S giovanni bosco



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Per il Parini (cfr. pag. 273-76) l’aderenza al modello è maggiore. Ma è esagerato che fosse gobbo e storpio: più giusto è il Giannetto, qui male parafrasato (Cfr. Corniani, vol. VI, art. XIX). È strano che né il modello né l’A. si sian ricordati di nominare il Giorno.

L’VIII ediz. aveva soppresso nel capoverso introduttivo il perché del ragionarne: non certo perché Don Bosco abbia veduto men bene nelle virtù dei due poeti.


(149) Capitolo materiato di tratti delle più varie origini.

L’inizio e la geografia politica d’Italia vengono dal Giannetto, pag. 288-89.

Per le Società Secrete cfr. Balleydier, cit. infra, vol. I, Introd., pag. XXIX­XXX; e la Civiltà Cattolica, a. I (1850) e anno II (1851) passim. Ma principalmente la Costituzione «Ecclesiam a I. Ch.» di PP. Pio VII, 1823, con la quale coincidono parecchie espressioni del Nostro (cfr. Bullarii Romani continuatio, etc.; Romae, 1853: tomo XV, pag. 446-448, § 3-6)

L’accenno a Clemente XIV (da: «Soltanto contro... etc.» fino a « ... pontificato») fu inserito già nella II edizione a mezzo il periodo «Dovete altresi; etc.», ripreso poi dopo l’aggiunta.

Per il cenno sulla Rivoluzione francese, la fonte è uno dei tanti libri di carattere apologetico che parlavano così in quei decenni.

Per Napoleone, salvo un tratto del Giannetto, pag. 290, sull’educazione e giovinezza di lui, e qualche spunto del Ricotti, la prima parte è di fonte ignota.

Ma tutta la storia concernente Pio VI viene dal Baldassari (Storia del rapimento e della cattività di Pio VI, Parigi, 1842) riportato in qualche punto letteralmente (qui la fonte ha valore documentario): come dél resto fa il Rohrbacher, finito nel 1853, ma tradotto in italiano nel 1862-63, e solo allora conosciuto dal nostro Autore. (Cfr. l’incontro di Pio VI col Re di Sardegna, profugo a Firenze).

La nota in calce è dell’VI II ediz. Ma le Lettere di Politica e Letteratura edite e inedite del Balbo furono pubblicate quando il nostro Autore non era più in tempo a servirsene.


(150) Il capitolo fu molto ampliato in II edizione, aggiungendovi le istituzioni del Consolato, e (dopo la consacrazione a Imperatore) le notizie sulla guerra del 1805 e sulla guerra agl’Inglesi col blocco continentale e il conseguente trattamento del Portogallo. - Fu invece soppresso un periodetto che s’aggiungeva ai motivi dI diffidenza in Pio VII: «Perciocché esso viveva da Ebreo cogli Ebrei, da protestante coi protestanti, da turco coi turch» (I ediz., pag. 463): preso da qualche libro antinapoleonico.

Le fonti del capitolo sono varie, ed è difficile trovarne una predominante e prossima come negli altri casi, giacché troppa materia e variamente svolta o riassunta vi si è accumulata, e troppo numerosa è la letteratura napoleonica grande o spicciola, storica o aneddotica che già si possedeva nel 1855 e nel 1859.

Anche l’A. appare impacciato a sbrigarsela in poco con tanta roba, senza fare un arido e poco attraente sommario.

Certamente stette sott’occhio il Ricotti (Parte In, 1854), dal quale poi l’A. prese o fece prendere le aggiunte della n ediz. e la Coronazione di Milano. Cosi, per quanto. si riferisce al Papa, valsero il Baldassari e l’Artaud (cfr. Bibliogr.). Il Giannetto, così utile prima e dopo, qui non c’entra, perché di tutto questo non parla: forse perché non gli fu permesso.


(151) Fonte e modello di questo capitolo è il Giannetto, cit., pag. 293-95: in più punti ricalcato prossimamente (cfr. Spedizione in Russia), in altri integrato con notizie prese dai manuali o dai libri allora popolarissimi di aneddoti napoleonici.

La storia di Waterloo e della fine di Napoleone da fonti varie di carattere popolare. La postilla sulla fine del figlio di Napoleone, è dell’VIII ediz.

L’ultimo capoverso è modellato sul Giannetto, pag. 295. - E poiché qui si richiedeva un aggiornamento, fu omesso il periodo: «In forza di quei trattati si eseguì quell’ordinamento dell’Italia e dell’Europa che in gran parte sussiste ancora ai giorni nostri. - Così dalla II alla V ediz., che restava già in ritardo. Nella I ediz. ciò si diceva (e giustamente nel 1855-56) solo dell’Italia.
(152) La materia è derivata e qua e là ricalcata sul Coppi, Annali d’Italia dal 1750 al 1858 (continuazione del Muratori), citato poi dall’A. nel capitolo seguente (l’VIII ediz. lo cita anche qui per l’a. 1811). Qui servono: tomo VII, a. 1820, § Il e seg.; § 113; a. 1821, § 81. - I sentimenti dell’ab. Coppi sono consoni a quelli di Don Bosco. Naturalmente il tono familiare dell’esposizione è dato dal nostro A.

I curatori della ultim’ora avevano ripetutamente messo insieme colle Società segrete del primo tempo (e citavano: Coppi, a. 1811!) anche la Giovine Italia («Tale progetto ebbe il nome di Giovine Italia»): anzi in una nota in calce ricordavano che Gius. Mazzini, un Bianchi piemontese e un Santi di Rimini avevan fatto statuti diabolici a Marsiglia nel 1836. Sono svarioni da negligenti.


(153) Come il precedente capitolo, e più sensibilmente, questo deriva dal Coppi, cit., tomo VII, a. 1821, § 78; 79-80; 88 e 124. La citazione espressa risponde a pag. 221. - La notizia dell’Editto di Pio VII è trasferita letteralmente.
(154) Per il 1848, la materia (cose vedute e vissute) è derivata dalle molte Relazioni e pubblicazioni contemporanee. Dal 1848 in poi c’è la Gazzetta Piemontese (Giornale Ufficiale) con le Relazioni Ufficiali. (Si noti che i volumi del Coppi giungono nel 1855 solo al 1846-47: il 1848 è pubbl. nel 1860; il 1849 nel 1862; sono perciò posteriori alla I-II ediz.). Ma l’A. ha dovuto, per l’economia del libro, esporre compendiosamente le cose, e ometterne talune scabrosissime quando scriveva.

I sentimenti dell’A. rispetto ai primi moti del 1847-48 differiscono da quelli espressi nell’ediz. A 2 della Storia Ecclesiastica del 1848 (cfr. Opere e scritti, etc.: vol. I, Parte II, sez. II, pag. 172-74). Ma Don Bosco rifiutò nel 1870 quell’edizione come «fatta ad insaputa dell’autore». - Ciò non va inteso mai, si noti bene, nei rispetti di Carlo Alberto e dei Piemontesi, per i quali Egli ha l’affetto e l’ammirazione di chi sente la sua patria. La sua storia del resto fu pensata primamente e principalmente per i suoi Piemontesi. Cfr. lo Studio Introduttivo di questo vol., Cap. I: Simpatie e scorforti.

Sul numero dei combattenti dell’Esercito Italiano nel ‘48 (in I ediz. eran Piemontesi: dalla III in poi: combattenti) il Nostro è più esatto dei comuni manuali scolastici che dànno a Carlo Alberto 25.000 uomini (Ricotti l), mentre erano effettivamente 50.000 dell’Esercito Sardo e coi Volontari e le truppe di Toscana, Roma, Napoli, facevano un totale di oltre 90.000. - A Novara erano 77.000 contro 75.000 Austriaci, il cui esercito però sommava a 120.000.

Per il 1849 la fonte è (cosa singolare!) Alphonse Balleydier, Histoire de la Révolution de Rome, etc., Paris, 1851. L’A. nostro non lo cita: solo l’VIII ediz. lo cita in nota (ma solo al cap. XXXIV e con titolo inesatto) con l’Audisio (La Repubblica Romana del 1849. - Suo processo. Torino, 1850) del quale, a dir vero, l’A. si è valso pochissimo, essendo piuttosto una discussione che un racconto.

Esistevano, pubblicati a Pistoia, 1850, i Ricordi di una missione in Portogallo, di Pietro Contrucci, che, con qualche amplificazione comparvero in: Cibrario, Notizie Sulla vita di Carlo Alberto, iniziatore e martire dell’Indipendenza Italiana, Torino, Botta, 1861: dove una lettera di teste oculare e intimo di Carlo Alberto descrive la battaglia di Novara e l’abdicazione: lettera che ha servito di documento al Balleydier.

Ma nel nostro libro la descrizione della battaglia di Novara è presa con pochissime varianti dall’autore francese (cfr. t. II, cap. XIX, pag. 54); anzi la pagina più bella e commovente, quella dell’abdicazione di Carlo Alberto, viene trasferita ad litteram, persino nell’ortografia (pag. 55), e così la partenza del Re (pag. 56).

Sennonché nella II ediz. (e nelle successive) furono soppresse le due caldissime esclamazioni e l’inciso che segue alla seconda, e modificata la forma dell’ultima frase.

Cito (anche con i punti sospensivi) dalla forma originaria, tradotta letteralmente dal francese, i punti modificati: «ma quando vide perduta la battaglia... Oh! allora fu sublime. Poiché, esclamò, non potei in questo giorno né morire della morte del soldato, né salvare l’Italia, l’obbligo mio è ormai compiuto, etc.». Infra: «rinunzio volontariamente alla corona per deporla sulla fronte di mio figlio. Era momento solenne! Diritto ed alto dinanzi alla maestà della sventura, Carlo Alberto, circondato dai due figli e dai suoi principali uffiziali, etc.». - Infra: «ma non son più re, il re è Vittorio mio figlio», diventa in III-IV ediz.: «ma non son più re, il vostro re è mio figlio (V ed.: figliuolo) Vittorio Emanuele.»

Il cambiamento operato nel 1859 è dovuto, non certo senza pena dell’Autore, a circostanze che sfuggono ai più: cose di storia minuta ed intima di ambiente, che non è possibile od opportuno spiegare. È un aggiornamento che dice molto.
(155) Il racconto degli avvenimenti fino alla storia del Conte Rossi, deriva dalla Gazzetta di Roma, 1848, e Monitore Romano, id.: su questi s’appoggia il Coppi stesso ne’ suoi volumi del ‘48-’49. Ma anche dal Balleydier, passim, di cui il capoverso: «Molti uomini che già avevano, etc.» è un libero estratto delle parole ufficiali del Papa.

Le parole di Pio IX ai soldati (e al sergente Sopranzi) in Balleydier, I, 104. - Le altre qui citate provengono dall’allocuzione del 29 aprile 1848.

Dal Balleydier, che cita anch’esso la Gazzetta di Roma, il seguito, riassunto.

Per la storia del Conte Pellegrino Rossi vi era in Civiltà Cattolica (Serie II, vol. VIII, anno V, 1854) la Storia dell’assassinio di Pellegrino Rossi (I - La cospirazione; II - L’assassinio; III - La ribellione) basata sul processo del 1853 (sentenza 17 maggio).

Ma il racconto nostro viene dal Balleydier. Il primo capoverso (la vita precedente) dal vol. I, cap. VII, pag. 232. - Il dialogo coll’amico (testuale ma con qualche variante dalla III ediz. in poi) cap. VIII, 18r. - Il Ministero: pag. 182-83; le prime avvisaglie della congiura, pag. 185, 187, 188; il dialogo coi figli, cap. IX, 192; gli avvisi degli amici, 193: (omette il dialogo col Papa a mezzogiorno, 195); l’avviso di Mons. Morini (curato di Faenza, scacciato dai rivoluzionari e venuto a Roma), pag. 197. Il dialogo è un po’ aggiustato per non dover dire che una donna aveva avvertito il Prelato presso il confessionale; riferendogli le parole d’uno sconosciuto ch’essa indicava.

La tragedia, letteralmente, pag. 198-199: il resto, riassunto, fino a pagina 203.

L’indicazione minuziosa che noi diamo per questi capitoli è per mostrare in qual modo il nostro A. si valga delle opere di certa mole per costruire il suo racconto.
(156) Come il capito precedente, deriva dal Balleydier, con uno spunto dell’Audisio.

Il primo e secondo capoverso, vol. I, cap. VII, pag. 159; cap. X, riassunto. - Il Galletti, cap. XI, 252-54; l’udienza e il perdono, dall’Audisio (ma Balleydier lo ricorda e vi rimanda, XI, 254); l’assalto al Quirinale, XI, 255; la fuga del Papa, ibid., 257, letterale; il viaggio, 270.

Le cose di Roma sono esposte riassumendo i capito XII-XV; ma dal capitolo XI, l’opinione dell’intervento straniero. Don Bosco esprime qui l’opinione sua circa il diritto d’intervento.

Dal cap. XIII, pag. 311-16, la costituzione della Repubblica; ibid., 316-17, l’episodio del Card. Tosti, letterale.

Dal cap. XVI (vol. II: la numerazione dei capitoli è continua), pag. 10, il decreto della decadenza del Potere Temporale (i 4 articoli).

Il tentativo mazziniano, cap. XVIII: la carta moneta, XVIII, 31, 69 e cap. XX; le rapine, cap. XXIII, 153-54; atti sanguinari, cap. XVIII, e l’Audisio, passim.

La chiusa del capitolo è autonoma (ma correggi Ferdinando II in Leopoldo II, 1824-1859). Mazzini, che poco prima è detto uomo singolare, qui appare nella sua funesta luce.

Anche qui (come già nella St. Eccl. del 1870) era avvenuta la sostituzione delle idee dei curatori, informati a certe correnti, in luogo di quelle di Don Bosco. - Dov’Egli dice: «il dominio temporale dei Papi si può dire un dono fatto da vari principi e posto sotto alla tutela di tutti i governi cattolici, etc.» si era scritto: «si può dire proprietà di tutti i cristiani, posto sotto alla tutela, etc.». - Si sarà anche in questo caso disobbedito a Don Bosco? (cfr. sopra, nota 89).


(157) La fonte è ancora il Balleydier. - Là preghiera dei cattolici, I, XIII, 305; l’incontro a Gaeta, XII, 287; la sollecitudine del Re di Napoli e l’interessamento delle potenze cattoliche e l’appello della Spagna (omissis), XV, 345-47.

Il breve riflesso sulla nemesi storica dei due Principi cattolici astenuti (ma, quanto al Piemonte, la colpa non era del Re, bensì del Parlamento dominato dai democratici) è di Don Bosco. Si ricordi: Carlo Alberto abdica il 23 marzo 1849; Leopoldo II è deposto il 7 febbraio, benché rientri il 17 aprile.

L’azione militare francese, vol. II, cap. XX, pag. 81: Napoli e Spagna, cap. XXII. - La resistenza, XXI, 82-85; la presa di Roma, cap. XXVI; l’accoglienza popolare, XXVI, 279, con ricalchi letterali; tentativi di rivolta, fuga dei capi rivoluzionari e riordinamento, cap. XXVII, 305 e 296; l’episodio del Mareschi (era Moreschi Teresiano) vol. II, cap. XXVI, 289-91 (con due battute del dialogo rese in forma diretta). - Le congratulazioni ufficiali, cap. XXVII, 306-7 (qui, dalla III ediz. in poi, è omesso un inciso:... «uniti dal medesimo vincolo che forma la nostra forza e uniti dalla disciplina; solo nel sentimento religioso, etc...» il Te Deum col seguente episodio, 312, 326.
(158) Ancora dal Balleydier, vol. II, cap. XXX: il viaggio, pag. 396-97; l’episodio di Valmontone, pag. 399, letterale; Terracina, pag. 401, letterale; l’entrata in Roma, pag. 403-404; il ricevimento, pag. 406-408 (con un particolare da pag. 405); l’illuminazione, pag. 408, letterale; la chiusa del capitolo, 408-409.
(159) Il capitolo nella I ediz. (preparata nel 1855-56) era intitolato: «Assassinio del Duca di Parma e altre cose contemporanee».

L’inizio del capitolo è ancora estratto dal Balleydier, cap. XXX.

Il racconto dell’assassinio del Duca di Parma è preso dalla Civiltà Cattol., Serie II, vol. VI, a. 1854, pag. 209-211 (citata dall’A.), per lo più testualmente, ma inserendo nel racconto qualche particolare contenuto ivi nelle note in calce. L’VIII ediz. aveva qui ritoccato, e non bene, anche le idee. - Curiosa: nel 1881 la Gazzetta Provinciale di Bergamo, 18 marzo, attaccava la Storia d’Italia di Don Bosco per questo capitolo: naturalmente, mutilando il testo. Rispose subito, e forte, l’Eco di Bergamo, 18 marzo 1881.

I cenni sul cholera-morbus del’ 54 vengono dai periodici del tempo; per quello del ‘55 Don Bosco è teste presente ed oculare. Egli e i suoi primi allievi grandicelli corsero ad assistere eroicamente i colerosi. (Cfr. Mem. Biogr., vol. V, capo IX intero): Egli stesso n’ebbe una minaccia (ibid., pag. 150). ­Le osservazioni sulla profilassi igienica e morale del morbo sono eco delle opinioni e suggerimenti dei medici epidemisti, capo il celebre Timermans dell’Università di Torino, i quali sostenevano essere quella un’epidemia e non un contagio (opinione dei contagionisti). Anche Cavour era epidemista, e i suoi avversari politici ne toglievano argomento a dargli addosso.

Anche per la crittogama l’A. parla di cose presenti, secondo le opinioni d’allora (è noto che l’oidium non è un insetto, ma un fungo). - Questo capoverso subisce via via, nel succedersi delle edizioni, una variante nel numero degli anni trascorsi. Nel 1856 (I ediz.): ... son già quattro anni..: Finora non si è ancora potuto trovare alcuno specifico da usarsi per andarne al riparo». - Nel 1859 (Il ediz.): «son già sette anni... l’anno scorso però... ». Nel 1861 (III ediz.): «sono già dieci anni... quest’anno peraltro (1861)... Fu provato però che spargendo...». Lo specifico è dunque trovato. Nel 1863 (IV ediz.): «son già dodici anni... quest’anno peraltro (1862)». Nel 1866 (V ediz.): «sono già quindici e più anni... da alcuni anni tuttavia... ». Nel 1873 (VIII ediz.): «son già venticinque anni (sic)... da alcuni anni però... ». - Ed è rimasto così, coi venticinque anni, perché dopo d’allora l’edizione fu stereotipata.

Gl’Infortunii nella Casa Reale di Savoia sono ore vissute da Don Bosco. Noi sappiamo dalle Memorie Biografiche (vol. V, cap. XVII) come Egli, ammonito da misteriose visioni, ne avesse preavvisato la Corte, benché inutilmente per i suoi fini. Il cap. XVIII delle Mem. Biogr. dice della morte delle due Regine e dell’aggravarsi della malattia del Duca di Genova Ferdinando: il cap. XIX parla della morte di esso Duca. - Le date sono: 12 gennaio, morte di Maria Teresa; 20 gennaio, morte di Maria Adelaide; 11 febbraio, morte di Ferdinando. E il 28 giugno 1854 era morto a tre anni un figlio del Re, il duca dello Sciablese Carlo Alberto; il 17 maggio 1855, in età di soli cinque mesi, un altro figlio moriva: Vittorio Emanuele, duca del Genevese. Né troppe speranze di lunga vita dava l’altro figlio, Oddone Eugenio, duca di Monferrato, nato nel 1846, che infatti mancò a vent’anni nel 1866. Sopravvissero soltanto il primogenito Umberto, Principe di Piemonte (n. 1844) e il secondo, Amedeo, duca d’Aosta (n. 1845).

Non è compito nostro ricordare in qual relazione l’A. mettesse tali sciagure con quanto si veniva operando allora nel campo politico contro la Chiesa (vedansi i capitoli citati delle Mem. Biogr.). Era del resto il sentimento comune nei buoni, e ce lo fa intendere una lettera del Paravia di quel Gennaio, addotta dal CIAN, op. cit., Nota IV, pag. 299: dove l’espressione «pianta da tutti i buoni» coincide con quella del Nostro: «il compianto di tutti i buoni». Ma la tessitura del racconto e la clausola del capitolo mostrano ch’Egli vuole di proposito escludere qui ogni più lontano accenno. (Cfr. invece come si esprime nel Galantuomo, etc., per l’a. 1856, nel tratto riferito in Mem. Biogr., vol. V, cap. XXVI, pag. 286).


(160) Il titolo nella I ediz. era: «La Guerra d’Oriente - dal 1854 al 30 marzo 1856». Ciò dimostra che il capitolo fu scritto dopo quest’ultima data, anzi dopo la pubblicazione ufficiale del Trattato (28 aprile) quando già era stampata buona parte dell’opera.

Le notizie esatte, chiare, ordinate, sono attinte, oltrechè da memorie personali, principalmente dalle Relazioni della Gazzetta Ufficiale di quegli anni, così come fecero allora e poi i vari testi di storia più in voga. Non è fuor di luogo ricordare che della Guerra d’Oriente l’A. aveva già cominciato a discorrere quando preparava il Galantuomo, almanacco nazionale per l’anno 1856: scritto tra il 2 luglio e il 6 agosto, data della battaglia della Cernaia, di cui non parla ancora. (Cfr. Mem Biogr., V, cap. XXVI, ove son riportate quelle pagine).

Il millesimo (1856) nella II-V ediz. era in parentesi avanti la data: l’VIII ediz. lo collocò al suo posto. Ma è almeno strano che i curatori avessero cacciato in nota a piè di pagina la coincidenza cronologica con Napoleone I: noi rimettiamo la cosa a suo posto.

Le osservazioni dell’Autore (noi conosciamo dalle Mem. Biogr. il suo modo di pensare in quegli anni di pervicacia anticlericale ed antireligiosa) non sono evidentemente in accordo colle idee che pervasero i testi di storia italiana d’allora e di poi. (Cfr. in proposito Ricotti, ediz. III-VII e seg.). Ma oltrechè rispondono allo stato delle cose nel 1856, Egli si limita, pei suoi fini educativi, a segnalare i fatti positivi che dimostrano la sua tesi costante delle rimunerazioni storiche della Provvidenza (altrove ha ben lumeggiati i castighi storici!), senza che per questo possa accusarsi di troppa tenerezza per Napoleone III o per l’Austria. Tant’è vero che questa non ne tenne conto, ed accusò Don Bosco di troppa italianità. La tesi è sempre una: quando si fa bene, Iddio premia; quando male, castiga.

Si ricordi a proposito di questo capitolo e della sua conclusione l’articolo virulento della Gazzetta del Popolo, di Torino, in data 18 ottobre 1859, riportato in Mem. Biogr., vol. VI, pag. 286-289, ed ivi confutato, pag. 289-91.

Nella I-II edizione chiudeva il capitolo un breve capoverso: «Questo fatto dimostra come la religione sia il sostegno dei troni, e la felicità dei popoli che la onorano e ne praticano i precetti». - Dalla III ediz. (1861) in poi questa clausola scompare. Il fatto, dopo il ‘59 e le vicende del ‘60-’61 non è senza significato: né poi i fatti susseguenti poterono mai più dar motivo a rimettere questo riflesso al suo luogo primitivo. Eppure, nonostante l’anacronismo dei concetti espressi nell’ultima parte, così presto contraddetti dagli avvenimenti (ricordiamo, per l’Austria, l’abolizione del Concordato nel 1868 e la denuncia formale di esso del 30 sett. 1870, appena 10 giorni dopo la Breccia di Porta Pia; per Napoleone III, la sua politica religiosa dopo il 1860 e la sua condotta nella questione romana): il capitolo non ebbe, neppure nel 1873, altra mutazione tranne quella ora indicata.

AVVERTENZA. - Con questo capitolo (XXXVII) finiva la Storia nella I ediz. (1856) e lo seguiva la Conclusione (cap. XXXVIII). Tutto il resto è opera delle edizioni successive, tranne la biografia di Antonio Canova (I ed., cap. XXVIII) trasportata fin dalla II ediz. dopo quelle di Denina e di De Maistre. Perché nella serie dei profili biografici manchi quello dell’Alfieri, cfr. infra, nota 173.
(161) Il capitolo fu aggiunto in II edizione, ed è stesura di Don Bosco. Il libro, pubblicato nel giugno del ‘59, ma finito di preparare il 30 marzo (cfr. la Conclusione, cap. XLVI, pag. 469) usciva così aggiornato anche nelle notizie, che giungono fino all’ottobre 1858, o, se si tien conto dell’accenno al momento politico inserito nella Conclusione, fino al 30 marzo suddetto. L’aggiornamento fu ancora proseguito nell’ediz. III (1861) con l’accenno al presagio popolare della guerra del ‘59, e con la notizia della cometa di San Pietro (29 giugno ‘61), aggiunte inserite tra il periodo precedente e le parole «e scompariva dal nostro orizzonte».

Le fonti non possono essere state che i periodici del tempo.


(162) Capitolo aggiunto nella III edizione col n. XXXVIII. La II edizione, uscita nel giugno 1859 (cfr. la lettera al Card. Viale infra citata), inseriva nella Conclusione il seguente accenno: «Noi pertanto porremo qui termine ai racconti sulla Storia d’Italia, e ciò dobbiamo fare in un momento (30 marzo 1859) in cui gravi avvenimenti sembrano imminenti in Italia e in tutta Europa. Ora però che le principali potenze d’Europa si sono accordate per tenere un Congresso ad oggetto d’impedire i disastri della guerra, speriamo che le vertenze avranno un pacifico scioglimento. Voglia adunque la Divina Provvidenza, nelle cui mani sono le sorti degli uomini, ricondurre fra noi l’iride di pace, la tranquillità dei troni, la felicità dei popoli, la prosperità dell’Italia e di tutto il mondo». - Vedasi come codesta circostanza è richiamata nel racconto susseguente della guerra. È la costante idea, che per i popoli la guerra è sempre un flagello.

La chiusa del capitolo, con le allusioni agli avvenimenti contemporanei del 1859-’60-’61, è rimasta per sempre così come fu scritta nella seconda metà del ‘61, ed esclude così il racconto dei fatti posteriori, che solo nel 1874 (ediz. IX) furono rassegnati in un indice o Sommario cronologico condotto dall’armistizio di Villafranca alla morte di Napoleone III (9 genn. 1873).

Per le notizie sulla guerra, cfr. Gazzetta Piemontese - Giornale Uffic. del Regno, a. 1859: Relazioni e Bollettini di Guerra. - Per Palestro e Magenta, n. 156-159; per Solferino e S. Martino, n. 159, 162, 175, etc.

Lasciamo le osservazioni sul modo ond’è saggiamente condotto il racconto di avvenimenti ai quali l’A. poteva quasi dirsi presente. Niente del Convegno di Plombières, niente di Cavour, niente di Garibaldi: allora non era storia, ma politica, ed Egli non fa politica.

Vogliamo ricordare l’accennata lettera al Card. Viale, Arcivescovo di Bologna, in data 15 luglio 1859 (pubbl. da D. Eugenio Ceria in Mem. Biogr., vol. XIV: Appendice di documenti inediti anteriori). Essa reca un P.S. che dice: «Alla metà di questa lettera, ore 5 1/2 pom., sono assordato dagli evviva fatti a Napoleone e al nostro Re che fanno la loro entrata e passano sotto alla finestra di questa camera». L’entrata avvenne da Porta Susa (stazione della Ferrovia di Novara) per via Cernaia (allora tracciata, ma non tutta fabbricata), via S. Teresa, Via Nuova (poi via Roma) e piazza Castello. (Cfr. Gazz. Uffic. cit., 1859, sabato, 16 luglio, n. 179: Ultime notizie). - Il Nostro doveva trovarsi (come spesso faceva per sbrigare la sua corrispondenza) presso qualche nobile famiglia amica: nel caso nostro in Casa Provana di Collegno, Via S. Teresa, n. 20, dove il marchese Zaverio gli era intimo amico (Cfr. Mem. Biogr., V, 802). Latore della lettera era il March. Fassati, presso il quale sovente pure si ritirava Don Bosco, in via Bogino, 12.

Don Bosco fu disturbato dagli evviva, ma evviva non furono tutti, e Napoleone si lagnò poi della freddezza che Milano e Torino gli avevano dimostrato allora, dopo l’armistizio di Villafranca.


(163) Con questo capitolo s’inizia la serie delle Vite d’uomini celebri degli ultimi tempi, che l’A. fin dalla II ediz. deliberò di collocare alla fine della sua Storia d’Italia. Tali biografie (salvo quella del Canova trasportata in serie cronologica dal capito XXVIII della I ediz.) sono tutte, fino a quella del Rosmini inclusivamente, creazioni della II edizione; gli altri quattro capitoli biografici sono un’aggiunta dell’ediz. VIII. - L’autore qui si vale dello spunto con cui annunziava nella I ediz. la Vita del Canova (v. infra, n. 165).

VITA DI CARLO DENINA. Breve, ma chiaro e sufficiente profilo ricavato dalla Vita di Carlo Denina (di anonimo, ma notoriamente di C. Reina) premessa all’opera: Delle Rivoluzioni d’Italia, libri venticinque di Carlo Denina», 3 voll. in-8, nella Bibl. dei Classic. Ital., Milano, 1820, n. 25-26-27: vol. I, fol. III-XXVI. - Qualche spunto viene anche dal Corniani, op. cit., vol. VI, pag. 246-288; e qualche inesattezza deriva dalla necessità di scegliere tra la molta materia del Reina il necessario e conveniente al bisogno. Così la figura del Cardo Costa d’Arignano (che veramente s’intreccia più volte nella vita e nell’opera del Denina) è qui presentata come auspice del capolavoro delle Rivoluzioni d’Italia, mentre questo fu pubblicato assai prima (1768-70-72), quando il Costa, amico e incoraggiatore, non era neppur Vescovo. La protezione del Cardinale, qui accennata, tornò utile più tardi, nel 1777-78, per far rievocare le sanzioni inflitte dal Governo al povero Abate per aver senza autorizzazione pubblicato un libro all’estero. - E fu nel secondo, non nel primo colloquio con Federico II che avvenne il dialoghetto (cfr. Reina, fol. XIX) qui citato: così tutti i biografi, Denina compreso.

L’opera dedicata a Napoleone nel 1804 era: La clef des langues, ou observations sur l’origine et la formation des principales langues qu’on parle et qu’on écrit en Europe. Berlino, Magonza, 1804, 3 voll. in-8. Quella troncata dalla morte era il vol. IV della Biblioteca d’Autori e traduttori italiani. (Cfr. Corniani, cit., pag. 286).
(164) Biografia aggiunta in II edizione. - Il profilo del De Maistre rientra nel piano della Storia d’Italia perché suddito Savoiardo, cioè appartenente al Regno di Sardegna, di cui fu ambasciatore. (Cfr. Discorso introd., Cap. I). I Francesi lo ascrivono alla propria letteratura.

Don Bosco ebbe stretti vincoli di amicizia e gratitudine colla famiglia De Maistre, di cui il Conte Rodolfo, Cavaliere dell’Annunziata, figlio del grande Giuseppe, fu da Lui assistito all’estremo momento. (Cfr. Mem. Biogr., vol. VIII, pag. 298: 5 febbr. 1866). Noi conosciamo perciò quale possa essere stata la fonte delle notizie qui inserite: tanto più che appunto il Conte Rodolfo aveva pubblicato nel 1851 le Lettere ed opuscoli inediti del padre, corredandoli d’un cenno biografico, che ha servito di guida e modello al nostro A.


(165) È il capito XXVIII della I ediz. qui trasportato per la ragione esposta a n. 163. - Caso singolare: questo capitolo fu ritoccato da mano inesperta nella V edizione: noi restituiamo il testo genuino della prima. È un capitolo alquanto laborioso per il nostro Autore, come del resto la maggior parte di questi profili.

La materia biografica e i tratti riportati derivano dalle seguenti opere: Della vita di Antonio Canova, libri quattro, compilati da MELCHIOR MISSIRINI. Prato, 1824.

PIER ALESSANDRO PARAVIA, Notizie intorno alla vita di Antonio Canova, giunto vi il catalogo cronologico di tutte le sue opere. Venezia, Orlandelli, 1822 (opusc. di pag. 1-62, agg. il Catalogo).

QUATREMÈRE DE QUINCY, Canova et ses ouvrages, ou mémoire historique sur la vie et les travaux de ce célèbre artiste. Paris, 1834, in-4.

ARTAUD DE MONTOR, Storia del Papa Pio VII, etc., 3a ediz. ital., Lucca, 1837-38, vol. I-II.

Le conversazioni avute dal Canova con Napoleone, mentre lavorava, formano un Diario originale dettato da lui volta per volta al fratellastro ab. Gio. Batt. Sartori-Canova: si leggono ora falsate, ora mutilate dal Missirini, che le dice trovate «in alcuni palimpsesti (sic!) che sono come deposito nelle mani del fratello». Dal Missirini le copiò il D’Este. Oppure tornano romanzate dal Quatremère, amico personale di Canova.

Il nostro A. teneva sott’occhio il Missirini (517 pagine) in modo che ad ogni punto risponde un capitolo di quello: ciò è dimostrato dal ricorso delle frasi. Ma ebbe pure presenti le altre fonti, sulle quali ricompose o completò il racconto.

L’inizio del capitolo è mutato dalla II ediz. in poi. La prima diceva: «Sospendo alquanto i racconti delle guerre sanguinose (quelle del periodo Napoleonico) per trattenermi a farvi conoscere un celebre scultore, chiamato Antonio Canova, che possiamo chiamare il ristoratore della scoltura antica in mezzo ai lunghi disastri politici di questo tempo».

La II edizione ha ritoccato e inserito qualche cosa qua e là, specialmente nel primo capoverso, ed è rimasta poi sempre inalterata (salvo i lezii di lingua introdotti nell’VIII edizione). L’aneddoto del leone di burro è della II edizione.

Dal Paravia, pag. 7, 10, 12, le notizie dei primi lavori e della venuta a Roma.

Dal Missirini (lib. I, cap. VII, pag. 74-75) le notizie sugli studi letterari. Dall’Artaud, vol. I, le notizie del 1798.

Dal Missirini (lib. II, cap. IlI, 168) Il primo dialogo con Napoleone. Ma la fonte lo dà in forma narrativa e più verbosamente; le frasi però sono quelle: «Io ristorerò (non: visiterò) Roma: amo il bene dell’umanità e quello voglio: qual bene abbisogna a Voi? - Nulla, soggiunge lo scultore; altro che ubbidire gli ordini vostri. - Farete la mia statua». Notisi che il fatto avvenne ai tempi del Consolato (1803), quindi niente: Maestà. - Il Quatremère riduce a dialogo vivo, ma con altra dicitura e collocazione (cfr. Parte V, pag. 196-198).

Dal lib. II, cap. VI, del Missirini: «Alcuni particolari della vita del Canova» provengono alcuni spunti aneddotici. La nomina a Senatore dell’Impero (1° agosto 1809) con le parole a senso (pag. 202). - Da Lib. IlI, cap. II: Dialoghi di Canova con Napoleone (pag. 243-261), a pag. 256, il famoso dialogo dell’italianità di Napoleone: meglio riferito dal Quatremère (Parte V, 199). - Da pag. 259 le parole (5 nov. 1810) di Napoleone pensieroso, che provengono da un manoscritto di Canova.

Il Canova a Roma dopo la caduta di Napoleone, dal cito autore, lib. IV, cap. III, pag. 402 e seg.: la nomina a Principe perpetuo dell’Accad. di S. Luca (1816) e il titolo di Marchese colla pensione di 3000 scudi; le beneficenze, 407-8; gli onori di Verona e di Padova, 427. - Da Lib. IV, cap. IV, pag. 429 e seg.: Il Tempio. - Ibid., cap. VIII: Morte del Canova.

Le ultime parole provengono dall’elogio di P. A. Paravia (cit. da Missirini, loc. cit., 443): elogio che si chiude così: «Mezza ora innanzi di morire quella sua languida fisionomia si ravvivò tutta e si compose ad una santa letizia, che ben mostrava come quell’anima pura e bella era a quel momento in colloquio con Dio a cui si andava a congiungere per sempre». - Don Bosco ne ha fatto uso altrimenti. - Le vere ultime parole raccolte da un testimonio auricolare, furono: «Oh Signore! voi mi avete dato il bene che ho avuto in questo mondo, e voi mel ritogliete: sia in eterno benedetto il vostro nome!» (13 ott. 1822, ore 7,43 matt.).

Il ritratto fisico e morale da Missirini, lib. IV, cap. X, 452 e seg. - L’enumerazione dei lavori e premi, dalla Tabella, pag. 516.

(*) La lunghezza e minuziosità di questa nota 165 è voluta allo scopo di far sentire come lavorava Don Bosco quando poteva ed aveva i sussidi opportuni. L’abbiam visto anche altrove (cfr. note 155, 156, 157 e seg.). Questa Vita del Canova è del 1855: dopo il 1859 (seconda edizione preparata da Lui) non poté più: l’ultimo sforzo fu per l’edizione VIII, del 1873.
(166) Fonti della materia: G. Manuzzi, Vita e Opere del P. Ant. Cesari, pubblicata in Antologia del Vieusseux, ano 1829, e riprodotta nel 1834 in capo all’ediz. torinese del Fiore di Storia Ecclesiastica di A. Cesari (cfr. Bibliogr.), e probabilmente anche: Breve compendio della vita di A. C., in Novelle di Ant. Cesari, ed. Venezia, 1857.

Le opinioni sulla lingua non sono quelle che seguiamo ora noi. Ma Don Bosco, che non è un purista né un classicheggiante, s’attiene ai libri e alla scuola del tempo suo (che, fraintesa, sopravvisse a lungo, perfino a danno delle sue edizioni), quando la scuola manzoniana non aveva ancor trionfato, e l’ideale della buona lingua (ch’era tutta la letteratura!) era nell’aureo trecento. È appunto in questo il valore e l’efficacia del buon Padre Cesari.

Del quale il nostro A. non omette di porre in luce (come fa sempre) le virtù personali, lo zelo sacerdotale, e, cosa più attraente per Lui, la cura che ebbe, da buon Filippino, dei fanciulli poveri e della gioventù nei giorni festivi. Sembra quasi descrivere nel Cesari un po’ di se stesso.

La II edizione, per la quale fu creato il capitolo, ha qualche divario verbale dalla V ediz., ed aveva dimenticate Le bellezze di Dante.


(167) Le notizie sul Monti, il poeta prediletto alla generazione tra cui scrisse il nostro A. e a Lui carissimo sopra ogni altro, fanno parte d’ogni storia della Letteratura condotta fino alla metà del sec. XIX. Qualche cosa dal Carcano, Discorso premesso alle opere di V. M., Firenze, Le Monnier, 1847. Né si è lontani dal vero, pensando che qualche particolarità delle buone doti del Poeta sia pervenuta a Don Bosco dalle conversazioni avute anni prima col Pellico, sempre disposto a veder negli uomini più i lati buoni che i riprovevoli. - Ma qui l’A. s’è impegnato a fare un capitolo attraente pei giovani, che, inspirando simpatia per il poeta e la sua poesia, riconfermasse in loro i sentimenti di devozione al Papato e d’amore alla Patria: insieme ha voluto mettere in mostra le buone doti personali, che generalmente i letterati trascurano nel presentare un autore. Come di tutti i grandi ch’Egli tratteggia, Don Bosco vuol sempre che si veda l’uomo; e l’idea è tutt’altro che piccina e superflua. Certamente, e purtroppo, l’uomo nel Monti non fu soltanto quello; ma non era dello scopo educativo del nostro A. toccare di quell’altro, di cui appena si sospetta l’esistenza per il fugace accenno alla sua resipiscenza, in fine del lungo capitolo.

Questo, già di per sé meno semplice del solito, era stato devastato dai curatori dell’VIII edizione. I quali invece non han toccato quell’abituro che mal s’accorda con la «casetta di semplice eleganza» dove nacque il Monti.


(168) Una lettera del Cardo Ottone Viale, arciv. di Bologna, in data 12 febbr. 1859 (riferita in Mem. Biogr., VI, 151) c’informa che l’Em.mo aveva spedito a Don Bosco una biografia del Mezzofanti: di che il nostro Autore lo ringraziava poi con la lettera 15 luglio sopra citata (nota 162) inviandogli in omaggio la sua Storia d’Italia di nuova edizione. La biografia non nominata nella lettera del Cardo Viale dev’essere quella di A. MANAVIT, Esquisse historique sur le Card. Joseph Mezzofanti. Paris, 1854, in-8. Alla detta lettera il Cardinale univa il programma d’un lavoro che doveva uscir tra breve «degno dell’attenzione di tutti i dotti». È precisamente l’ediz. italiana, stampata in Bologna, Tip. Monti del Sole, 1859-60, dell’opera fondamentale: WILL. RUSSELL, Life of the Cardinal Mezzojanti with comparative memoirs of other eminents linguists ancients and moderns. London, 1857, in-8 (trad.. Malvasia­Tortorelli e D. Aless. Fantelli). Non pare che il nostro A. sia giunto in tempo a valersene: ché non avrebbe così portati a oltre trecento i linguaggi che il poliglotta conosceva, parlava e scriveva. Il Russell con una diligente disamina (cfr. cap. XVII) ne stabilisce 110. Altre biografie (meno accurate) gliene attribuiscono,chi 58, chi 78 (avverti che il Grand Larousse ricopia tale e quale la biogr. del vol. VIII, pag. 83-85 dell’opera del Corniani- Ugoni- Ticozzi, diretta dal Predari, Torino, 1856) (Appendice). La biografia del Mezzofanti, tracciata dal cav. Giuseppe Stolz, era un articolo della Gazzetta di Roma del 15 febbr. 1849, uscito subito dopo la morte: non può essere la biografia spedita dal Card. Viale a Don Bosco.

Altra fonte è la Civiltà Cattolica, anno Il, vol. VII, n. 41, dicembre 1851, citata dall’Autore, e riportata anche da Rohrbacher, tomo XV, 1853 (franc.). La seconda parte del capitolo, e specialmente le parole del Mezzofanti sono attinte da questo periodico.

Su questo capitolo, come già sui biografici precedenti, ma più assai, si era addirittura scatenata la mania delle eleganze da parte di un restauratore dell’VIII ediz. - Un esempio: Gregorio XVI non «soleva recarsi a passeggio» ma «recarsi a diletto in quegli ombrosi meandri».
(169) Don Bosco ebbe col Pellico non solo relazioni d’ufficio per la temporanea dipendenza da Casa Barolo, ma un’amicizia fondata sulla reciproca altissima stima. Il Pellico lo favori di qualche sua poesia (due sono inserite nel Giovane Provveduto, una è pubblicata in appendice alla vita di S. Giustino nelle Letture Cattoliche, settembre 1857) e gli fu largo di consigli letterari, se non anche ne rivide qualche pagina.

A cinque anni appena dalla morte del Pellico Don Bosco scrisse questo caro bozzetto biografico, improntato d’una simpatia, in cui si rivela l’affetto e quasi la venerazione ch’Egli aveva per quell’Uomo. Il Pellico, quale il Nostro lo conobbe, fu, oltrechè una figura di bontà, il modello del cristiano convinto e pio, la cui vita s’avvalora della superiorità dell’ingegno e dell’eccellenza delle opere. E tale lo raffigura, nella sua breve biografia che fu poi premessa a tutte le edizione Salesiane delle Mie Prigioni e dei Doveri degli uomini. Anzi volle che la sua Libreria Editrice ripubblicasse la maggior parte delle altre opere, e, finché fu libera nelle scuole la scelta dei testi letterarii, sempre fece assegnare a qualche classe la lettura del Pellico. Ed è noto che l’Editrice Salesiana poté pubblicare due volumi di Lettere inedite, italiane e francesi (a cura di D. Celestino Durando), lettere delle quali erano stati donati a Don Bosco gli autografi:

In questa biografia, alquanto più lunga delle altre, molto poté dire l’A. per sua propria conoscenza, tanto più che poteva e doveva valersi delle Mie Prigioni: ma per le altre notizie si giovò specialmente dell’opera d’un amico carissimo del Pellico, Giorgio Briano, Della vita e delle opere di S. P., Torino, 1854: opera uscita pochi mesi dopo la morte del celebre scrittore e patriota.

Chi voglia farsi un’idea della vita vissuta e dello spirito del Pellico durante gli anni in cui poté conoscerlo Don Bosco, legga l’opera citata altrove di BARBARA ALLASON, La Vita di Silvio Pellico, Verona, Mondadori, 1933. Ivi, pag. 415, si discorre anche delle relazioni tra i due Grandi.


(170) Breve e succoso cenno biografico, inserito coraggiosamente a quattro anni di distanza dalla morte del così discusso e combattuto Roveretano. Di molti uomini, importanti assai meno e talvolta ben poco, si scrissero memorie intestate: X. Y e i suoi tempi. Per il Rosmini e per il valore morale del gesto di Don Bosco, bisogna capire «i suoi tempi» ed ancora il 1859. Tra due scogli egualmente pericolosi, il Nostro passa sicuro della sua sincerità e della verità di quel che dice, ma prudente e oculato a non urtare in alcuna direzione.

Le relazioni personali che l’A. ebbe col Rosmini, e le benemerenze che questi ebbe verso l’Oratorio di Don Bosco, sono conosciute da ognuno, dopo quanto n’è detto nelle Mem. Biogr. (vol. III e IV) del Lemoyne: ciò che i libri non dicono è la venerazione che il Nostro ebbe per la virtù del santo sacerdote, e la giusta percezione (anche se non ne accolse e caldeggiò il sistema) del significato che aveva il suo tentativo di costruire un sistema di filosofia moderna integralmente cristiana. E non senza intenzione sottolinea «quell’uno che stringe insieme la ragione e la fede»: così come ricorda gl’incoraggiamenti, anzi l’impulso che a consacrarsi alla filosofia gli diede Papa Pio VIII, e l’amicizia con Gregorio XVI.

E per intenti educativi, ma fors’anche ad ogni buon fine, ricorda la pronta e sincera sottomissione alla condanna di qualche suo opuscolo (le edizioni prime dicevano alcune (opere), che l’VIII ediz. corresse giustamente in alcuna: due in tutto) che noi sappiamo essere: La costituzione secondo la giustizia sociale, Milano e Lugano, 1848; e Delle cinque piaghe della Chiesa, Lugano, 1848.

Per le notizie l’A. si è valso dei Cenni biografici di Antonio Rosmini, onori funebri e testimonianze rese alla sua memoria, raccolte da Sacerdoti dell’Istituto della Carità di Stresa. Milano, 1855. Di qui derivano, talora con aderenza strettissima, le notizie sulla giovinezza e sulle doti del Rosmini (pag. 5); sulla vocazione ecclesiastica e primi studi (pag. 6); l’andata a Roma e l’incontro col Cappellari e con Pio VIII (pag. 7); l’aneddoto dell’opuscolo anonimo lodato da Pio VIII (pag. 16), che era: Esame delle opinioni di Melchiorre Gioia a favore della moda; le esortazioni di Pio VIII, la condanna dei suoi opuscoli e la sua sottomissione (pag. 31) e le notizie susseguenti.

I nessi e i concetti sono originali, e son quelli che contano.

(*) Con questo capitolo terminano le edizioni anteriori al 1873; i quattro seguenti furono aggiunti per la VIII edizione, che restò definitiva.


(171) Il Vecchio Piemonte, così sentito da Don Bosco, ritorna ancora una volta a (, mostrar la sua nobilitate». - Tre capitoli intesi a ricordare tre ingegni eccellenti che illustrarono l’Università di Torino.

L’A. dice senz’altro in nota donde abbia tratta la materia del presente capitolo: l’opera del Vallauri (Torino, Paravia, 1845-46) è ancora consultata al presente.

Così le notizie sul Boucheron provengono dalla Commemorazione fattane dal medesimo Vallauri (anno 1838).

Le strette relazioni del quale con Don Bosco (nella cui Casa Editrice pubblicò buon numero dei suoi lavori) ci fanno pensare che sia stato il valente latinista a suggerire al nostro A. d’inserire questi tre capitoli.

Ma Don Bosco non ha steso di sua mano queste pagine: lo stile e la condotta del discorso, come l’indole delle notizie, mostrano ch’Egli dev’essersi limitato a darne l’incarico e l’idea a qualcuno dei suoi, naturalmente rivedendo e ritoccando l’abbozzo. Qui, per esempio, deve aver rifuso come a modello, l’inizio del capitolo (cfr. per un saggio, l’inedito VII e il suo facsimile). Così aveva fatto per alcuni tratti nuovi della Storia Ecclesiastica nell’ediz. del 1870.
(172) Questo capitolo, anche più del precedente, si rivela opera d’altra mano. La fonte è quella, ivi citata, di JACOPO BERNARDI (cfr. Bibliografia), al quale forse è dovuta anche la stesura. Certamente il Nostro aveva segnati i punti da mettere in rilievo pei suoi fini educativi, escludendo i particolari politici dell’esule dalmata. Il Bernardi, amico di Don Bosco, pubblicò poi nel 1877, nella Bibl. della Giov. Italiana, un primo volume di Lettere di P. A. Paravia (238 lettere, dal 1826 al 1840), promettendone un secondo, che poi non venne. - Intorno al Paravia, al suo Epistolario (conservato in gran parte a Zara) e alle opere qui ricordate, come intorno all’amico di lui, ab. Jacopo Bernardi (altro esule veneto, divenuto poi Vicario Gen. della Diocesi di Pinerolo, ove lo conobbe Don Bosco), vedasi l’accuratissimo studio di VITTORIO CIAN, altrove citato: importantissimo per chi vuoi conoscere davvicino la vita e le idee del periodo, nel quale Don Bosco, che toccava i 40 anni nel 1855, venne formando la sua coltura e dettò la Storia d’Italia.
(173) Del buon Amedeo Peyron forse il nostro A. avrebbe discorso ugualmente, anche se non avesse ricordato gli altri illustri dell’Ateneo torinese. Egli era legato al grande filologo di molta gratitudine e confidenza, come a quello che mai non gli aveva mancato di consigli e d’aiuti per l’opera sua di scrittore.

In questa stessa Storia d’Italia non poche cose son dovute ai suggerimenti dell’ottimo abate, che lesse e rivide tutta l’opera sulle bozze (cfr. Mem. Biogr., V, 496). Ce lo attesta D. Michele Rua, il più antico discepolo di Don Bosco e suo successore, in una Circolare ai Salesiani, 27 dico 1889 (Torino, Sales., 1896, estracomm.), pag. 36-37: «Don Bosco raccontava d’una conversazione che ebbe col meritamente celebre professore Amedeo Peyron. Gli aveva portato le bozze di stampa della Storia d’Italia pregandolo a voler leggere, correggere liberamente, e dare il suo giudizio su quel lavoro. Tra le altre biografie degli uomini illustri aveva pur messa quella di Vittorio Alfieri. Il Peyron disse a Don Bosco: «E perché in un libro destinato alla gioventù mette la biografia dell’Alfieri, che di costumi era si guasto e d’idee così perniciose? Tolga questa biografia: l’Alfieri meglio sarebbe se non fosse conosciuto. Se lei lo nomina e, peggio, ne tesse le lodi, nei giovani si desterà la curiosità di andare a comprare e leggere le opere con danno grande della loro fede e dei loro costumi. La tolga». E Don Bosco così fece.

Le Mem. Biogr., vol. IV, 651-52, ricordano l’ab. Peyron nel 1853 come uno dei promotori della stampa cattolica; benché in un primo tempo non avesse ancor compresa la necessità di darvi un carattere così popolare (cfr. pag. 652, le rimostranze del P. per la lingua delle Letture Cattoliche, e l’esempio di umiltà dato allora da Don Bosco). Il suo nome ricorre anche altrove (vol. VIII, 155, 252) in circostanze particolari.

Fonte principale delle notizie qui esposte è la Commemorazione del prof. A. Peyron tenuta 1’8 maggio 1870 all’Accademia delle Scienze di Torino dal Conte Federigo Sclopis (cfr. Bibliografia). - Ma anche da Unità Cattolica, 1870, n. 99, 27 aprile. La stesura del capitolo è d’altra mano.


(174) Il capitolo forse non fu steso tutto dall’Autore, ma certamente ispirato e in parte completato da Lui.

La storia della conversione, attribuita quasi soltanto alle conferenze del Somis, ha omesso il famoso e drammatico: Ma io ci credo, opposto risolutamente alle invettive lanciate contro la Religione cattolica, dal che si sarebbe mosso l’animo del Manzoni a ricercare bramosamente la verità.

Sarebbe vano indagar le fonti delle notizie, se si pensa a quanto s’era già scritto intorno al Manzoni durante la vita di Lui e subito dopo la morte: tanto da render possibile già nel 1875 una Bibliografia Manzoniana di A. Vismara. La prima biografia fu scritta da Angelo De Gubernatis, vivente ancora il Manzoni, nel 1872, e di quella si valsero tutti come addentellato ad opere maggiori dopo la morte di Lui. Così uscirono fin dal 1873 le vite del Carcano, Venosta, Bersezio. Ma poiché il profilo biografico presente si trova già nella ediz. del 1873 (ediz. VIII) come ultimo capitolo, dobbiamo arguire che non da queste, ma da quella prima può aver attinto il nostro Autore. L’Unità Cattolica del 24 maggio si limita a riportare dalla Perseveranza di Milano i pochi cenni sulle ultime ore del Manzoni. Quanto alle opinioni di Don Bosco intorno ai Promessi Sposi e all’Autore, cfr. POSTILLA C in fine delle Note.

Del fatto letterario il Nostro non si occupa (punto scabroso ancora a quel tempo, coi puristi e i classicheggianti della vecchia scuola), e non ricorda, che sarebbe pure un ‘bell’esempio per i giovani, il lavoro çii correzione del Romanzo, che apparve nel 1842 tutto rinnovato dopo dodici anni di studio. Proprio il contrario di quel che accadde al nostro Autore, il quale scriveva, senza forse saperlo, come il Manzoni voleva che si scrivesse, ed ebbe appunto nel ‘73, da mani non sue, rifatta la veste nel senso inverso a quello della correzione manzoniana!

Per l’esattezza si noti che i Promessi Sposi non uscirono nel 1826, ma, stampato il I vol. nel 1825, il II nel ‘26, il III nel ‘27, fu allora pubblicato il romanzo intero.
(175) L’inizio del capitolo fu variato nella II ediz. per allogarvi la serie dei «sommi personaggi» di cui avrebbe dovuto e voluto parlare, e non parla: questa rassegna viene naturalmente modificata, quando l’Autore (ediz. VIII) inserisce la biografia di Bartoli e Segneri. E allora restano soltanto nomi d’illustri subalpini.

Ed Egli dice: «Ma di costoro credo che saranno in breve stampati libri a parte». Il che può indicare un’intenzione. Nell’ediz. VIII si scrisse: «Ma di costoro sono stampati libri a parte». Variante che non dice nulla, e certo non sua. Anche del resto della storia e degli altri personaggi sono stampati libri a parte!

Per tutte le altre varianti di puro vezzo abbiamo restituito il testo primitivo: anche dove il «niuno può sperare di salvarsi» era stato messo in luogo del più assoluto «niuno può salvarsi». Don Bosco in tutti i suoi scritti si tenne sempre fermo al principio di S. Cipriano e della Chiesa: Extra Ecclesiam nulla salus (Cypr., Ep. 73, 21).

Ci sia lecito, in quest’ultima nota al testo della Storia, di uscire per poco dal carattere redazionale delle nostre note, per richiamar l’attenzione sullo spirito dei ricordi che formano la sostanza di questa conclusione. Essa non deve apparire una considerazione di più, aggiunta alle molte sparse nel libro; no: essa è veramente la conclusione di tutte, formulando i principii morali, ai quali è informata la condotta del libro, e il senso genuinamente cristiano della Storia, di cui l’Autore ha compenetrato il suo lavoro in ogni parte. Morale della storia e religiosità della visione storica, nel senso più genuino e più vero, ch’è la fede della Chiesa Cattolica.

Il Santo, che per un momento è sembrato occuparsi di materie non espressamente religiose per educare cristianamente con la Storia, qui si rivela chiaramente nella sua suprema intenzione di procurare la salvezza delle anime conducendole alla Chiesa, a Gesù Cristo.
(176) L’indole dei fatti accaduti dopo il 1859, e le difficoltà politiche dei primi anni susseguenti al 1870, hanno indotto l’Autore a soddisfare alle esigenze scolastiche col redigere, invece d’un racconto, un semplice Sommario cronologico dall’armistizio di Villafranca alla morte di Napoleone III, limitandosi alla sola rassegna dei fatti, senza commento di sorta, neppure sottinteso, e ricordandovi perfino certi fatti puramente religiosi, come del resto avviene anche nel corso del libro.

L’accurato sommario non si restringe agli avvenimenti della sola Italia, ma abbraccia, e non poteva essere altrimenti, quelli del resto d’Europa, della Francia soprattutto, che dappresso o da lontano potevano influire su quelli. Ne nascono dei significativi accostamenti e degli eloquenti sincronismi. così è per Napoleone III il richiamo delle truppe da Roma, quando ogni fase del loro ritiro è corrisposta, giorno a giorno, da una sconfitta, fino a quella di Sédan. Lo stesso rilevare il numero dei Vescovi che in tempi così avversi convengono a Roma, e il sorgere del movimento cattolico in sostegno della Santa Sede e per la difesa della Religione e l’affermazione d’un culto, hanno un significato non secondario.

Non chiara invece appare l’omissione dell’apertura e sospensione del Concilio Vaticano (8 dic. 1869-18 luglio 1870), e quella della morte del Manzoni (22 maggio 1873) che s’era in tempo a ricordare, se si poté inserire con questa data la biografia nell’edizione del 1873, e il Sommario cronologico fu aggiunto al libro (non sappiamo perché) solo nell’edizione del 1874. Ma forse non si volle uscire dai confini dei fatti pubblici e decisivi, limitandosi all’abdicazione di Re Amedeo (11 gennaio).
(177) Cfr. Goldsmith-Schiaparelli, Torino, Marietti, 1851, pag.3-10: Prospetto Geografico, aggiunto da L. Schiaparelli. - Il nostro A. lo segue fedelmente nell’ordine e nelle notizie, variando alquanto la dicitura. Tutti i nomi sono sempre nello stesso ordine che si legge nel modello.

Questa trattazione formava nella I ediz. (pag. 527-28) un capitoletto di men che due pagine in carattere normale, mentre una piccola parte della materia era già stata accolta nel primo capitolo della Storia Romana. Questo primo capitolo s’è conservato, con qualche lieve ritocco, in tutte le edizioni (cfr. sopra, n. 10).

Invece il capitoletto finale divenne, nella II ediz., il cap. XIV (pag. 497­501) del Sunto di Storia Antica che comparve in quella sola edizione (cfr. infra, Appendice), ma ampliato, o meglio, rifatto sulla falsariga dello Schiaparelli; e dalla III ediz. in poi fece parte a sé, come ultima appendice.

Naturalmente, dopo il 1859-61 bisognò aggiornare qualche dato (lo fece pure lo Schiaparelli, e del resto tutti i libri di simili materie). Così nel § 9 (prima era 9-10) la corrispondenza della Transpadana (§ 10 della II ediz.) col Regno Lombardo-Veneto; nel § 14 (Etruria) la corrispondenza al «presente Gran ducato di Toscana» (in III-IV ediz. soppresso soltanto il «presente»; nei § 16 e 19 la collocazione «nel Regno di Napoli» mutata «nel Napolitano».

Unico rimaneggiamento la fusione dei due primitivi §§ 9-10 in uno (§ 9), eliminando la distinzione tra Gallia Subalpina (Piemonte) e Gallia Transpadana, e correggendo l’errore dei limiti: la subalpina («al piè delle Alpi, onde viene pure il nome di Piemonte») era tra le Alpi, il lago di Corno, il Ticino, e il Po: la Transpadana tra Ticino, lago di Corno, Alpi, Adriatico e Po. C’era da correggere.
(178) Come nelle Storie precedenti (Storia Sacra ed Ecclesiastica), l’A. ha voluto corredare la Storia d’Italia d’un dizionari etto geografico-comparativo. La I ediz. lo intitolava: Nomi antichi confrontati coi nomi moderni e reciprocamente: così rimase fino all’ediz. definitiva (1873-74).

Ma dalla II ediz. in poi il titolo non corrispondeva più esattamente al contenuto, essendosi il dizionarietto accresciuto di 108 nomi non più antichi, ma inclusi nel corso della Storia; qualche nome fu aggiunto nella V ediz., e nell’ediz. VIII vi se n’aggiunsero altri 337 (totale 869); in modo che ogni nome geografico ricorrente nel testo trovasse ivi la sua spiegazione, e nella ediz. X (leggi IX, 1874) si modificò l’intestazione.

Ai dizionarietti della I-II edizione attese l’A. stesso, valendosi dei Dizionarii Geografici in voga, come quelli del Marmocchi e del Carta (in qualche punto senza aggiornare l’indicazione politica): a quello dell’VIII non attese l’A., e l’incaricato senza correggere le inesattezze, aggiunse, tra l’altro, (non si vede perché), numerose voci non pertinenti al testo. L’ediz. X (= IX) del 1874 non aggiunse nulla, ma - approfittando forse della necessità di rifare in questa parte la stereotipia - ritoccò la dicitura di 32 voci (di tre o quattro anche la notizia). Ma bisogna dire che anche nel 1873-74 si siano valsi ancora dei Dizionari usati dall’ Autore, o, ad ogni modo, sorpassati dai fatti e dai libri sopravvenuti. E Roma non è ancora capitale d’Italia.

Anche qui, e più che altrove, han dovuto farsi gli aggiornamenti imposti dalla nuova carta politica d’Italia. - La III ediz. (1861) fa Milano capitale della Lombardia (non più del Regno Lomb. Veneto); ma conserva Parma, capitale del Ducato di Parma, e Napoli, capitale del così detto Regno delle Due Sicilie. - La IV ediz. (1863) non muta nulla, sia trascuranza, sia attesa di riconoscimenti sicuri.

La V ediz. (1866) dice Firenze, città principale della Toscana (non più capitale); Milano, città notissima della Lombardia (sopprimendo dalla IV ediz. l’aggiunto di capitale della Lombardia); Napoli, una delle più antiche e belle città del mondo, nell’Italia meridionale; Parma, antica e bella città d’Italia; Modena, antica città d’Italia (non più capitale del Modenese); Torino, capitale del Piemonte, diventa (ahimè!) una delle più antiche e belle città d’Italia (la capitale era andata a Firenze).

Solo Venezia rimane capitale del Veneto. Segno che l’edizione usci prima dell’ottobre 1866.

La nostra edizione dà il Dizionarietto come lo ha trovato in VIII-IX. edizione, senza correggerlo né ammodernarlo, che sarebbe farne un altro.

POSTILLA B


LA QUESTIONE GALILEIANA (Epoca Quarta, cap. XVIII).
Sul capitolo intorno a Galileo c’è un’accusa contro Don Bosco, proveniente da un libro ben noto agli studiosi, il cui autore (uomo dotto, del resto) fu chierico salesiano fin quasi al termine dei corsi teologici (ed io, che scrivo, convissi con lui nel 1884-85). Cito GIUSEPPE MORANDO, Esame critico delle XL proposizioni Rosminiane condannate dalla S. R. Inquisizione. Milano, Cogliati, 1905, in-8 gr., di pag. I-CXL e 1-994.

Il Morando deplora (pag. LXXIV-V) che, nonostante la dimostrazione ormai accolta dalla maggior parte degli studiosi, anche cattolici, dell’essere l’Inquisizione caduta in errore nel fatto di Galileo, tuttavia «non manchino coloro che con qualche sotterfugio vogliono ancora ingannare gl’ingenui»; e su questo rileva nella lunghissima nota (2) che «tra questi ingenui vi sono anche dei Santi», e mette in primo piano Don Bosco (l’altro è il P. Faà di Bruno), il quale Don Bosco «nella sua Storia d’Italia racconta il fatto di Galileo in modo tale da far arrossire il viso d’un cristiano veramente amante della verità». E cita il passo: « Desideroso... etc.» (nell’ediz. stereot. citata, pag. 384; in I ediz. pag. 422), ricordando che prima dice che «Galileo voleva cangiare in verità di fede la sua opinione» (veramente il voleva ce lo mette il M.), e riporta l’enunciato delle domande di Galileo e la sentenza che il sistema di Copernico non può definirsi conforme alla Bibbia. Dopo questo il M. esclama: «Non è meraviglia se poco prima attribuisce al Galileo un’indole bizzarra» e infine s’inalbera perché Don Bosco conclude con dire ai giovani lettori: «Voi ritenete che chi vi dice diversamente da quanto v’ho raccontato, non espone la verità». «La verità, conclude il M., non può qui che coprirsi il volto!».

Ancora a pag. 947 ricorda la sua Nota, soggiungendo che: «però è lungi dal nostro pensiero attribuire l’ignoranza crassa o la malizia sottile qui accennata, giacché non furono (Don Bosco e P. Faà di Bruno) con altri molti che ingenue ed innocenti vittime».

Il Morando ha torto.

Non solo Don Bosco non fa la figura d’un ingenuo, ingannato da ostinati difensori della S. R. Inquisizione: ma Esso si fonda su fonti anteriori d’assai alle correnti supposte dal M., e, per converso, concorda con la critica più recente.

Egli parte dal BERGIER, il più celebre degli apologisti francesi del Settecento (+1790). Il quale pubblicava nel 1769 la sua Apologie de la réligion chrétienne contro il Cristianesimo svelato del barone di Holbach; e nel 1788 il Dictionnaire Théologique, etc., extrait de l’Encyclopédie Méthodique: ristampato a Liegi, 1789; a Tolosa, 1819 e 1823 e ancora a Besançon, 1826 e 1830. La più diffusa è l’edizione di Tolosa, 1823.

È un’opera rimasta fondamentale. Infatti il Dictionnaire d’apologie catholique (1863) che occupa i tomi 104-105 della Nouvelle Encycl. théologique del Migne, nell’art.: Fanatisme, § II, rimanda al Bergier, art. Monde e Sciences humaines, e al Mercure de France, 17 luglio 1784, n. 29. - Ciò conferma ancora all’art. Cosmogonie, § III, n. 637. - Il Migne ha fatto di più: egli ripubblicava nei voli. 33-35 (1-2) della sua Enciclopedia, l’opera del Bergier, col titolo: Dictionnaire de théologie dogmatique, liturg., canon., dìsciplinaire, par Bergier. Nouvelle édition avec annotations et articles de M. Pierrot (1858-59).

Dal Bergier adunque, caro sopra ogni altro a Don Bosco in tali materie, derivano le pagine della Storia su Galileo: le espressioni, il senso, anzi l’ordine delle idee e dei fatti, coincidono col nostro libro. Sono i due articoli citati nella nostra nota (140): nell’ediz. di Tolosa, 1823, tomo V, pag. 420-21, art. Monde; tomo VII, pag. 369-70: Sciences humaines, che ripete con pochissimo divario il precedente. L’uno e l’altro articolo si valgono dei dati dell’articolo di MALLET DU PAN (ginevrino non sospetto di tenerezze cattoliche) pubblicato in Mercure de France, 17 juillet 1784, n. 29: il quale (riporto dal Bergier) in «una dissertazione prova colle lettere di Galileo stesso e quelle del Guicciardini e del March. Niccolini, ambasciatori di Firenze a Roma, amici e discepoli di Galileo, qu’il ne fut point persécuté comme bon astronome, mais comme mauvais théologien, pour s’etre obstiné à vouloir montrer que le systhème de Copernic était d’accord avec l’Écriture Sainte. Ses découvertes, dit l’Auteur, lui firent, à la vérité, des ennemis; mais c’est sa fureur d’argumentation sur la Bible qui lui donna des juges, et sa pétulance des chagrins». - Nel 1616, di fronte alle accuse formulategli contro dai Jacobins (i Domenicani) impuntati sulla filosofia d’Aristotile, e per giunta Inquisitori, il Cardo Del Monte e altri del S. Ufficio gli tracciarono le linee della prudenza per evitare le dispute: mais son ardeur et sa vanité l’emportèrent. - Guicciardini (dispaccio 4 marzo 1616) dice chiaramente ch’Egli pretese che il Papa e l’Inquisizione dichiarassero che il sistema di Copernico è fondato sulla Bibbia. E scrisse memorie su memorie. - Papa Paolo V, a lui amico, deferì il giudizio ad una Congregazione: la sentenza del 25 febbraio piacque a Lui stesso, e il Bellarmino lo consigliò, a nome della S. Sede, a non dare come tesi, ma solo come ipotesi astronomica il sistema, e a non inquietare la Scrittura in quei momenti che i Protestanti ne rinfacciavano ai Cattolici la poca cura, e dopochè il Conc. Tridentino aveva sentenziato che la Scrittura non può errare.

Nel 1632, sotto Papa Urbano VIII, Galileo pubblica, con una approvazione supposta, i suoi Dialoghi «Dei due massimi sistemi del mondo» insieme con le Memorie già scritte nel 1616, où il s’efforçait d’ériger en question de dogme la rotation du globe sur son axe. - E il March. Niccolini (5 setto 1632) scriveva (come traduce il Du Pan): «Si le Pape se pique, tout est perdu: il ne faut ni disputer, ni menacer, ni braver. C’est ce que Galilée n’avait cessé de faire». - Bene aveva scritto Guicciardini il 4 marzo 1616: «Galilée met un extrème emportement dans tout ceci: il fait plus de cas de son opinion que de celle de ses amis».

La sentenza è del 26 giugno 1633. E gli articoli citati mettono in chiaro quale fu il trattamento di Galileo, non solo nel 1616, ma soprattutto nel 1633 e dopo la sentenza; quali furono i suoi ospiti e i diciotto giorni alla Minerva, nell’appartamento dell’Avvocato Fiscale; e del come fu trattato allora e nel suo ritorno fino al soggiorno d’Arcetri testifica la notissima lettera al P. Receneri, di cui il passo citato in quegli articoli è riportato da Don Bosco, che questa e le altre citazioni d’italiani legge sulla traduzione francese o sulla retroversione italiana nel Bercastel. Lasciamo da parte gli spunti apologetici o polemici, che il Nostro riassume in un breve capoverso.

Il Bercastel, ed. cit., vol. XXIV, § 172 (pag. 159 e seg.) riproduce sostanzialmente l’articolo del Mercure de France: sembra che il Nostro se ne sia valso per qualche frase variata dall’originale Du Pan.

E il Balbo, Sommario, VII, § 20, rileva l’errore che perfino Paolo Sarpi rimproverava a Galileo, giacché pel primo «cangiò la questione fisica ed astronomica in teologica» e ammette ch’Egli «forse discusse con superbia».

La nostra esposizione riesce a questo: che tutto ciò di cui il Morando rimprovera Don Bosco viene dalle fonti citate (che, via, non mirano ad ingannare gl’ingenui con qualche sotterfugio), ed ha la sua prova nei documenti addotti da quelle: le date delle quali risalgono a più d’un secolo prima dell’ancòra gettato là dal Morando.

Anche l’indole bizzarra (il Giannetto la dice focosa e proclive alla collera) risponde a: sa fureur d’argumenter, a: sa pétulance, a: son ardeur et sa vanité, a: son extrème emportement. - E c’è di più. Per non citare il GRISAR, Galileistudien, ricordiamo tra i più vicini a noi il P ASTOR. Egli nella Storia dei Papi, vol. XII, pag. 209-219 per i fatti del 1616, e vol. XIII (Roma, 1931), pag. 325-40, per le cose del 1632-33, chiarisce con storica esattezza la posizione di Galileo e l’operato della S. R. Inquisizione; e in fondo, salvo la questione scientifica vera e propria, Galileo non vi fa troppo migliore né diversa figura che in Don Bosco. E il Pastor adduce appunto le medesime testimonianze del Guicciardini e del Nicolini (cfr. specialmente XII, pag. 216).

Don Bosco adunque, con buona pace dello scandolezzato Morando, non è un ingenuo né una innocente vittima degl’inganni altrui; ma può veramente dire ai suoi lettori «che chi vi dice diversamente da quanto vi ho raccontato, non espone la verità». E ai suoi tempi doveva dirlo.

POSTILLA C


LA RISERVA SU DON ABBONDIO

(Epoca Quarta, cap. LII).


Dettato certamente personale è il passo della biografia del Manzoni in cui Don Bosco viene a «biasimare altamente» il ritratto di Don Abbondio e di suor Geltrude: di quello principalmente, per la brutta figura del parroco cattolico e per la «cattiva impressione nella mente e nel cuore del giovane» che avrà «imparato coll’amore ai genitori la venerazione al proprio parroco».

È un punto di non secondaria importanza, e qualcuno ne vorrebbe far addebito d’incomprensione a Don Bosco.

Lasciamo stare la malinconica circostanza che nel 1873 il Manzoni non era peranco accolto da tutti senza discussione, e i superstiti della vecchia scuola non lo proponevano a modello senza riserve. Don Bosco non ne fa una questione letteraria, ed apprezza, come appare da tutto il resto, il Manzoni per quello ch’è realmente.

Ma quel biasimo e quella riserva erano connaturati in Lui dal clima in cui visse la sua gioventù. Allora appunto, nel periodo Albertino anteriore al ‘48, i Promessi Sposi (libro stampato all’estero, cioè a Milano, allora soggetta all’Austria) erano dalla Regia Censura di S. M. Sarda «proibiti alla gioventù, perché tra le tante cose che meritavano censura, l’Autore aveva dato la parte del ridicolo nel suo romanzo ad un sacerdote, al reverendo Don Abbondio, al parroco d’un villaggio, che non è mai bastantemente stimato ». Cfr. L. Tettoni, Della vita e delle opere del Comm. Domenico Promis. Torino, Paravia, 1874, pag. 66.

Che in ciò potesse riflettersi l’ossequio alle idee governative di Milano, dove, tanto per un pretesto, nel Collegio Longoni si proibiva il Manzoni ai giovani nobili a causa del voto di Lucia, è assai probabile, chi ricordi la parte presa dall’austriaca Biblioteca Italiana contro il Conciliatore (dove Manzoni non collaborò, ma fu detto «il capo invisibile del sacro drappello»), e contro i romantici e il romanticismo, di cui il Manzoni figurava come il capo. E, quanto a Don Abbondio, più gravi parole aveva scritte, pur esaltando pel primo il grande lavoro, Paride Zaiotti trentino, fin dal 1828 nel suo noto Discorso sui Promessi Sposi.

Il fatto è che il giovane Don Bosco ebbe assorbito quell’idea e la conservò sempre, facendola sua nel modo che vediamo.

Che poi le figure di Don Abbondio e di Suor Geltrude dovessero realmente apparire come cosa men che da aspettarsi da parte d’uno scrittore cattolico, lo faceva ben sentire Angelo De Gubernatis: «Per quanto i cattolici abbiano desiderato di fame il loro proprio romanzo, nessuno avrebbe mai immaginato che dalle mani dell’Autore degl’Inni Sacri e delle Osservazioni sulla Morale Cattolica sarebbero usciti i tipi di Don Abbondio e della Signora di Monza». (Cfr. Angelo De Gubernatis, Alessandro Manzoni, studio biografico, Firenze, Le Monnier, 5 maggio 1879, pag. 216). Ed è lo stesso insigne critico che inculca di leggere i Promessi Sposi «con la guida costante d’un rationahile obsequium» (pag. 197).

Questa disapprovazione della caricatura di Don Abbondio era del resto un sentimento diffusissimo. Appunto nel gennaio 1873 (l’anno in cui morì il Manzoni) la figlia Vittoria divertiva il quasi nonagenario Genitore, scrivendogli dalla Toscana che la madre del Giorgini, sua suocera, protestava così: «Mettere in ridicolo, in Don Abbondio, un curato! Diglielo a tuo padre, che levi tutte quelle pagine, che dànno scandalo!».

Si noti che la riserva di Don Bosco si riferisce soltanto allo sfavore in cui cadono per quel fatto le persone religiose; ed è, nel caso suo, una riserva spiegabilissima, che nulla toglie nel suo concetto al merito del Manzoni come poeta e scrittore cattolico, e, nonostante le riserve della chiusa un po’ freddina del capitolo, anche come Uomo.


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