essere questo l’unico mezzo per impedire gravi disordini. Vittorio. Amedeo languì quasi due anni prigioniero prima nel castello di Rivoli, poi in quello di Moncalieri, ove oppresso dal dolore, morì nel 1731.

Questo sovrano è assai commendevole pel suo valore mili­tare e per molti provvedimenti politici. Egli fu il primo di Casa Savoia a portare il titolo di re. Ma, insorte nuove turbolenze, egli cedette il regno di Sicilia all’imperatore di Germania e si ebbe in compenso l’isola di Sardegna. D’allora in poi (1720) i duchi di Savoia furono sempre qualificati col nome di re di Sardegna.

Intorno a questo medesimo tempo si estinsero due illustri famiglie, che da più secoli regnavano in Italia, cioè quella dei Medici, che, come sapete, governava la Toscana, e quella dei Farnesi che teneva il ducato di Parma e di Piacenza. Entrambi questi ducati passarono da prima ad un principe spagnuolo detto D. Carlo. Ma quindi a poco essendo egli andato al possesso del regno di Napoli, la Toscana cadde in potere del duca di Lorena, che è un ducato posto all’oriente della Francia. Quel duca chiamavasi Francesco e per avere sposata Maria Teresa, figliuola dell’imperatore Carlo VI, divenne lo stipite di quei granduchi, che governarono per tanto tempo la Toscana. Il governo di Parma e Piacenza passò a Filippo, fratello di D. Carlo.

XXIV.
La battaglia dell’Assietta e la liberazione di Genova (146).

(Dall’anno 1731 all’anno 1748).


Carlo Emanuele IlI, pervenuto al trono, pose le sue cure specialmente intorno all’esercito. Fondò scuole di artiglieria, terminò la costruzione di due grandi fortezze, quella d’Alessandria e l’altra della Brunetta vicino a Susa; fabbricò l’arsenale, migliorò grandemente lo stato della Sardegna, e così in poco tempo ne accrebbe assai la popolazione. Voleva abbattere interamente il feudalismo, ma non poté riuscirvi; tuttavia lo diminuì in gran parte.

Quasi nel medesimo tempo che Carlo Emanuele faceva le sue riforme in Piemonte, Leopoldo I, granduca di Toscana, figliuolo secondogenito di Francesco e di Maria Teresa, ne fece eziandio molte nei suoi Stati. Egli abolì molti privilegi, vietò là tortura e tolse vari abusi nell’amministrazione della giustizia. Disfece i corpi d’arte, che erano unioni di artigiani e di commercianti fatti a fine di provvedere ai bisogni di coloro che vi appartenevano; riordinò gli studi e fondò scuole ed ospedali.

Regnando Carlo Emanuele succedettero due avvenimenti, che cagionarono grandi guerre in tutta Europa e nella stessa nostra Italia; e sono la guerra per la successione di Polonia, e per la successione d’Austria.

In Polonia, gran regno allora tra l’Alemagna e la Russia, era consuetudine che i re fossero fatti per elezione. Perciò alla morte di un re di quella nazione non succedevano i figliuol. del defunto, ma si radunavano i principali signori del regno, che dicevansi elettori, ed eleggevano colui che reputavano più capace a governare, fosse anche stato uno straniero. Nel 1733, era morto il re di Polonia, di nome Federico, e i grandi del regno erano discordi per la elezione di un successore. La Francia pretendeva che fosse rieletto un certo Stanislao Lezinski, che era già stato re nel principio di quel secolo. Ma l’Austria e la Russia volevano che fosse eletto Augusto di Sassonia, figliuolo del defunto Federico. Quindi si venne ad una guerra di Francia e Spagna contro Austria e Russia. Il teatro di quella lunga guerra fu specialmente l’Italia; e il re di Sardegna ora si univa agli uni ora agli altri, usando sempre accortezza e coraggio per conservare i suoi Stati. Dopo due anni di guerra si venne a trattazioni di pace; quindi in un congresso tenuto in Vienna nel 1738 fu deciso che Augusto rimanesse re di Polonia, e che un principe di Spagna, di nome Carlo Borbone, fosse riconosciuto re di Napoli e di Sicilia.

Vi prego, miei cari amici, di non dimenticare questo avvenimento, perché da questo Carlo di Borbone ebbe origine una lunga dinastia, conosciuta nella storia sotto al nome di re delle Due Sicilie.

L’altro fatto, che ha molta relazione colla storia della nostra Italia, fu la guerra della successione d’Austria. Nel 1740 era morto Carlo VI, imperatore d’Austria, lasciando erede una figliuola di nome Maria Teresa, moglie, come abbiamo detto, di Francesco di Lorena. In forza di una legge, detta Prammatica sanzione, ella doveva succedere al trono paterno. La Prussia, la Francia e la Spagna si mossero contro alla novella imperatrice per dividersi tra loro quell’impero. L’Inghilterra fu neutrale, e Carlo Emanuele si unì anch’esso a Maria Teresa; quindi si accese una nuova e grande guerra europea, che durò nove anni.

Carlo Emanuele fu l’eroe di tante imprese, e segnalò il suo coraggio in molte battaglie combattute in Italia e fuori. Un poderoso esercito di Austriaci e di Piemontesi ruppe più volte gli alleati Francesi e Spagnuoli, e giunse a cacciarli interamente dall’Italia. Fatti arditi per siffatti successi i vincitori, giunti sul Genovesato, premurosi di allontanare i loro rivali, si divisero in due parti. Il grosso dell’esercito composto di Tedeschi si volse verso Genova, mentre Carlo Emanuele prese ad inseguire i Francesi per la riviera di ponente, che è la sponda del Mediterraneo da Genova verso la Francia. Questo principe riportò molte vittorie sopra l’esercito francese, finché sopraggiunti numerosi rinforzi agli alleati, toccò parecchie rotte e dovette ritornare in Piemonte.

Fra gli alleati era un numeroso esercito composto di Francesi, il quale tentava di calare in Piemonte dal Monginevro. Fino a quel tempo erano solamente due le strade abbastanza praticabili per venire di Francia in Piemonte; una doveva affrontare il forte di Fenestrelle per discendere verso Pinerolo; l’altra per Susa, e doveva passare vicino al forte di Exilles. Devo notarvi che è cosa pericolosissima ad un esercito il passare vicino ad un forte o ad una cittadella; perciocché pochi uomini chiusi al di dentro, mediante buona artiglieria con arte collocata in luogo favorevole, bastano a far orrenda strage di soldati i più forti e valorosi, senza poter far colpo di difesa. I Francesi, per evitare questi due luoghi pericolosi, tentarono un passaggio per un colle detto Assietta, il quale divide la montagna sopra cui sono situati Fenestrelle ed Exilles. Per difendere il colle dell’Assietta eransi colà fortificati quattro battaglioni di Austriaci e dieci battaglioni di Piemontesi sotto il comando del conte di Bricherasio.

I Francesi, in numero di quaranta battaglioni, guidati da un generale chiamato Bellisola, cavaliere ardente, ma inesperto, cominciarono arditamente a salire su pei dirupi e pei macigni. I difensori alla vista di quegli inaspettati assalitori, che si arrampicavano in mezzo ai frantumi ed alle screpolature dei macigni, furono spaventati, tanto più che il numero dei nemici era tre volte maggiore e copriva tutta la montagna intorno. Ciò non ostante, considerando la favorevole loro positura, e pensando che dalla salvezza di quel forte dipendeva la salvezza dello Stato, si determinarono a fare una estrema resistenza. Si possono difficilmente esprimere i replicati e furiosi assalti dei Francesi, sempre con vigore e con fermezza sostenuti dagli assediati.

Il Bellisola, volendo fare l’ultima prova, piglia la bandiera, invita i suoi compagni a seguirlo e si arrampica su, deciso di penetrare nel forte o di morire; tutti i suoi con ardore lo seguono. Allora gli assediati, vedendosi con tanto impeto assaliti, fanno anch’essi gli ultimi sforzi. Lance, spade, artiglierie sono messe in opera; sassi e macigni si precipitano e si fanno rotolar giù sopra il nemico. La vittoria è de’ Piemontesi; il generale nemico cade ucciso di più ferite; cinquemila Francesi, fra cui trecento ufficiali della prima nobiltà, restano morti o prigionieri; gli altri sbaragliati si salvano colla fuga ritornando in Francia (19 luglio 1747).

Ma i Tedeschi, che eransi portati sopra Genova, non sapendosi servire con moderazione nella vittoria, ebbero ad incontrare una sorte assai trista. Per comprendere il fatto è bene che notiate come i Genovesi eransi uniti ai Francesi e prestarono loro efficace aiuto nella guerra contro ai Piemontesi e contro agli Austriaci. Toccata la peggio ai Francesi, come vi ho detto poco fa, e costretti a fuggire precipitosamente, un generale di nome Botta Adorno, nativo di Pavia, si volse verso Genova per prenderne vendetta. I Genovesi e per la guerra sostenuta, e per avere dovuto somministrare armi, danari e soldati ai Francesi, non erano in grado di potersi difendere laonde chiesero pace a quel generale, offrendosi pronti ai patti che egli avrebbe loro imposto.

Il Botta, approfittando dello sbigottimento in cui si trovavano i cittadini, impose loro assai dure condizioni e fra le altre che gli fossero aperte le porte della città, consegnate le artiglierie e le munizioni da guerra; il doge con sei senatori fossero mandati a Vienna, e gli venisse pagata una grossa somma di denaro pei danni della guerra. Siffatte condizioni sembrarono durissime, ed era come spogliare quella florida repubblica e renderne schiavi gli abitanti. I Genovesi pregarono con calde istanze il vittorioso generale di voler mitigare il suo rigore; egli si mostrò inesorabile, e fu mestieri piegarsi alla sua volontà.

Il Botta, appena entrato in Genova, impose un altro tributo di tre milioni di genovine, somma che corrisponde a circa diciotto milioni di franchi, di cui sei dovevano pagarsi fra due giorni, sei fra otto, e gli altri sei fra quindici. A tale oppressione si aggiungevano barbare minacce e continui furti. I Genovesi gli mandarono una deputazione, ed egli ributtò i deputati dicendo: Siete indegni di riguardo, vi spoglieremo di tutto, e non vi lascieremo che gli occhi per piangere. Si dovettero pertanto vendere i tesori dei luoghi pii, i depositi del pubblico, e a forza di stenti e di sforzi furono pagati i diciotto milioni. Ma quale non fu la loro sorpresa, quando i Tedeschi si fecero a dimandare altri sei milioni, poi altre somme ancora, minacciando di mettere a sacco la città in caso di rifiuto? Allora il malcontento divenne universale; tutti i cittadini fremevano di rabbia, e non ci voleva se non chi desse il primo segno, per venire ad una disperata ribellione. L’occasione fu questa.

Mentre i Tedeschi strascinavano un grosso mortaio per la città, si sfondò la strada e rimasero colà incagliati. Volevano sforzare i popolani a prestare loro aiuto, e quelli che si rifiutavano erano barbaramente percossi a colpi di bastone. Alla vista di siffatta oppressione un giovinotto di nome Balilla, mosso da rabbia e da disperazione, raccoglie un sasso e gridando: È tempo di finirla! lo scaglia addosso ad un Tedesco. Immediatamente uomini di ogni età e condizione a furia lanciano sassi e rottami di pietra sopra i soldati, i quali parte restano uccisi, parte, lasciato il mortaio, si dànno alla fuga. La sommossa è incominciata e ad ogni passo va ingrossando; la notte si avanza, e il popolo armato di ciò che più presto gli capita nelle mani, assale i Tedeschi e va a corpo a corpo contro alle artiglierie che fulminano. Il Botta conobbe allora il fallo commesso nell’abusare della vittoria, e dopo più ore di arrabbiato combattimento, offrì patti favorevoli ai Genovesi, i quali li rifiutarono, dicendo: Non abbiamo più bisogno di vostra limosina.

Ai Tedeschi non rimase più altro scampo che una pronta fuga, mentre i Genovesi li inseguivano coraggiosamente gridando: Viva Genova, Viva Maria, che ci ha salvati! La precipitosa fuga dei Tedeschi fece sì, che lasciassero ai Genovesi tutte le munizioni e tutti gli arnesi dell’esercito. Il generale Botta pieno di rabbia si ritirò nella città di Pavia sua patria, dove condusse una vita privata e morì col rimorso d’essere stato troppo crudele verso i Genovesi.

In questa maniera Genova si liberò dai Tedeschi e riparò i guasti cagionati dai nemici.

Il fatto dell’Assietta e la liberazione di Genova sono gli ultimi avvenimenti della guerra per la successione d’Austria. Tutti i popoli d’Italia erano stanchi, e le Potenze per mettere un termine ad una guerra, che già da nove anni travagliava l’Europa, si radunarono in Aquisgrana, città d’Alemagna, oggi detta Aix-la-Chapelle; e nel 1748 fu stabilita la pace e riconosciuto imperatore d’Alemagna Francesco I, marito di Maria Teresa. Quel Francesco fu lo stipite dei sovrani che regnano ancora sotto al nome d’imperatori d’Austria (*).
[(*) Inteso: ai tempi in cui l’A. scriveva. Dopo la Guerra Mondiale son decaduti (*)].


XXV.
Uomini celebri di questo secolo:

Alberoni, Tanucci, Muratori (147).

(Dall’anno 1748 all’anno 1789).

Dopo la vittoria dell’Assietta e la liberazione di Genova, e dopo la pace di Aquisgrana, passò quasi un mezzo secolo, senza che in Italia fosse suscitata grave discordia; mentre in altri paesi continuò quasi come prima. Una guerra, che si può appellare europea, seguì tra la Francia e l’Austria contro la Prussia e l’Inghilterra; guerra, che terminò col mettere gl’Inglesi in possesso di molte provincie nell’America e nell’Africa. La seconda fu fatta dagl’Inglesi contro alcuni paesi dell’America, i quali, privi di forza e di aiuti, dovettero riconoscere gl’Inglesi come padroni.

Ma l’Italia non prese parte alcuna in queste guerre; perciò io sospendo dal parlarvi di vittorie e di sconfitte e vi esporrò le azioni di alcuni celebri Italiani, che in questo spazio di tempo ebbero grande influenza negli affari e nella gloria de’ nostri paesi.

Merita di essere nominato pel primo Giulio Alberoni, figliuolo di un ortolano di Piacenza. Manifestando esso grande attitudine alle scienze, suo padre procurò di fargli percorrere la carriera degli studi, in cui difatto egli fece maravigliosi progressi. Allo studio accoppiava una vita esemplare e costumata, sicché abbracciò lo stato ecclesiastico. Il suo ingegno e la sua abilità nel trattare i grandi affari gli fecero prender parte ai più gravi avvenimenti d’Europa. Egli fu prima curato, poi canonico e segretario del vescovo di S. Donnino, poi ministro del re di Spagna. A dirvela schietta, miei cari, mi sembra che Alberoni avrebbe forse fatto meglio di occuparsi delle cose di religione, lasciando ad altri la politica; ma egli si pensava di far del bene ai popoli, qualora fossero stati effettuati i suoi progetti. Una fra le cose di lui memorabili fu questa. Fece allestire con somma segretezza una potentissima flotta; venne in Italia e s’impadronì delle isole di Sicilia e di Sardegna. Ma la politica era quella che aveva portato l’Alberoni all’apice della gloria, e la politica doveva precipitarlo. Dopo di essere stato più anni l’arbitro delle cose di Spagna, venne accusato presso al re ed alla regina; e ad istanza della Francia, dell’Inghilterra e del re di Sardegna fu deposto dalla sua dignità e mandato in esilio. Allora l’Alberoni comprese che si era dato al maneggio di affari non adatti alla sua vocazione; perciò si ritirò da ogni cura profana, insegnando come le umane grandezze siano il bersaglio degli uomini, e come in un momento rendano infelice chi il giorno prima si trovava al colmo delle prosperità. Fra le cose per altro che renderanno sempre cara la memoria dell’ Alberoni fu il collegio a sue spese fondato in Piacenza, dove sono tuttora mantenuti e guidati agli studi gratuitamente sessanta poveri giovani a benefizio di quella diocesi. Egli terminava i suoi giorni nel detto collegio nel 1752.

Altro personaggio celebre nella storia per l’influenza che ebbe nelle cose politiche, fu Bernardo Tanucci, avvocato toscano. Nell’occasione che Carlo Borbone, il quale divenne poi re di Napoli, trovavasi in Toscana, avvenne che fu ritardata un momento la punizione di un delinquente, perché erasi rifugiato in un luogo sacro che godeva dell’immunità.

L’immunità, o miei cari, deriva dalla venerazione che meritano i luoghi, le cose e le persone sacre. Negli antichi tempi, presso ai medesimi pagani, qualunque colpevole si fosse rifugiato in un luogo sacro, e si fosse posto supplichevole toccando l’ara di una delle loro false divinità, non poteva essere catturato senza sacrilegio. Di eguale immunità godettero meritamente le chiese de’ Cristiani in tutti i tempi; e il rifugiato non poteva essere arrestato nel luogo sacro, salvo che si ottenesse la permissione dal vescovo, che soleva concederla nei casi di gravi delitti.

Ma il Tanucci per compiacere a Carlo Borbone si sforzò di provare, che le immunità erano contrarie alla legge civile, quasi che non debba essere proprio di ogni legge civile comandare un rispetto particolare ai luoghi ed alle cose sacre. Questo fatto gli acquistò la stima di Carlo, il quale, in forza del trattato di Vienna, come vi raccontai, divenuto re di Napoli, creò il Tanucci suo ministro. Costui si rese famoso per l’ostinazione a promuovere leggi contrarie alla Chiesa; la qual cosa fu sorgente di molte turbolenze, e diede pessimo esempio ad altri sovrani e ministri a fare altrettanto. Infine la Provvidenza permise che quel ministro cadesse in discredito presso al re Ferdinando IV, successore di Carlo, e fosse deposto dalla sua dignità. Il Tanucci, vedutosi così umiliato, ritirossi in una sua casa di campagna, dove morì nel 1783 nella povertà: giusta ricompensa di chi aveva oppressa la Chiesa e dispregiata la propria religione.

Più celebre e più gloriosa è la memoria di Lodovico Antonio Muratori, uno dei più dotti e laboriosi uomini di cui si onora l’Italia. Ascoltate quanto è varia ed istruttiva la vita di lui. Egli nacque in un borgo detto Vignola, vicino a Modena, nel 1672, e fece i suoi studi in quella medesima città. Si segnalò per applicazione e progressi nelle lingue antiche, nella filosofia, nella giurisprudenza e nella teologia. In ogni classe ebbe il premio, e fu sempre applaudito. Egli trovò un segreto per avanzarsi nelle scienze, e fu di essere sobrio, fuggire l’ozio e gli inutili divertimenti. Mangiava appena quanto era necessario per sostentare la vita, non giaceva in letto più di cinque ore, si poneva allo studio di buon mattino, e durante il giorno non perdeva mai un momento. Ecco, miei cari, il mezzo, con cui ogni giovanetto può sperare di raccogliere frutto ed onore dallo studio.

All’età di vent’anni il Muratori era già riputato fra gli uomini dotti. Per consacrare a Dio l’ingegno che da lui aveva ricevuto abbracciò lo stato ecclesiastico e divenne parroco d’una chiesa di Modena. Ma chiamato dal duca all’uffizio di suo bibliotecario, rinunziò ai doveri di curato, ritenendo solo il titolo di prevosto, e s’immerse negli studi suoi favoriti, senza tuttavia dimenticare i doveri del sacerdote, e senza cessare di coltivarne le virtù.

Interrogato dalla sua condizione, non arrossiva di professarsi figliuolo di un povero uomo. Imbattutosi in una povera donna cieca, che, impedita dall’abbondante neve caduta, non trovava la via per tornare a casa e forte piangeva, il Muratori la copre col suo mantello, le si fa guida e la rimette nel suo casolare. Due soldati venuti fra di loro a baruffa già stavano per ferirsi, quando s’intromette il dotto uomo e li separa. Un parrocchiano, ammonito più volte affinché cessasse da un grave scandalo, se l’ebbe a male, ed avendo appostato il buon prevosto in un viottolo, dove soleva passare, lo assalì; ma egli colla fuga scampò ricoverandosi in una casa. Tosto se ne sparse la notizia per la città, e si desiderava di conoscere e di punire l’aggressore; ma il Muratori, invece di denunziarlo alla giustizia, lo chiamò a sé, e, coll’autorità d’un sacerdote e di un cristiano che sa perdonare, gli mostrò l’enormità del misfatto che commettere voleva contro chi paternamente lo aveva ammonito della sua mala condotta; lo esortò a vivere da buon cristiano, e lo accomiatò dopo averlo cordialmente abbracciato (*) [(*) Vedi Giannetto, vol IV (a).].

Le opere da lui pubblicate ascendono al numero di 64 volumi in foglio; talchè appena pare possibile che un uomo abbia materialmente potuto scrivere tante pagine. Esse versano specialmente sulla storia d’Italia, della quale primieramente raccolse e pubblicò i documenti, poi gli Annali, ossia la storia sui documenti compilata. Trattò eziandio in parecchi libri argomenti di religione e di pietà, giacché non mai si dimenticò d’essere uomo di chiesa.

Verso il fine di sua vita, sapendo che alcuni tacciavano di eresia alcune sue proposizioni, egli con sommessione filiale si rivolse al sommo Pontefice Benedetto XIV, rimettendosi a lui come supremo giudice. Quel grande Pontefice lo tranquillò con una lettera per lui onorevolissima.

Morì in Modena compianto da tutti in età d’anni 77 nell’anno 1750

Devo qui notarvi che in questo periodo di tempo la Corsica si ribellò più volte contro la repubblica di Genova, la quale, non potendo più soggiogare la ribellione, si trovò costretta a cedere l’isola ai Francesi, i quali ne sono tuttora i padroni.

XXVI.
Metastasio e Parini (148).

In questo medesimo secolo vissero due altri celebri personaggi, che io stimo bene di farvi conoscere perché udirete sovente a parlar di loro e spesso avrete occasione di ammirarne gli scritti e le virtù; sono essi Metastasio e Parini.

Pietro Bonaventura Trapassi, che da lui voltato in lingua greca suona Metastasio, fu uno dei più illustri poeti di questo secolo. Egli era figliuolo di un povero mercante di Roma, il quale per mancanza di mezzi non poteva mandare a scuola il figliuoletto; ma un certo avvocato di nome Gravina, udendolo un giorno recitare alcune rime all’improvviso, lo prese con sé e lo ammaestrò nelle lettere greche, latine e italiane. Per consiglio del suo maestro e benefattore in età di quattordici anni compose una tragedia intitolata Giustino, che cominciò a far palese il grande ingegno del giovinetto. In età di vent’anni il suo maestro morendo il lasciò padrone di ragguardevoli sostanze. Sparsasi la fama dei suoi drammi, la Corte di Vienna il chiamò. Colà gli fu assegnato un vistoso stipendio col titolo di Poeta cesareo, che è quanto dire poeta dell’imperatore.

Metastasio compose una moltitudine di poesie importanti, mostrandosi in ogni occasione generoso e disinteressato. Una certa Bulgarini, di lui insigne benefattrice, morendo avevagli lasciato per testamento trentamila scudi, cui egli rinunziò, volendo, fossero trasmessi ad un altro, il quale giudicava legittimo erede. Onorato dall’imperatrice d’Austria Maria Teresa, dai grandi e dagli eruditi, visse fino ad una tarda vecchiaia, e morì alla corte di Vienna nel 1782 compianto da tutti.

Egli sarebbe degno dell’universale riverenza pel suo ingegno e pel virtuoso operare, di cui diede esempi nella lunga sua vita, se le sue opere destinate al teatro non fossero sparse di tratti pericolosi ed immorali. Egli stesso in età alquanto avanzata conobbe il male che avrebbero fatto i suoi scritti; ne era dolentissimo, e diceva che desiderava di poter cancellare col proprio sangue molti concetti sparsi nei suoi libri. Tuttavia il pentimento dimostrato, le opere sacre da lui scritte ce lo fanno giudicare degno della ricompensa che Dio concede a quelli che fuggono il vizio e praticano la virtù.

In punto di morte, nell’atto che gli era amministrato il Viatico, pieno di viva fede, espresse gli affetti del cuore coi seguenti versi, che furono gli ultimi di sua vita:

Eterno Genitore,

lo t’offro il proprio figlio,

Che di suo amore in pegno,

Ristretto in picciol segno,

Si vuole a me donar.

A lui rivolgi il ciglio,

Mira chi t’offro, e poi

Niega, o Signor, se puoi,

Niega di perdonar.
I drammi e le canzoni di Metastasio sono certamente degni di grande fama; ma io vi prego a contentarvi di leggere le sole opere sacre, che formano un volume a parte, guardandovi in generale dalle altre come da un veleno, che può produrre le più tristi conseguenze sui vostri costumi (*).
[(*) Il P. I. Gobio nella Biblioteca della Gioventù Italiana, che stampasi all’Oratorio di S. Francesco di Sales in Torino, scelse, oltre ai sacri, quei pochi altri drammi che si possono leggere senza pericolo, e li offri agli studiosi in un volumetto che è il XIV della raccolta (a)]
Spero tuttavia di farvi cosa grata recandovene alcuni brani scevri di pericolo, che possono servirvi di piacevole e amena lettura. Volendo egli dire che Iddio è in ogni luogo, si esprime così:
Dovunque il guardo io giro,

Immenso Dio, ti vedo;

Nell’opre tue t’ammiro,

Ti riconosco in me.

La terra, il mar, le sfere

Parlan del tuo potere:

Tu sei per tutto, e noi

Tutti viviamo in te.


In altro luogo raccomanda il santo timor di Dio dicendo:
Nel cammin di nostra vita

Senza i rai del ciel cortese

Si smarrisce ogni alma ardita,

Trema il cor, vacilla il piè.

A compir le belle imprese

L’arte giova, il senno ha parte;

Ma vaneggia il senno e l’arte

Quando amico il Ciel non è.


Finalmente raccomanda ai giovinetti di non prendere in mala parte le correzioni e gli avvisi dei genitori e dei maestri con queste parole:
Alme incaute, che torbide ancora

Non provaste le umane vicende,

Ben lo veggo, vi spiace, v’offende

Il consiglio d’un labbro fede!.

Confondete coll’utile il danno,

Chi vi regge credete tiranno,

Chi vi giova chiamate crudel.
Queste ed altre canzoncine morali del Metastasio vorrei che fossero cantate dai giovinetti e dai garzoni di bottega in luogo di certe canzonacce, che stanno male nella bocca di giovani bene educati, e specialmente di giovani cristiani.

Ancora un uomo celebre voglio farvi conoscere fra i molti che illustrarono questo secolo, ed è Giuseppe Parini.

Egli era nato l’anno 1729 in Bosisio, villaggio di Lombardia. Suo padre era un povero artigiano. Accertatosi del grande ingegno del figliuolo e della costante di lui diligenza nello studio, non potendo altrimenti far le spese di scuola, vendette i suoi poderi e si recò a Milano. Colà i genitori di Giuseppe, consumata ogni cosa, si trovarono in breve ridotti a gravi strettezze. Il giovanetto, che molto li amava, si diede a copiare carte di avvocati e di notai, portando a suo padre i guadagni che ne ricavava. Dopo la morte del padre, avvenne un giorno che non aveva più danaro sufficiente da vivere per sé e per sua madre. Allora egli diede quanto aveva alla buona genitrice riducendo se medesimo a mancar di pane. Ma a forza di attendere allo studio divenne un eccellente poeta, e il governo di Milano lo nominò pubblico professore.

Il Parini era mal disposto della persona, cioè gobbo e storpio. Un giorno l’imperatore Leopoldo I, che prima era stato granduca della Toscana, e che era succeduto a Giuseppe II suo fratello, vide quest’uomo venerando che camminava strascinandosi per istrada, e dimandò chi fosse. Quando seppe chi era ordinò gli fosse dato uno stipendio maggiore e la carica di prefetto degli studi Affinché potesse avere una carrozza a sua disposizione.

Il Parini si occupava anche di quelle cose che giudicava tornare vantaggiose ai suoi cittadini; ed occupò lodevolmente molti pubblici impieghi. Nel 1798, quando il generale Bonaparte, di cui presto avrò a parlarvi, entrava vincitore in Milano, il Parini fu eletto fra i membri del municipio a presentarsi a quel capitano; e colla sua fermezza e colla sua prudenza riuscì a risparmiare alla città molte sciagure. Aggravato da molti incomodi, cessò di far parte del municipio; ma quando uscì di carica portò al suo parroco tutto lo stipendio ottenuto dall’impiego Affinché lo desse ai poveri.

Trattava molto volentieri coi dotti ed amava particolarmente trattenersi coi fanciulli ingegnosi, i quali animava con parole caldissime allo studio ed alla virtù, assicurandoli che seguendo i suoi consigli avrebbero acquistato ricchezze ed onori. Raccomandava spesso ai suoi allievi di rispettare la vecchiaia. Malvagio è l’uomo, soleva dire, che schernisce i vecchi e gl’infelici. Una volta era adirato con un giovinetto, perché aveva commesso grave mancanza; ma avendolo poco stante incontrato nell’atto che sosteneva un vecchio e gridava contro di alcuni mascalzoni, da cui era stato urtato, Parini ammirando sì bella azione, si unisce con lui a gridare a quei discoli; dimentica la mancanza del giovine ed amorevolmente lo abbraccia esclamando: Un momento fa io ti credeva perverso; ora che sono testimonio della tua pietà pei vecchi, ti giudico capace di molta virtù.

Egli aveva un carattere molto collerico, ma sapeva frenarsi, e non portò mai odio ad alcuno; anzi fu visto dare limosine agli stessi suoi nemici. Morì in Milano in età di settant’anni nel 1799, quando appunto si agitavano strepitosi avvenimenti in Italia.


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