S giovanni bosco


XXXVI. Il ritorno di Pio IX



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XXXVI.
Il ritorno di Pio IX (158).

(1850)
Quando giunse a Pio IX la novella che Roma era stata liberata, ne fu commosso fino alle lacrime. «È terminata la guerra, diceva all’ambasciatore francese, non iscorrerà più il sangue. Ah! parlatemi de’ miei figli di Roma e di Francia! Quanto devono aver sofferto! Quanto pregai per loro!». Di poi ascoltava con paterna premura il racconto dei patimenti dell’esercito francese, e le circostanze minute dei suoi lavori molto prolungati per risparmiare alla santa città disastri irreparabili. Pio IX sarebbe immediatamente ritornato a Roma, ma fu giudicata cosa prudente il ritardare, finché le cose fossero alquanto consolidate, ed egli avesse anche avuto tempo di provvedere ai bisogni dello Stato. Finalmente il desiderio di vedere i suoi popoli lo determinò a sormontare tutte le difficoltà e recarsi tra loro sul principio di aprile 1850.

Sparsa la notizia che Pio IX era per far ritorno a Roma, tutte le città de’ suoi stati si preparavano ad una grande festa, moltissimi illustri personaggi da vari paesi della cristianità si recarono in quella santa città, che divenne ingombra di carrozze e di forestieri, tutti là accorsi per assistere e cooperare alla grande solennità. Ciò produsse straordinaria allegria pei Romani, perché così vedevano rifiorire il commercio e popolarsi le loro contrade. Il sommo Pontefice volle passare a Napoli, e di là prese il cammino per Roma. Quel viaggio, miei cari amici, fu quale si conveniva al Capo della cristianità, e si può appellare un vero trionfo. Da ogni parte affollavansi le popolazioni sulla via che doveva percorrere l’augusto Pontefice; uomini e donne, vecchi e fanciulli, da ogni parte venivano colla gioia sul volto e colle benedizioni sulle labbra a contemplare il sembiante di un sovrano, che seco portava la fortuna del mondo. Ovunque si scorgevano archi trionfali, tappeti preziosi, pavimenti coperti di fiori per accogliere degnamente quel sovrano, che rappresenta in terra il re del cielo.

Alla città di Valmontone fu eccitato un entusiasmo indescrivibile. Il popolo ruppe le file dei soldati schierati sulla strada che conduceva alla chiesa il sommo Pontefice; ed allora scagliandosi tutti ai piedi del Papa glieli baciavano spargendovi copiose lacrime di commozione. In ogni luogo uguale trasporto, uguale entusiasmo. Giunto al confine degli Stati Napolitani il re Ferdinando II colla real famiglia e coi grandi del suo regno si prostrarono a terra domandando per l’ultima volta la benedizione al Santo Padre; dopo di che ritornarono a Napoli.

Il Papa continuò il suo viaggio accompagnato da molti insigni personaggi, tra i quali gli ambasciatori delle potenze alleate, le cui armi avevano combattuto e represso i rivoluzionari. Giunto a Terracina, prima città dei suoi Stati, trovò tutte le autorità dei paesi vicini, che eransi colà recate per ossequiarlo. Era somma l’allegrezza degli abitanti; il loro contento sembrava un delirio, tanto era grande il trasporto della loro gioia. Alla sera Terracina offrì uno spettacolo che non ha esempio. S’illuminò il mare per una superficie di tre chilometri mediante innumerevoli bicchierini aggiustati sopra le onde. Pareva che quei milioni di stelle scintillanti sulle onde facessero gara con quelle che brillavano a guisa di diamanti sul campo azzurro del cielo. Le ondulazioni che ad esse imprimeva il moto del mare produceva uno spettacolo singolarissimo. Il dì seguente il Papa continuò il suo cammino verso Roma.

L’entrata di Pio IX nella sua capitale era fissata alle quattro dopo mezzodì del dodici aprile. Pareva che colà si fossero aperte le porte del cielo, tanto grande era il concorso della gente. Tutto era ornato a festa e gli sguardi d’ognuno erano rivolti là donde era aspettato il Santo Padre. Sorge in lontananza un nugolo di polvere: indi a poco giunge galoppando un corriere colla livrea rossa; si ode il primo sparo del cannone; echeggiano da ogni lato le grida: Evviva il Papa! Ad ogni istante si ode una cannonata: ogni campana unisce lo squillo del suo bronzo al concerto delle voci di applauso dell’immensa moltitudine. Pio IX giunge... smonta dalla carrozza, e piangendo per tenerezza tocca col piede la terra della patria, da cui era stato costretto per quasi un anno e mezzo a vivere lontano.

Mi riesce impossibile il descrivervi il concorso di gente, l’intervento di ogni autorità ecclesiastica e civile, le grandi espressioni di affetto e di amore del sovrano verso il suo popolo e del popolo verso il suo sovrano. Centomila persone stanno schierate ove passa il santo Padre, centomila acclamazioni echeggiano per l’aria: il rumore del cannone di Castel sant’Angelo si unisce al suono di tutte le campane; e le bocche di tutti si uniscono ih una sola voce gridando: Evviva il Papa! Evviva la religione! Santissimo Padre, dateci la benedizione. Il santo Padre vie più commosso alza la mano per compartire la benedizione su quel popolo.

Tutti curvano la fronte, piegano le ginocchia dinanzi alla suprema maestà del Vicario di G. C. Finalmente giunto sulla grande piazza del Vaticano, i soldati della Francia, i liberatori di Roma, schierati come in ordine di battaglia, s’inginocchiano e presentano le armi e chiedono al Papa la benedizione. Indi fra i canti d’allegrezza e di ringraziamento egli è accompagnato negli appartamenti apparecchiatigli al Vaticano.

Poche ore dopo Roma apparve un immenso fuoco. I pubblici palazzi, le chiese, le case particolari, tutte le vie e le piazze apparvero talmente illuminate che le fiammelle unendosi insieme formavano un lume solo per tutta la città. Queste generali illuminazioni si ripeterono alla sera di tre giorni consecutivi. Così ebbe luogo una delle scene più grandiose, che offra la storia delle nazioni, uno dei fatti più ragguardevoli che presenterà il secolo decimonono ad ammaestramento della posterità La religione cattolica personificata in Pio IX tornava in Roma, e tornava potente offerendo la misericordia all’ingratitudine, ed il perdono ai pentiti. Finalmente l’opera della ristaurazione compitasi dalle potenze cattoliche rimetteva al suo posto la pietra angolare, il capo della cristianità.

XXXVII.
Assassinio del duca di Parma. - Il cholera-morbus. La crittogama. - Infortuni nella Casa reale di Savoia (159).
Il ritorno di Pio IX a Roma si può dire l’ultimo avvenimento compiuto delle cose d’Italia. I Francesi, gloriosi di aver ricondotto sul suo trono il Capo della cristianità, ritornarono in parte al loro paese, lasciando soltanto una guarnigione in Roma sufficiente per opporsi ai disordini che per avventura i malevoli avessero tentato di suscitare. Gli Austriaci continuarono eziandio a tener l’occhio sopra gli Stati del Papa dalla parte della Lombardia. Così dal ritorno di Pio IX a Roma fino al 1859 non ci fu più alcun fatto politico che abbia dato qualche importanza alle cose d’Italia.

Gli avvenimenti che seguono sono particolari, ma gravi e di tale importanza che stimo bene di esporvene almeno i principali. Comincerò dal raccontarvi l’assassinio del duca di Parma, di nome Ferdinando Carlo III.

La sera del 26 marzo 1854, questo principe dal passeggio ritornava al real palazzo. Giunto ad un angolo della strada, uno sconosciuto di mediocre statura e cappelluto, che stava colà in agguato, l’urtò ed urtandolo gli ficcò un pugnale nel seno, e lasciando il ferro nella ferita si diede alla fuga. Cadde il principe come morto; il suo aiutante lo sollevò e gli estrasse il pugnale dalla ferita, ed in mezzo ad una folla di popolo ivi accorsa fu condotto al palazzo. Il colpo fu giudicato mortale e tra poche ore il principe trovavasi in imminente pericolo della vita. Prima di ogni altro rimedio, richiamando a memoria i principi di buon cristiano, pensò a provvedere alla salvezza dell’anima sua. Chiamò egli stesso di confessarsi e ricevette gli altri sacramenti con grande edificazione dei sudditi. Interrogato se non aveva potuto conoscere l’assassino, rispose: «Quella figura non è parmigiana: sono tre giorni che mi perseguita; lo vidi starmi da fronte, di dietro e da lato: ma io gli perdono di cuore; e qualora egli venisse scoperto non voglio che abbia altro castigo che l’esilio. Sia fatta la volontà di Dio: io ricevo la morte in penitenza dei miei peccati». Udito poscia che non vi era più speranza di vita, convocò intorno al suo letto tutti i signori della corte, co’ servi e loro chiese perdono dei dispiaceri e dello scandalo che aveva loro arrecato. Ai figliuoli poi raccomandò l’obbedienza alla Duchessa loro madre e l’adempimento d’ogni altro loro dovere. Più volte recitò ad alta voce il Pater noster, pronunziando con profondo sentimento quelle parole: perdona a noi i nostri debiti siccome noi li perdoniamo ai nostri debitori. Tenne il crocifisso tra le mani fino allo spirare, e lo baciava spesso con tali segni di cristiana pietà, che tutti gli astanti erano profondamente commossi.

Un principe che muore ferito a tradimento nel fiore della sua giovinezza, e muore perdonando al proprio uccisore, è spettacolo che prova quale forza inspiri al cuore umano la nostra santa religione nelle più difficili circostanze della vita.

Egli spirò ventitre ore dopo l’assassinio, in età d’anni trentuno, lasciando erede il suo primogenito di sei anni sotto la reggenza della duchessa sua moglie.

Alcuni mesi dopo la morte del duca di Parma si fece sentire un’altra calamità, che afflisse quasi tutta l’Italia; e questa fu l’invasione del morbo asiatico, comunemente detto cholera­morbus. Forse avrete veduto voi medesimi od avrete udito a parlare del modo spaventevole con cui assaliva i miseri mortali.

Questo malore manifestavasi per via di vomiti e dissenteria, che producevano granchi e freddo a tutte le estremità del corpo, e una spasimante oppressione di stomaco. Molti paesi d’Italia furono desolati dal fatale morbo. Più di trecento mila individui ne rimasero vittima infelice. La sola Messina, città della Sicilia, in pochi giorni fu privata di ben oltre quindicimila abitanti; il qual numero è assai grande, avuto riguardo alla poco numerosa popolazione, che non eccede i venticinque mila. Dopo Messina credo che il Genovesato sia il paese il quale abbia più di ogni altro sofferto la violenza del colèra.

L’anno mille ottocento cinquantacinque ricomparve lo stesso malore; ma in generale non colla medesima intensità. Nondimeno nelle città di Sassari e di Cagliari fu terribile assai. Reca spavento il solo riferire il numero dei morti. Fu un momento, in cui non si trovavano più né sacerdoti per l’assistenza spirituale, né medici o farmacisti pel bisogno temporale, essendo in gran parte anch’essi colpiti dalla terribile malattia, oppure insufficienti per lo straordinario numero degli infelici che dimandavano aiuto. Quelli che furono testimoni del doloroso spettacolo dicono che in certi isolati si contavano fino a sette o ad otto famiglie l’una all’altra vicine, tutte colpite dal male, di cui neppure un individuo rimaneva in vita. Grazie alla divina Provvidenza la crudezza del morbo fu breve, e dopo un mese di violenza cessò quasi interamente.

Fu osservato dai periti dell’arte, che coloro i quali tenevano vita sregolata, erano i primi ad essere colpiti dal male; onde per primo rimedio si raccomandava la sobrietà nel mangiare e nel bere, somma nèttezza della persona, dei luoghi di dimora e di riposo. Fu eziandio notato che la tranquillità di spirito era mezzo efficace per tenerlo lontano ed anche per diminuirne la veemenza in quelli che ne fossero già infetti. Quindi i medici più dotti consigliavano di tenere una vita costumata e temperante, purificando la coscienza coi conforti della religione, per acquetare i rimorsi che provano quelli che sono aggravati dalla colpa.

Altro flagello fu quella crittogama, comunemente detta malattia delle uve, che cagionò gravissimi guasti ai fertili vigneti d’Italia, e specialmente a quelli del Piemonte. Questa malattia si manifestava per via di certi piccolissimi insetti, che cominciavano a comparire sulle foglie dei tralci delle viti quasi fossero coperte di cenere. Di poi si portavano sopra gli acini dell’uva, guastandoli così da impedirne il crescere ed il maturare. Sono già venticinque anni (*) che molti paesi d’Europa e specialmente l’Italia sono travagliati da cosiffatta sciagura. Fu provato che spargendo per tempo zolfo polverizzato sopra gli acini dei grappoli se ne impedisce la infezione.


[(*) Numero rimasto invariato in tutte le edizioni stereotipate, dopo il 1874, La crittogama, rivelatasi altrove nel 1849, comparve in Piemonte nel 1851 (*).]
Altri con vantaggio spruzzarono gli acini con acqua salata. Da alcuni anni tuttavia è assai meno funesto, e in molti luoghi scomparve già interamente. Giova pertanto sperare nella divina Provvidenza che per l’avvenire avremo raccolti migliori.

Il Piemonte sul principio del18ss patì un infortunio, cui non ha simile la storia d’Italia. Nello spazio di brevissimo tempo mancarono ai vivi cinque persone della real Casa di Savoia, tra cui la regina Maria Teresa, madre dell’augusto nostro sovrano, e la regina Adelaide, di lui consorte. Esse ebbero il compianto di tutti i buoni; ma gli indigenti furono inconsolabili. Erano comunemente chiamate le madri dei poveri, e non vi era miseria che presso di esse non trovasse conforto; non vi erano infelici che a quelle ricorrendo non ottenessero sollievo. Perciò la loro perdita fu considerata come una pubblica calamità. Non erano ancora finite le esequie delle due regine, quando cessò di vivere il duca di Genova, Ferdinando. Questi è quel prode che nella guerra dell’indipendenza combatté con coraggio e con valore degno di ogni encomio.

La cosa che recò qualche conforto in mezzo a questi infortunii si è che tutti e tre questi personaggi prima di morire ebbero tempo di ricevere i conforti religiosi, dando molti luminosi esempi di cristiana pietà e di rassegnazione. Alcuni mesi prima era già morto un figliuolo del re, e poco dopo un altro veniva eziandio portato alla tomba.

Terribile esempio questo, che ci ammaestra come la morte non badi né a dignità, né a ricchezze, né ad età la più tenera o fiorente.




XXXVIII.
La guerra d’Oriente (160).

(Dall’anno 1854 al 30 marzo dell’anno 1856).


Non voglio terminare questa storia senza darvi un cenno della guerra d’Oriente, di cui avrete, per certo, più volte udito a parlare, e a cui forse qualche vostro parente od amico prese parte (*).
[(*) Questo capitolo fu scritto nel 1856, mentre già il libro era in corso di stampa. Si tenga presente questa circostanza, che dà ragione di quanto è detto nell’intero capitolo, e specialmente nell’ultima parte, È storia di cose presenti all’aurore. E con questo finiva la 1.a edizione (*)].
È bene che richiamiate alla memoria come i Turchi nell’anno 1453, mettendo fine al Romano Impero d’Oriente, siansi stabiliti in Costantinopoli. I cristiani che vivevano tra essi erano per lo più considerati come schiavi; e quelli che professavano la religione russa, che ha molte massime contrarie alla cattolica, nelle loro gravi oppressioni ricorrevano all’imperatore della Russia, che dai scismatici è considerato come il capo della loro credenza. In questi ultimi tempi quell’imperatore deliberò di prendere il protettorato di tutti i Greci scismatici, che trovavansi tra i Turchi; la qual cosa voleva dire che tutti quelli i quali professavano la religione russa sarebbero stati esenti da ogni influenza dei Turchi nell’esercizio del loro culto religioso ed avrebbero avuta dipendenza unicamente dall’imperatore delle Russie.

Il gran Sultano, ovvero il re dei Turchi, si oppose a questo loro protettorato, ed in breve si venne ad una guerra aperta. I Russi, come maggiori in numero e meglio addestrati al maneggio delle armi, riportarono parecchi vantaggi, fecero alcune conquiste, e già minacciavano di portar le armi sopra Costantinopoli.

Le Potenze occidentali, cioè la Francia e l’Inghilterra, si accorsero che, se la Russia fosse riuscita ad abbattere l’Impero Ottomano (così suol denominarsi l’impero dei Turchi da Ottomano, fondatore di questa monarchia), sarebbe divenuta formidabile e avrebbe quindi con tutta facilità potuto venire a dettar leggi nelle altre parti d’Europa. Perciò risolsero di portar aiuto al Sultano a fine d’impedire la troppa grandezza dei Russi, e in pari tempo conservare l’integrità dell’impero Ottomano.

Di comune accordo queste due Potenze misero in piedi una terribile armata e sciolsero le vele per Costantinopoli. A questa notizia i Russi arrestarono le loro mosse e si limitarono a tenersi in difesa. Ma come i Romani per allontanare Annibale dall’Italia portarono la guerra in Africa, così gli alleati, per distogliere i Russi dal marciare sopra Costantinopoli, portarono le loro armi in Crimea, che è una penisola del mar Nero, dove i Russi avevano fortificato in modo quasi inespugnabile la città di Sebastopoli, e fattone il principale porto di quel mare. I nemici si opposero arditamente per impedire che gli alleati prendessero terra; ma tornò inutile ogni resistenza, gli alleati sbarcarono, sbaragliarono i Russi in due sanguinosi attacchi, e riuscirono a stabilire colà i loro quartieri d’inverno.

Allora che a Pietroburgo (capitale della Russia) fu recata la novella dei progressi fatti dagli occidentali, non è a dire con quale sollecitudine si facessero nuovi apparati di guerra per la seguente campagna del 1855.

né stettero inoperosi gli alleati, e mentre dal canto loro si preparavano per mare e per terra contro a quel potente rivale, invitavano eziandio altri sovrani d’Europa a prendervi parte.

Fu in questa occasione che il governo Sardo stimò opportuno di prender parte alla guerra d’Oriente. Si collegò colla Francia e coll’Inghilterra, e posto in piedi un esercito di ventimila combattenti sotto il comando del generale La Marmora, lo spedì direttamente in Crimea. Gli apparati erano veramente formidabili da ambe le parti; e siccome Sebastopoli era la città più importante e meglio difesa, così l’impeto della guerra fu tutto colà rivolto.

Non si trova esempio nella storia di prodezze somiglianti. Il terreno era disputato a palmo a palmo, ed ogni palmo costava migliaia d’uomini. Infine prevalsero gli alleati, e Sebastopoli cadde in loro potere. Ma sì grandi furono le perdite da ambe le parti, che io non saprei dirvi se nei tempi andati siasi riportata vittoria a così caro prezzo, tanto furono gravi i danni e le perdite degli uni e degli altri.

Anche i soldati Piemontesi eransi segnalati in parecchi scontri coi nemici; e in uno di questi i Piemontesi assaliti improvvisamente di nottetempo, sostennero intrepidi l’impeto dei Russi, con grande perdita di questi e con gran vantaggio degli alleati. Essi ebbero tempo di venire in aiuto dei Piemontesi e così riportare alla Cernaia (piccolo fiume della Crimea) una gloriosa vittoria.

Alla vista dello spargimento di tanto sangue, e dei mali che alla guerra inevitabilmente derivavano, l’Imperatore d’Austria si offerì mediatore tra le potenze guerreggianti, proponendo condizioni di pace. Queste proposte vennero accolte, e la città di Parigi fu scelta pel congresso, a cui intervennero i plenipotenziari della Russia, della Prussia, dell’ Austria, della Francia, dell’Inghilterra e del Piemonte, per mettere fine ad una guerra che minacciava di estendersi in tutta Europa.

Tutti sospiravano la pace, ed il trattato di pace fu sottoscritto il 30 marzo dell’anno 1856, domenica in albis, in cui la Chiesa di Gesù Cristo annunzia pace e perdono a tutti i cristiani. Nel giorno istesso, in cui segnavasi questa pace sotto l’impero di Napoleone III, quarant’un anno addietro, cioè nel 1815, gli Austriaci erano entrati vittoriosi in Parigi per dar la pace al mondo posto in sconvolgimento da Napoleone I. In forza di questo trattato le cose politiche vennero ristabilite quasi nello stato di prima. Fu per altro posto un limite alla potenza russa, che fu obbligata a non più tener navigli su piè di guerra nel mar Nero; e fu fatta facoltà ai commercianti ed ai naviganti di ogni nazione di poter liberamente esercitare lo scambio dei prodotti della loro industria pel mar Nero e pel fiume Danubio, cosa che certamente apporterà grande vantaggio a tutta l’Europa.

La Russia rinunziò ad essere protettrice di quei scismatici che abitano nei Principati Danubiani e nell’impero Ottomano.

Il Turco eziandio dal canto suo concedette piena libertà ai cristiani di esercitare il loro culto religioso, ammettendoli alle cariche civili e militari: le quali cose per lo innanzi erano loro rigorosamente negate. Giova sperare che queste concessioni siano per produrre un gran vantaggio al progresso della religione in quei paesi, che furono la culla del cristianesimo.

La conclusione della pace, di cui andiamo quasi totalmente debitori all’Austria ed alla Francia, mi porta a farvi un’osservazione sopra la prosperità di queste due Potenze.

Napoleone I, facendo condurre il Papa lontano da Roma ed appropriandosi i suoi dominii, si scavò la fossa in cui rovinò; al contrario Napoleone III, quand’era solamente presidente della repubblica francese, essendosi adoperato a ricondurre il Papa a Roma, fu dal Cielo benedetto. Divenne imperatore dei Francesi, e continuando a proteggere la religione, fa sperare un gran bene a quella nazione.

Anche l’Austria fu dalla Provvidenza rimunerata. Molte discordie, che minacciavano la rovina di questo impero, si acquetarono; e questo imperatore che si chiama Francesco Giuseppe, riconoscendo che il favorire la religione è il mezzo più sicuro per conservare gli Stati e che il disprezzo ne è la rovina, cominciò a stabilire molte cose favorevoli ad essa. Volendo poi abolire molte leggi promulgate da un suo antecessore, di nome Giuseppe II, contro alla Chiesa, fece un concordato colla Santa Sede, con cui, donando piena libertà all’esercizio del culto religioso, concesse alla Chiesa tutti quei favori e quella protezione che si possono desiderare da un sovrano veramente cattolico. Di più in questa guerra d’Oriente, sebbene i suoi dominii siano stati circondati da campi di battaglia, egli non ebbe a fare uno sparo di fucile, non un colpo di spada per difenderli. Anzi possiam dire essere esso divenuto l’arbitro della pace medesima; perciocché egli ne propose le basi, la raccomandò e la condusse ad onorevole conclusione.



XXXIX.
Terremoto di Napoli. - Entrata nella China. Cometa Donati (161).
L’anno 1857 è segnato da un gran terremoto, che desolò parecchie parti d’Italia e particolarmente la parte più meridionale, detta Calabrie, che è spesse volte colpita da questo flagello. La notte dal 16 21 17 dicembre; mentre ognuno dormiva o preparavasi per andare al riposo, si fa sentire un violento scuotimento della terra. Il suolo ed i pavimenti delle case traballando fanno crollare in parte i muri ed i tetti. Tutti sono atterriti dal timore di un gran disastro, quando un’altra scossa più gagliarda scuote le case fin dalle fondamenta. I tetti cadono sopra le vòlte degli edifizi, e le muraglie sfasciandosi colle loro rovine coprono quelli che alla prima scossa non erano frettolosamente usciti delle proprie case.

Allora da tutte le parti si fanno udire voci di lamento e di dolore. Quelli che non rimasero sepolti sotto le rovine, spaventati si diedero a precipitosa fuga; ma quando si trovarono in salvo, riavutisi alquanto dal terrore, pensando alle persone loro care, si arrischiarono di ritornare alle proprie abitazioni, tentando di porgere soccorso ai feriti e liberare chi era ancora vivo sotto a quelle rovine, se non altro cavarne fuori i cadaveri dai rottami. Ah! miserando spettacolo! Chi piange il parente, chi l’amico estinto.

Intanto voi avreste veduto, o miei cari, intere famiglie andar vagando prive di abiti e di tetto; madri coi loro bambini tra le braccia passare le notti nelle pubbliche piazze, essendo state le case uguagliate al suolo; e tale fu lo spavento, di cui furono compresi, che quelli, le cui case per buona ventura erano ancora o in tutto o in parte rimaste in piedi, non ardivano più di entrarvi. Tutti fuggendo chi qua chi là nelle campagne si fecero baracche, a fine di potersi così riparare dalle intemperie della stagione. Il numero dei morti fu calcolato a trentamila, quello dei feriti fu assai più grande, il danno incalcolabile.

I paesi più danneggiati sono la città di Potenza, Marsico Nuovo, Laurenzana e il villaggio di Tito, che furono quasi interamente distrutti. La beneficenza per altro concorse a mitigare in parte le pene di questo disastro. Il re di Napoli e molti signori di quel regno, e anche di altre parti d’Italia, vennero generosamente in soccorso di quegli infelici.

Un altro avvenimento, che farà epoca nella storia, ebbe luogo nel giugno del 1858. La China, che è un vastissimo impero a levante dell’Asia Maggiore, fece stupire l’Europa aprendole inaspettatamente le sue porte, e dando libero l’ingresso alla sua civiltà, al suo commercio, e ciò che è più, alla religione cattolica. La Francia e l’Inghilterra ebbero parte principale in questo fatto. Dopo molte fatiche, spese, combattimenti e minacce, si con chiuse un trattato, in cui fra gli altri furono stipulati i tre seguenti punti principali: 1° Tutti i porti dell’impero Chinese saranno aperti al libero commercio degli stranieri, e questi abitando in detti porti vi potranno godere dei medesimi diritti che i Chinesi, sottomettendosi alle leggi del paese e sotto la protezione dei loro consoli; 2° La religione cristiana sarà liberamente esercitata in tutto il Celeste impero (è questo il nome che si dà al grande impero della China); 3° Un ambasciatore della Francia ed uno dell’Inghilterra risiederanno a Pekino, ed un ambasciatore chinese sarà mandato a Parigi ed a Londra; gli altri ambasciatori e rappresentanti dei governi esteri potranno, in caso di bisogno, recarsi direttamente a Pekino, senza che loro si oppongano difficoltà. Questo trattato conchiuso con Francia e con Inghilterra è accompagnato da altro simile e più obbligatorio verso la Russia, che occupa di già alcune regioni settentrionali della China.

Noi vediamo già gli effetti di queste relazioni libere colla China. Molti missionari corsero tosto in que’ paesi a predicare il Vangelo, e nella stessa Pekino, capitale di quel vasto impero, risiede già un vescovo cattolico.

In quest’anno medesimo (1858) fu veduta sul nostro orizzonte una delle più brillanti comete, che siano apparse nei tempi trascorsi. E poiché questa è la prima volta che mi occorre di parlarvi di questi astri meravigliosi, credo di farvi cosa grata esponendo quello che gli eruditi dicono di essi.

Le comete sono una specie di stelle di forma ovale, formate da una materia vaporosa, che si crede illuminata dal sole. La parte più densa, la quale ad occhio nudo sembra una boccetta e ne è la parte principale, dicesi nucleo. Questo nucleo lascia dietro a sé uno sprazzo di materia sottile e luminosa, che ci appare più o meno lungo, e dice si coda, ovvero chioma, donde venne il nome di cometa. Ma dovete notare che quella coda, la quale sembra assai corta ai nostri sguardi, è di una lunghezza appena credibile.

L’anno 1811 ne apparve una, che a giudizio dei dotti aveva una coda lunga 36 milioni di leghe. Nell’anno 1680 se ne era veduta un’altra, la quale spiegava uno strascico o coda, che, secondo i calcoli di Un famoso astronomo di nome Newton, giungeva alla lunghezza di 41 milioni di leghe.

Ma la più luminosa fra le comete finora apparse è la cometa Donati (*), così appellata dal nome del rinomato astronomo pisano, che fu il primo a vederla.


[(*) Gio. Battista Donati nacque nel 1826 a Pisa, e mori il mattino del 20 settembre 1873 in Firenze di colera asiatico, reduce appena da Vienna. Dei suoi scritti sono rinomati specialmente quelli: Intorno alla Serie degli spettri stellari (a)]
Essa non era preveduta, perciò niuno l’aspettava. La notte del 14 giugno 1858, il Donati dalla specola di Firenze, considerando il cielo stellato con occhio armato di un buon cannocchiale, cominciò ad accorgersi che si andava avvicinando una grande cometa. Di mano in mano che rendevasi a noi più vicina, appariva più luminosa, e nei primi giorni di settembre poté già vedersi ad occhio nudo. La sua chioma era straordinariamente lunga. Gli astronomi assicurano che la sua lunghezza era di circa 50 milioni di leghe, che corrispondono quasi a cento milioni di miglia piemontesi (**) [(**) Il miglio di Piemonte è di km. 2,469 (*).]; la quale lunghezza è assai maggiore della distanza che esiste tra il sole e la terra.

Per più mesi gli uomini dotti ed ignoranti non parlarono d’altro. Il volgo l’aveva come presagio di sciagure, e in prova adduceva la fortuita coincidenza di tristi avvenimenti seguiti alla comparsa delle comete. E quanto alla cometa Donati si volle notare come nell’anno seguente succedette la sanguinosa guerra tra Francia e Piemonte contro l’Austria. Ma i dotti non altro in esse ravvisano che una prova novella della potenza divina, la quale governa l’universo con leggi ammirabili in gran parte sconosciute agli uomini, ma che tutte tendono a compiere il volere del Creatore.

Sul finire di ottobre dello stesso anno la cometa Donati rendevasi invisibile ai nostri sguardi.

Tuttavia la cometa più d’ogni altra maravigliosa fu quella di S. Pietro, così appellata perché manifestatasi per la prima volta (1861) il 29 giugno, giorno dedicato a questo santo apostolo. Nemmeno questa non fu preveduta da alcuno, e recò a tutti non poca maraviglia la sua inaspettata comparsa, la lunghezza e larghezza della sua coda, per cui poté tosto ad occhio nudo vedersi grossissima. La sua chioma aveva l’enorme lunghezza di circa ottanta milioni di leghe. Dopo un mese la cometa di S. Pietro scompariva dal nostro orizzonte per andar a portar la sua luce in luoghi a noi invisibili, ma sempre seguita dall’occhio di Dio, supremo padrone degli spazi immensi dell’universo.


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