S giovanni bosco


Buonarroti, Raffaele, ed altri uomini celebri del Pontificato di Leone X. - Morte di questo pontefice



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Buonarroti, Raffaele, ed altri uomini celebri del Pontificato di Leone X. - Morte di questo pontefice (l29).

(Dall’anno 1513 all’anno 1521).
Quando Buonarroti ebbe compiuto le pitture del palazzo Vaticano, rivolse ogni sua cura alla rinomata fabbrica della basilica Vaticana. Costantino imperatore fino dall’anno 324 aveva innalzata una chiesa in onore del Principe degli apostoli. Questa minacciando rovina, il Papa Nicolò V verso la metà del decimoquinto secolo la demolì, e prese ad edificarne una nuova. Morto lui, Giulio II al principio del secolo decimosesto, come vi accennai, concepì l’idea di un vasto disegno, e ne affidò la cura a Bramante. Progredirono i lavori sotto il pontificato di Leone X; ma sotto Paolo III il Buonarroti cambiò in gran parte il disegno, e concepì solo la vasta e ardimentosa idea d’innalzarvi l’immensa ed alta cupola di S. Pietro, che ora forma l’ammirazione universale. La basilica Vaticana, appunto perché è il tempio più vasto per le sue gigantesche proporzioni, il più ricco di marmi, di dipinti, di statue, di monumenti, e d’ogni maniera di ornati, richiese meglio di due secoli per essere condotta a fine. Esercitò lo zelo di parecchi Pontefici, ed ebbe molti architetti, fra cui primeggiano Bramante e Buonarroti, e più pittori e scultori, sicché essa può meritamente chiamarsi il primo tempio della cristianità.

Sebbene il Buonarroti godesse di tutta la fiducia del Pontefice, non mancarono maligni ed invidiosi, che si adoperassero per iscreditare lui ed i suoi lavori. Dicevano che i più belli lavori di Michelangelo erano di gran lunga inferiori alle statue spezzate e monche, le quali si andavano scoprendo fra le rovine dell’antica Roma. Ma egli seppe usare una curiosa astuzia per confondere i suoi detrattori.

Fece una statua di bel lavoro, e come l’ebbe terminata, le ruppe un braccio e l’andò a nascondere segretamente in quei luoghi medesimi dove si scavavano le rovine per rinvenire qualche antica rarità. Poco tempo dopo si dissotterrò quella statua. Tutti si raccolsero in folla intorno alla medesima, dicendo che avevano trovato una meraviglia sepolta in quel sito da parecchi secoli.

I nemici di Michelangelo, recatisi anch’essi a vederla, andavano spacciando che lo scultore fiorentino non aveva un solo lavoro, il quale avesse alcun pregio dell’arte antica. Allora il Buonarroti palesò l’astuzia che aveva usata. Voi, disse ai detrattori, voi siete altrettanti gelosi e bugiardi: la statua, che tanto ammirate, è l’ultima delle mie opere; io stesso la nascosi in questo luogo, e Affinché nessuno dubiti di ciò che io dico, ecco qui il braccio, che spezzai io medesimo per confondere la vostra malignità.

Immaginatevi di quale vergogna siano stati coperti gl’invidiosi del grande artista! Da quell’ora nessuno più osò disprezzare in pubblico le opere di un uomo, che eglino stessi avevano riputato superiore a tutta l’antichità.

Pervenuto all’età di novant’anni, sentendosi avvicinare la morte, Michelangelo fece testamento con queste poche parole: Raccomando l’anima mia al Signore, lascio il corpo alla terra e la roba ai parenti più prossimi.

Fra gli uomini celebri, di cui Leone X si compiaceva, si deve ancora annoverare Raffaele Sanzio, nativo di Urbino, città non molto distante da Roma. Ancora in giovanile età si era acquistato nome tra i migliori artisti, e perciò fu invitato dal Papa ad ornare con pitture e stucchi le logge che attorniano un cortile del palazzo Vaticano, detto cortile di S. Damaso. Raffaele disegnò sopra cartoni quei cento e più quadri di soggetti sacri: poi egli stesso coll’aiuto dei suoi più periti scolari li eseguì a fresco su quelle pareti, che sono oggidì visitate con ammirazione. Fra i quadri poi da lui dipinti l’ultimo ed il più pregiato fu la Trasfigurazione di Gesù Cristo sul monte Tabor. Questo quadro, riputato come il primo del mondo, era stato dai Francesi nel 1797 trasportato insieme con molti altri capolavori in Francia; ma dopo il 1814 fu restituito a Roma.

Il gran Raffaele era giunto all’età migliore della vita umana, quando cadde in una grave malattia che presto fece temere di lui. Senza affannarsi egli domandò di ricevere i soccorsi della religione; fece testamento, ordinò che colle sue facoltà fosse ristorato un tabernacolo di Santa Maria Rotonda, ivi fosse eretto un altare nuovo con una statua alla Beata Vergine, dichiarando che desiderava essere sepolto in quella chiesa. Morì il venerdì santo nel 1520, il dì stesso in cui era nato, nella florida età d’anni trentasette.

Il Papa, che spesso andava a visitarlo durante la malattia, ordinò che vicino al letto, sul quale fu adagiato dopo morte, venisse posto il magnifico quadro della Trasfigurazione, rappresentante G. C. che s’innalza al Cielo entro un mare di luce. Tutti quelli che accorrevano per vedere l’ultima volta il maraviglioso Raffaele, quando erano nella sala funebre, sentivansi scoppiare il cuore, scorgendo morto l’artefice di un’opera immortale, siccome appunto era quell’incomparabile dipinto.

Altro celebre e classico artista fu Tiziano Vecelli, nato in Pieve del Cadorino nel 14-77. Tra i molti suoi accreditati lavori è rinomatissimo il ritratto dell’imperatore Carlo V, che lo fece divenire il pittore del re. Ebbe grandi onori dai Papi e dalla corte di Spagna. Ricco di gloria e di danaro, andò a fissar dimora a Venezia, dove visse principescamente promovendo le belle arti col denaro e coll’ingegno. In questa città moriva centenario nel 1576.

Né questi furono i soli uomini che resero celebre il pontificato di Leone. Si segnalarono due begl’ingegni, uno di nome Sadoleto, l’altro Bembo, ambedue insigniti della dignità cardinalizia. Essi furono il sostegno ed i restauratori della letteratura italiana nel secolo decimo sesto; insieme con questi vissero Tommaso Gaetano e Lorenzo Campeggi, personaggi veramente illustri nella scienza delle cose ecclesiastiche. Il gran favore che Leone prestava a tutti gli artisti, e le sollecitudini con cui promoveva ogni genere di scienze e di arti, fecero sì, che quel periodo memorabile di tempo fosse appunto chiamato il secolo di Leone X, o del risorgimento delle arti, perché di fatto giunsero in quel tempo alla loro perfezione in Italia, e cominciarono a spandersi negli altri paesi d’Europa.

Leone X in mezzo alle consolazioni che provava per la gloria d’Italia, ebbe molto a soffrire per l’eresia di Martino Lutero. Era questi un frate il quale uscì dalla religione per secondare i suoi vizi. Vestitosi da secolare, si ribellò alla Chiesa Cattolica. Il Papa si adoperò per farlo rientrare in se stesso; ma egli, seguito da alquanti libertini, e sostenuto da alcuni sovrani, ai quali permetteva di farsi una religione come più loro gradiva, divenne ostinato, e fu causa che molti si separassero dalla Chiesa Cattolica, unica vera Chiesa di Gesù Cristo.

Così ebbe origine quella eresia, che si suole nominare protestantesimo, perché quelli che la professavano protestarono di non sottomettersi all’editto di un imperatore di nome Carlo V, di cui avrò presto a parlarvi; anzi in una città della Germania, detta Smalkalde, col pretesto di religione fecero una lega, e cagionarono molte turbolenze e guerre sanguinosissime. Questa eresia fu anche detta Riforma, perché i suoi seguaci pretesero di riformare la Chiesa Cattolica.

Lutero credendosi divenuto un gran dottore, volle disputare con alcuni ecclesiastici: ma rimasto confuso, né volendosi assoggettare al loro parere, si appellò ai vescovi, di poi al Papa, ma da tutti vennero condannati i suoi errori. Egli volle appellarsi ad un concilio generale. Fu convocato questo concilio (anno 1545) nella città di Trento nel Tirolo, onde fu detto Concilio Tridentino. In esso furono condannate le dottrine dell’eresiarca, senza che per altro egli si ritrattasse.

Leone X morì nel 1521: il Senato ed il popolo Romano, gratissimi pei benefizi ricevuti da lui gl’innalzarono una statua in Campidoglio, ed un’altra nel tempio detto della Minerva. I coltivatori degli studi e delle arti, i suoi sudditi e tutti i buoni piansero la sua morte, e avevano ragione di sentirne amaro dolore, perché nessun principe aveva più di lui onorato le belle arti (*).

(*) Vedi PARRAVICINI, vol. IV (a).




VIII.
Battaglia di Pavia (130)

(Dall’anno 1515 all’anno 1525).


Mentre le arti e le scienze facevano in Italia maravigliosi progressi, molte sciagure si apparecchiavano dagli stranieri, che a guisa di torrente dovevano versarsi sopra questi nostri paesi.

Alla morte dell’imperatore di Germania Massimiliano I, la Dieta di Francoforte, vale a dire i principali signori della Germania si adunarono in quella città per eleggere un novello monarca (1519).

La scelta cadde sopra un re, già possessore del regno di Spagna, di Napoli, di Sicilia, dei Paesi Bassi e di tutta l’America allora conosciuta.

Questi, ricevuta la corona imperiale, prese il nome di Carlo V, perché egli era infatti da Carlomagno in poi il quinto principe di questo nome, che fosse stato imperatore. In simile guisa Carlo V aggiunse ai suoi regni tutta la Germania.

Carlo V aveva già introdotto molti cambiamenti nel governo della Spagna. Fra le altre cose egli seppe colla sua prudenza rendersi assoluta l’autorità regia, mentre prima questo paese era governato quasi a guisa di repubblica. Ciò ottenne specialmente con assoggettare ai suoi voleri un’assemblea, detta le Cortes, che è una specie di parlamento analogo alla nostra Camera dei deputati. Mercé il senno di questo monarca le armi Spagnuole salirono ad alta fama: e si resero terribili a tutta l’Europa, come fra poco vedrete.

Ora convien che sappiate come Carlo V aveva un rivale nel re di Francia Francesco I, il quale ambiva la corona imperiale al pari di lui. Questo re era molto amante delle grandi imprese, ed aveva già sostenuto molte guerre, in cui si resero celebri parecchi capitani. Sotto il suo regno la Francia cominciò a prender gusto per le arti e per le scienze: il che si deve specialmente attribuire all’aver Francesco invitato e dato onorevole asilo a molti dotti di Grecia, e specialmente d’Italia. Ma fu anche sotto il suo governo che cominciarono a disseminarsi negli Stati le dottrine di Calvino, il che fu origine di grandi sventure per la Francia.

Quando adunque Francesco ricevette la notizia che Carlo V era stato a lui preferito, ne provò tale dispiacere, che risolse di muovergli guerra. Terribili apparati si fecero da ambe le parti, e l’Italia fu il teatro di quelle sanguinose rivalità. Il primo scontro dei Francesi cogl’Imperiali (con tal nome si chiamavano i soldati dell’imperatore) fu presso ad un castello o borgo, detto la Bicocca, luogo vicino a Novara e fatalmente celebre per la battaglia combattuta dai Piemontesi in questi ultimi tempi contro gli Austriaci.

Colà si appiccò una zuffa, in cui i Francesi, sopraffatti dal numero, vennero sconfitti e costretti ad abbandonare l’Italia. Dopo questo avvenimento Carlo V donò il ducato di Milano a Francesco Sforza, fratello di quell’indolente Massimiliano, alcuni anni prima caduto prigioniero in mano ai Francesi, i quali sel condussero in Francia, e lo lasciarono vivere come semplice privato.

Codeste furono le prime prove di guerra tra Carlo V e Francesco I. Questi due principi non si erano ancora trovati personalmente in battaglia l’uno contro l’altro, allora che il re di Francia, sdegnato dei disastri della Bicocca, risolvette di condursi egli stesso con numerosissimo esercito in Lombardia per iscacciare gl’imperiali dal ducato di Milano. Il monarca Francese alla testa dei suoi più prodi e più insigni capitani era già pervenuto al passaggio delle Alpi, quando scoprì che il duca di Borbone, di nome Carlo, suo strettissimo parente, avevagli tramata una congiura: egli era Contestabile del regno, vale a dire generale in capo di tutti gli eserciti Francesi. Francesco, ossia che non credesse alla verità del racconto, ossia non facesse gran caso del tradimento di quel generale, fatto sta, che continuò il suo cammino.

Il duca di Borbone, il quale per non seguire il re erasi finto ammalato, si levò, e tosto per vie segrete giunse ad unirsi all’esercito Imperiale. Pochi giorni dopo la fuga del Borbone, Francesco I giunse nel Milanese, dove trovò il suo esercito raccolto, pronto alla battaglia, sotto gli ordini del generale francese Bonnivetti.

Il re avendo saputo che in Pavia contenevasi grande quantità d’armi e di provvigioni depositate dai nemici, risolvette d’impadronirsene, ed andò ad assediare quella città con tutta la sua soldatesca. Ma siccome Pavia era valorosamente difesa da’ suoi cittadini, così l’esercito imperiale condotto da un generale di nome Lanoia e dal traditore Borbone, ebbe tempo di giungere in suo soccorso. La battaglia fu appiccata sotto le mura di Pavia. Prodezze di valore, grandi stragi furono da ambe le parti; ma in fine la vittoria si dichiarò per gli Spagnuoli. Francesco I, al vedersi morire attorno i più prodi capitani, si gitta in mezzo ai nemici, e combatte con intrepidezza, risoluto di lasciare la vita sul campo di battaglia, e combatte sino a tanto che cade nelle mani del nemico. È cosa difficilissima il descrivere quale sia stata la costernazione della Francia quando fu recato l’annunzio della disfatta dell’esercito e della prigionia del medesimo re.

Quel monarca dovette rimanere più di un anno prigione in Ispagna, e poté soltanto ottenere la libertà a condizione che cedesse il regno di Borgogna a Carlo V, e gli desse dodici ostaggi, vale a dire dodici dei principali signori di Francia, i quali servissero di pegno del mantenimento della promessa. Fu dopo questa battaglia che Francesco scrisse a sua madre Luigia di Savoia, cui fra le altre cose diceva: Signora, tutto è perduto, meno l’onore e la vita, che è sana (anno 1525).

Se il re Francesco I non fosse stato guidato dall’ambizione, e non fosse uscito del suo regno, non avrebbe certamente dovuto incontrare una pena sì dura e per un re così umiliante.

Nelle guerre testè accennate si rese celebre Giovanni de’ Medici, soprannominato dalle Bande Nere. Questo terribile condottiero aveva formato una banda assai rinomata di soli Italiani, e fu l’ultima di cui si abbia memoria. Era molto affezionato a Leone X e gli prestò i suoi servigi finché visse. Alla morte di questo Pontefice fece portare bruno a tutti i suoi soldati, per cui gli venne il nome di Giovanni dalle Bande Nere. Poscia combatté ora a favore dei Franchi, ora per la lega Lombarda. Nelle battaglie non vedeva alcun pericolo, e a’ suoi non mai diceva: andate avanti; ma venitemi dietro. Lo credereste? o miei cari, che malgrado tanto valore, Giovanni aveva paura del Folletto a segno, che non mai avrebbe osato dormire solo in una camera? L’anno 1526, mentre combatteva contro i Tedeschi, un pezzo d’artiglieria gli fracassò una gamba, per cui poco appresso moriva in età di soli ventott’anni. Si nota di questo capitano, che era modesto nel vestire, parco nel mangiare, tremendo in battaglia, affabilissimo in trattenimenti domestici.



IX.
Saccheggio di Roma. - Assedio di Nizza (131).

(Dall’anno 1524 all’anno 1527).

Le battaglie della Bicocca e di Pavia avrebbero certamente dovuto umiliare il re di Francia ed i Francesi; tuttavia appena Francesco I ebbe ricuperata la libertà si riaccese più che mai il desiderio della vendetta; quindi nuove guerre insorsero nella Germania e nell’Italia. Gl’Italiani formarono una nuova lega per opporsi agl’imperiali e liberarsi dal loro giogo. Fino allora Carlo V aveva rispettata la religione; ma il Papa, che chiamavasi Clemente VII, avendo rifiutato di concedere cose che egli riputava contro coscienza, Carlo ne fu sdegnato; e per fame vendetta ordinò al Contestabile di Borbone, il quale comandava gli eserciti spagnuoli in Lombardia, di marciare contro Roma, impadronirsi della città e della persona del Pontefice. Questi obbedì prontamente a quell’ordine severo; imperocchè colui che aveva tradito il suo re, era certo capace di tradire la propria religione, e dare al mondo lo spettacolo di un principe cristiano, che minaccia il successore di S. Pietro.

Ora convien che io vi dica come l’esercito spagnuolo era divenuto a guisa di quegli avventurieri, i quali, posti in ozio, si dànno in preda a mille disordini, e disonorando la nobile professione delle armi fanno dell’uomo di guerra un vero masnadiere. Il duca di Borbone con una turba di soldati mercenari, tra’ quali tredicimila Tedeschi luterani, le cui brame nulla poteva saziare, si volse alla volta di Roma. Dappertutto segnava il suo passaggio con guasti e rapine; niente era sacro per quei ribaldi. Le città, i villaggi e le più povere capanne venivano saccheggiate, e gl’infelici abitanti ne erano infamemente trucidati.

A costoro si oppose arditamente Giovanni dalle Bande Nere riportando sopra di loro molti vantaggi, ma in una furiosa mischia egli fu colpito in una coscia, e, come si disse, morì di quella ferita.

Quella marmaglia, liberatasi da Giovanni de’ Medici, senza contrasto proseguendo il viaggio in breve giunse negli Stati Pontifici. Il Papa fu colto all’improvviso, perciocché non s’immaginava che un principe cristiano volesse voltare le armi contro al Capo della propria religione; ma ne rimase tristamente disingannato, allora che vide le soldatesche spagnuole alle porte di Roma. Quel giorno il Contestabile, per essere meglio veduto dalle sue genti, si era messo indosso un’armatura bianca, e non cessava di eccitare i soldati a combattere, promettendo loro il saccheggio di quella grande capitale.

In quel momento, miei cari, nacque in Roma un tale scompiglio, che non si può descrivere. Il Sommo Pontefice chiese danaro ai più ricchi cittadini per fare i necessari preparativi e resistere almeno al primo furore delle masnade forestiere; ma quasi tutti, non so se stolti o perfidi, ricusarono qualsiasi soccorso alla salvezza della patria, mentre per essa ognuno è in dovere di dare l’ultimo quattrino ed anche la vita. Non pertanto il Papa aveva ordinato di chiudere le porte e preparare le maggiori difese. Gl’imperiali non potendo entrare liberamente in città, come desideravano, assalgono i bastioni, ma vengono dal valore dei Romani ributtati nelle fosse. Ciò veduto, il Contestabile piglia una scala, l’appoggia alle mura e animosamente vi sale, ma colpito da uno sparo di moschetto, cade al suolo e muore, pagando il fio di aver tradito il suo re e la sua religione.

Questo fatto irrita per modo i nemici, che si slanciano da tutte parti, e dopo di avere superata l’ostinatissima resistenza degli assediati, riescono a sorpassare le fortificazioni, calano nelle vie, occupano la città, e si dànno a saccheggiarla.

È impossibile descrivere la crudele rapacità dei soldati, le morti e gli orrori di quella fatale giornata. Per tre mesi la misera Roma è data in preda alla rabbia della sfrenata soldatesca. né case, né chiese sono rispettate da quei forsennati, che non hanno né patria né religione. Il Pontefice dopo di essersi rifugiato in Castel Sant’Angelo, cade nelle loro mani, e viene esposto ad ogni sorta di oltraggi.

Lo stesso Carlo, che allora era nella Spagna, quando fu informato della infamia di cui macchiavansi le sue bandiere, non poté non arrossire degli enormi delitti commessi in suo nome. Pigliando abiti da lutto e fingendosi profondamente addolorato pei mali che il Papa aveva sofferto, si condusse in persona a Roma. Ostentando di essere inconsolabile, si presentò al Papa, gli rese la libertà, e lo supplicò di perdonargli le offese, dando tosto opera di riparare ai suoi torti.

Il Pontefice, credendolo realmente pentito, dimenticò tutto il male, di cui egli era autore, e, ingannato dalle sue promesse, lo accolse nuovamente in grembo della Chiesa. Ma l’astuto Carlo si trovava nella necessità di conciliarsi col Papa per le molte discordie che si andavano suscitando in varie parti del suo regno; né passò molto tempo che volle di nuovo mischiarsi in cose di religione, dando così gravi disgusti al Romano Pontefice. Intanto gli anni di Carlo si avanzavano, ed egli si accorse che le grandezze ed il vastissimo suo impero non potevano acquietare i rimorsi che gli cagionavano i passati trascorsi. Per la qual cosa prese una determinazione senza esempio nella storia degli imperatori.

Egli convocò a Bruxelles i più grandi signori de’ vari suoi regni, e annunziò loro pubblicamente che, stanco dalle cure del mondo, aveva risoluto di andar a cercare in un monastero il riposo che non poteva sperare sul trono. Raccomandò a’ suoi ufficiali di ubbidire fedelmente a suo figliuolo Filippo II, come avevano sempre ubbidito a lui stesso. Ciò detto, discese dal trono e si avviò ad un convento di Agostiniani, situato in una provincia di Spagna appellata Estremadura. Giunto in quel monastero, que’ monaci l’accolsero col massimo rispetto, sorpresi al vedere un re, che da più di cinquant’anni aveva governato tanti milioni d’uomini, preferire la loro povera cella allo splendore di tante corone. «Io vengo qui, loro diceva, povero e nudo come nel giorno della mia nascita; e tra voi, fratelli miei, spero di trovare la pace, che cercai invano sul trono». Egli passava colà il tempo negli esercizi e in opere di rigida penitenza.

Un piacere per quel monarca, che non poteva rimanere in ozio neppure un momento, era di raccogliere nella stanza grande quantità di orologi, che allora appunto s’incominciavano a fabbricare in vari paesi dell’Europa, e di esaminare se il movimento di essi fosse in tutto perfettamente uguale. Quando poi si avvedeva che differivano alquanto l’uno dall’altro nel segnare le ore, esclamava: Devo ora maravigliarmi se non mai potei accordare tra loro gli uomini, mentre neppure posso regolare nel modo medesimo questi orologi, i quali non sono altro che macchine?

Carlo V, dopo di avere passati alcuni anni di vita penitente, morì in quel medesimo monastero ed ivi stesso fu sepolto.

Durante la lunga lotta tra Carlo V e Francesco I, il Piemonte ebbe molto a soffrire. Nel principio di questa guerra il nostro paese era governato dal duca Filiberto II, che seppe mantenere la pace ne’ suoi. Ma essendo egli morto nella florida età di soli ventiquattro anni, gli succedette Carlo IlI, principe sventurato che ebbe il dolore di vedersi rapire dalla Francia tutti i suoi dominii, ad eccezione di Vercelli e Nizza Marittima. In tali strettezze ritirossi in quest’ultima città, la quale in difesa del suo sovrano con mirabile valore sostenne il lungo assedio dei nemici. Ivi avvennero fatti degni di essere registrati accanto a quelli degli antichi Romani. Le donne stesse gareggiavano cogli uomini in prodezza. In un assalto dato dai Turchi, che si erano collegati coi Francesi, Caterina Segurana combattendo sulla breccia prostese morto un alfiere dei nemici, il quale già era riuscito a piantare la sua bandiera sulle mura; e colla voce e coll’esempio incoraggiò gli altri per modo, che ributtarono gli assalitori, facendone grande strage.

Carlo III dopo di aver veduto morire otto suoi figliuoli e l’amatissima consorte, oppresso dagli affanni, cessava anch’egli di vivere nella città di Vercelli, dopo 49 anni di regno, nel 1553.



X.
Andrea Doria e la congiura dei Fieschi (132).

(Dall’anno 1530 all’anno 1547).


Non avrete certamente dimenticato, miei cari amici, come il conte di Carmagnola aveva acquistata la città di Genova a Filippo Maria Visconti duca di Milano, di cui egli era generale. D’allora in poi per lo spazio di oltre cento anni quella città andò soggetta a varie vicende, ed ebbe molto a soffrire per discordie interne, per guerre sostenute contro agli stranieri e per mutamenti di prìncipi, sotto la cui protezione si metteva; perciocché ora ubbidiva alla Francia, ora ai Tedeschi, ora ai duchi di Milano. Nelle lunghe turbolenze tra l’imperatore Carlo V e Francesco I i Genovesi, nella speranza di avere qualche stabile protezione, si diedero ai Francesi, e affidarono il governo della repubblica ad un abilissimo genovese, di nome Andrea Doria. Questo benemerito cittadino aveva di già affrontato gravi pericoli e sostenute molte guerre pel bene della patria; perciò si meritava più d’ogni altro la carica di doge. Ma egli non volle accettare alcuna dignità; e si contentò di essere detto il primo cittadino, sempre pronto ad ogni cosa che tornasse utile alla patria. Egli in breve poté accorgersi che i Francesi, invece di difendere la repubblica, la opprimevano, riducendola a grave povertà con molte imposte. Pregò pertanto il re, Affinché in premio dei lunghi servizi prestati in guerra, volesse purgare la repubblica da ogni soldato straniero e renderle il suo libero governo.

Francesco rigettò la dimanda: e il Doria voltato bandiera, lasciò i Francesi, e si pose allo stipendio di Carlo V. Il Doria, fatto ammiraglio, ossia generale delle armate navali dell’imperatore, si avvicinò colle sue navi a Genova, e la fece sollevare contro ai Francesi; quindi fu di nuovo proclamata la repubblica. I suoi cittadini, grati al benefizio ricevuto, gli eressero una statua e gli affidarono la cura delle cose pubbliche. Governò saviamente più anni la patria, e nella sua vecchiaia, non potendo più sopportare gravi fatiche, affidò il comando dell’armata ad un suo nipote di nome Giannettino boria, che egli medesimo aveva ammaestrato nella nautica, vale a dire nell’arte di correre i mari, e in tutto ciò che può fare un valente militare. Ciò fatto, il Doria si ritirò in una villa poco distante da Genova.

Ma comunque siano regolate le cose del pubblico, vi hanno sempre degl’invidiosi e de’ malcontenti. Tra quelli che aspiravano al potere fu il conte Fieschi. Per suscitare tumulti egli andava dicendo che i nobili ed i potenti, come i Doria, erano gli oppressori del popolo. A poco a poco, come è solito nelle discordie, le inimicizie crebbero, gli animi s’inviperirono, ed il Fieschi tramò una congiura, con cui intendeva di abbattere il Doria per liberare, egli diceva, la patria dalla oppressione dei Signori.

Tutti quelli che favorivano i Francesi presero parte alla nuova congiura. Fu stabilita la notte del 2 gennaio 1547 per metter in esecuzione quel progetto, che si sperava dovesse rendere il Fieschi padrone della repubblica sotto alla protezione di Francia.

Era eziandio dai ribelli fatta promessa di dare il ducato di Milano a Pier Luigi Farnese, duca di Parma e di Piacenza. Le armi e gli armati erano pronti: un gran numero di congiurati non altro aspettava che il segno per chiamare il popolo alla rivolta, introdurre in Genova milizie forestiere, e trucidare i Doria co’ loro partigiani. Per altro, come suole avvenire in tutte le congiure, un complice non tenne il segreto e la trama si fe’ palese anzi tempo. Appena fu ciò riferito a Giannettino Doria, corse egli tosto in fretta sul posto con quelle poche genti che poté raccogliere; ma per istrada venne assalito dai faziosi e ucciso. Dopo questo primo successo i ribelli poterono facilmente impadronirsi delle navi. Non rimaneva altro a compiere che la morte di Andrea Doria, il quale, ignaro di quanto avveniva, dimorava fuori di Genova senza alcun sospetto.

Da tutte parti i ribelli gridavano: Viva Fieschi e la libertà! Intanto il Fieschi, persuaso dell’esito felice della sua impresa saltava da una barca all’altra per farsi vedere e per inspirare coraggio a tutti, quando, messo un piede in fallo, e caduto nell’acqua, subito profondò nelle onde strascinato dal peso dell’armatura di ferro, di cui era vestito. Prima che fosse pervenuta ai congiurati la notizia della morte del conte Fieschi, per tutta Genova sapevasi già la sorte toccata a Giannettino; sicché Andrea Doria, avvertito solo del primo assalto, stava per ritirarsi co’ suoi pochi aderenti. Ma come fu conosciuta la misera fine del conte Fieschi, i ribelli deposero le armi e si arresero ad Andrea Doria, che loro promise un generoso perdono, sebbene abbia poi fatto vendetta di varii suoi nemici. Andrea Doria morì tredici anni dopo in seno della propria famiglia.

Nel medesimo tempo della congiura de’ Fieschi certo Sampiero, nativo della Corsica, tentò per due volte di sottrarre quest’isola dal dominio dei Genovesi. La guerra durò fino al 1559, quando fu conchiusa una pace generale. Non ostante questa pace, il Sampiero suscitò nuovamente la rivoluzione; ma dopo di aver riportate alcune vittorie, venne egli stesso ucciso a tradimento. L’isola poi si acquetò; e si concedette ampio perdono ai ribelli.


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