S giovanni bosco



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XVI.
Venezia liberata (138).

(Dall’anno 1616 all’anno 1618).

Ma niuna cosa fece temere maggiormente della sorte di Venezia, quanto il fatto che sono per raccontarvi. Il re di Spagna, il viceré di Napoli ed il governatore di Milano, gelosi della prosperità di quella repubblica, per mezzo dei loro ambasciatori ordinarono una trama veramente infernale.

Già da quel tempo, Come si costuma oggidì, ogni potenza teneva un ambasciatore presso a quegli Stati coi quali era in pace. Questi ambasciatori sono per ordinario scelti fra i personaggi più ragguardevoli d’ogni regno, si rendono loro tutti gli onori dovuti ai sovrani che rappresentano e la persona di essi è inviolabile e sacra, come quella del rispettivo re. A quell’epoca l’ambasciatore di Filippo III, re di Spagna, era il marchese di Bedmar, uomo scaltro e di perduta coscienza.

Il governatore di Milano ed il Viceré di Napoli si accordarono con questo Bedmar, per trovar modo di umiliare Venezia ed assoggettarla alla Spagna; e poiché quella repubblica possedeva gran numero di navi ed un’armata assai forte, Bedmar risolvette di eseguire il suo disegno senza che neppure il re di Spagna ne apparisse informato, usando mezzi tanto più segreti quanto più erano pericolosi.

Fra gli altri stranieri che per passatempo o per cagione di commercio si recavano sempre in gran numero a Venezia, v’era un vecchio capitano francese, chiamato Renault, il quale aveva fama d’uomo capace delle imprese più ardite e rischiose. Bedmar lo ebbe a sé un giorno e gli disse: «Vedo, Renault, la vita misera che tu meni, essere indegna d’un pari tuo. Tu avresti ricchezze ed onori, quando tu volessi secondarmi nei miei disegni». Quindi dopo larghe promesse ordì con lui una congiura, per abbattere il Senato di Venezia, dare in mano agli Spagnuoli la repubblica, il suo arsenale, le navi e tutte le dovizie che essa possedeva.

In tutte le città, miei cari amici, è cosa ordinaria trovare un gran numero di ribaldi, i quali, ridotti alla miseria dalla dissolutezza o dal delitto, sono pronti a qualsiasi malvagia azione, purché riescano a cagionare tumulto colla speranza che il disordine dia loro qualche mezzo di appropriarsi le spoglie di coloro cui la Provvidenza favorì dei suoi beni. L’unione di questi uomini fu sempre perniciosa, ed il loro numero era assai abbondante in Venezia, dove accorrevano stranieri da ogni parte. Renault radunò una considerabile quantità di questi sfaccendati, ed esponendo loro il progetto indicato, fece sperare grande fortuna dal saccheggio di quella città.

Niuna rea impresa fu mai ideata con tanta scelleratezza e temerità. Trattavasi di eccitare un grande incendio in Venezia, di uccidere i Senatori ed i membri del Consiglio de’ Dieci che erano i dieci capi del Governo, e di mescolare rivi di sangue colle acque dell’Adriatico. Intanto col favore delle tenebre della notte e del tumulto di alcuni soldati spagnuoli, che l’ambasciatore doveva introdurre nella città travestiti, s’impadronirebbero del palazzo del doge e dell’arsenale, mentre altri congiurati, che servivano nella flotta veneziana e che Renault aveva corrotto, avrebbero con pugnali uccisi i capi, e forzati i marinai ad appiccare il fuoco alle navi.

Tutto era pronto; già era fissata la notte in cui la congiura doveva essere effettuata. Renault aveva preparati i mezzi di esecuzione con tanto mistero e con tale arte, che i più zelanti agenti della polizia non giunsero ad averne alcun sospetto.

Il giorno antecedente a quella grande notte Renault, per confermare i suoi nella presa risoluzione, radunò i principali capi della fatale impresa in una casa appartata per assegnare a ciascuno il posto che doveva occupare nel momento decisivo. Chi doveva essere incaricato di forzare le porte del palazzo del doge, e chi distribuire armi ai prigionieri chiusi nelle carceri; altri aveva l’incombenza di appiccare fuoco all’arsenale per gettare lo spavento nella città, mentre parecchi dovevano assalire all’improvviso nei loro palazzi i senatori, il Consiglio de’ Dieci, gl’inquisitori, e trucidare i nobili prima che sapessero per quali mani perivano; alcuni in fine dovevano recarsi nei quartieri più popolati di quella grande città per sollevare la plebaglia al saccheggio e aumentare il disordine con tutti i mezzi possibili.

Ognuno dei congiurati pareva impaziente di giustificare colla propria audacia e scelleratezza la fiducia dei suoi compagni. A così fatte disposizioni quei forsennati applaudirono con furibondo entusiasmo, dimostrando con grida di rabbia quanto sarebbero stati fedeli esecutori dell’orrendo misfatto.

Ma fra i congiurati, che Renault riputava egualmente tutti fedeli e divoti, trovavasi un altro francese di nome Giafieri, il quale vedendo quell’uomo crudele a parlar freddamente di tanti disastri, non poté non provarne un involontario terrore; e benché neppure egli mancasse di coraggio e di ferocia, tuttavia non seppe risolversi a lasciar perire un sì gran numero d’innocenti, laddove con una sola parola avrebbe potuto impedire quell’orrenda calamità.

Da quel momento la terribile immagine che Renault pose innanzi ai suoi complici, non esce più dalla mente di Giafieri; egli più altro non vede che palazzi cadenti, donne e fanciulli sgozzati, che tendono le loro mani supplichevoli verso di lui; e nel camminare gli sembra che tutti quelli che lo circondano lo riconoscano per un assassino. Nulla può distrarre la sua mente da quell’idea, che l’assedia come un rimorso. Finalmente, oppresso da quella penosa lotta, prende la risoluzione di andare a dichiarare al Consiglio dei Dieci qual pericolo sovrasti a Venezia.

Mentre per altro ubbidisce al grido della coscienza:, a cui i più grandi scellerati non possono imporre silenzio, Giafieri vuole che il suo tradimento non torni funesto ai suoi amici. Prima di manifestare il suo segreto al Consiglio dei Dieci, si fa promettere che sarebbe risparmiata la vita di venti persone, che denunzierà, per quanto colpevoli esse possano essere. I magistrati acconsentono a tutto ciò ch’egli domanda, per sapere il suo segreto; ma appena la trama è rivelata, essi fanno mettere in prigione Giafieri, mandano ad incarcerare Renault ed i suoi complici prima che nessun indizio faccia sospettare che sono scoperti.

Tuttavia alcuni congiurati vennero avvertiti in tempo, e poterono fuggire gittandosi sopra barche da pescatori; ma Renault non volle allontanarsi, e si diede volontariamente nelle mani di quelli che andavano per incarcerarlo. Nel medesimo istante tutti gli stranieri sospetti che si trovavano nascosti per vari quartieri della città, vennero disarmati, posti in prigione, e tosto strangolati, annegati o decapitati. Renault, promotore di quella trama, venne strozzato in prigione, ed il suo corpo appeso al palazzo del doge per incutere timore ai ribelli.

Giafieri poi, vedendosi sgozzati sotto i proprii occhi i compagni, di cui eragli stata promessa la vita, rifiutò ogni ricompensa, e andò ad unirsi ad alcuni congiurati, alla cui testa combatté finché fu steso a terra morto da un colpo.

Bedmar, principale autore della rivolta, che era riuscita così funesta a tutti coloro che vi avevano preso parte, protetto dalla qualità di ambasciatore di Spagna, poté liberamente partire dalla città e ritornare presso al suo re (*).
[(*) v, LAMÉ-FLEURY, Storia Moderna (a)].
Eccovi, miei cari, come Venezia fu liberata da tre gravi pericoli: dall’interdetto provocato da Paolo Sarpi, dal flagello degli Uscocchi, ed in fine dalla trama ordita da Bedmar, che pose quella città nel pericolo più grave che le sia sovrastato dalla Lega di Cambrai in poi.


XVII.
Carlo Emanuele il Grande (139).

(Dall’anno 1580 all’anno 1630).

Il duca Emanuele Filiberto, l’eroe di San Quintino, prima di spirare chiamò al letto suo figliuolo ereditario, e gli disse: Impara, o mio figlio, dalla mia morte quale esser debba la tua vita. L’età ti fa abile al governo, conserva ai tuoi successori gli Stati che io ti lascio. Se temi Iddio e lo servirai, egli sarà il tuo protettore.

Questo figliuolo chiamavasi Carlo Emanuele I, e fu soprannominato il Grande sì per la lunga durata del suo governo, che fu di cinquant’anni, sì per le grandi opere che egli compiè in pace ed in guerra. Aveva solo diciassette anni quando cominciò a regnare, ma fortunatamente ebbe buoni ministri e buoni consiglieri, la cui sagacità e prudenza contribuirono molto al buon esito delle sue imprese.

Egli ebbe a sostenere una lunga e sanguinosa guerra coi Francesi. Eransi costoro pochi anni prima impadroniti del marchesato di Saluzzo, e in tempo che la Francia era agitata dalla guerra promossa dagli Ugonotti, ovvero protestanti, contro ai cattolici, pensò di poter riacquistare quella parte di dominio di cui suo padre era stato spogliato. Il re di Francia, che chiamavasi Enrico III, non volle arrendersi alle giuste domande del duca; onde egli risolse di acquistare colle armi ciò che non poteva ottenere colle ragioni. La guerra fu lunga e micidiale da ambe le parti, ma terminò col lasciare Carlo Emanuele tranquillo possessore del Saluzzese, mediante un trattato conchiuso in Lione nel 1601, in virtù del quale il duca cedeva alcune terre dei suoi dominii al di là delle Alpi. Quel trattato fu molto vantaggioso per la Casa di Savoia, ed il generale francese, chiamato Ladighera, ebbe a dire, che il re di Francia aveva operato da mercante, mentre il duca di Savoia l’aveva fatta da sovrano. La ragione si era che il Saluzzese, oltre ad essere un paese sommamente fertile, univa con sé la barriera delle Alpi, restando così impedito il passaggio per cui i Francesi solevano venire in Italia.

Acquetate alquanto le cose di guerra, ebbe a far molto per sedare le discordie suscitate dagli eretici, e specialmente dai Valdesi. Erano costoro seguaci di certo Pietro Valdo, negoziante di Lione, il quale, messe da parte le cose di commercio, si pose a fare il predicatore e l’apostolo sul finire del secolo decimosecondo. I suoi seguaci, perché turbolenti, cacciati dal Lionese, andarono in buon numero a stabilirsi nella valle di Luserna, a poca distanza da Pinerolo. In mezzo a quelle montagne si stettero nascosti qualche tempo; ma siccome è proprio di tutti gli eretici, cominciarono a molestare i paesi vicini, ed a perseguitare i cattolici. Fino al 1555 i Valdesi non esercitarono alcun pubblico culto; solo in quest’anno essendosi uniti ai discepoli di Calvino e di Lutero, edificarono il loro primo tempio nella valle di Angrogna. Prima di quella epoca assistevano agli uffizi della Chiesa Cattolica, e non tenevano adunanze se non in segreto.

I Valdesi per l’unione loro coi protestanti divennero audacissimi, e non solamente molestarono i cattolici nella dottrina, ma presero le armi e si ribellarono apertamente. Invano si mandarono missionari per convertirli: invano i vescovi e lo stesso Romano Pontefice usarono loro bontà e clemenza. Il duca Emanuele Filiberto aveva dovuto marciare contro di loro colle sue genti, e si sparse molto sangue. Carlo Emanuele, dopo avere usati tutti i mezzi pacifici per ridurli a buoni sentimenti, si appigliò egli pure alla forza, impose a tutti i protestanti di uscire dai suoi Stati, e con decreto del 1602 circoscrisse il luogo di dimora dei Valdesi, e loro proibì sotto gravissime pene di valicarlo.

Aggiustate così le cose che riguardavano al marchesato di Saluzzo ed ai Valdesi, Carlo Emanuele dovette portare le sue armi in paesi stranieri. combatté a favore del re di Francia e del re di Spagna, ed in ogni luogo egli e i suoi si segnalarono con fatti d’armi che molto onorarono il suo valore.

Volle eziandio tentare di togliere la Lombardia agli Spagnuoli, e a questo fine si unì col re di Francia Enrico IV. Già gli eserciti erano pronti a marciare per quella impresa, quando questo re venne ucciso. Allora fra le due potenze nemiche si interpose Venezia e fu conchiusa la pace.

Poco stante essendo morto senza erede Francesco Gonzaga, duca di Mantova e di Monferrato, il duca di Savoia per motivi di parentela pretendeva di avere quell’amena e vasta provincia; ma dopo due anni di trattazioni inutili il duca uscì in guerra aperta, e prima che i suoi rivali potessero opporsi, egli giunse ad impadronirsi del Monferrato, ad eccezione di Casale e Ponte-Stura.

La Spagna, che pretendeva di essere arbitra in Italia, perché vi possedeva molte provincie, portò anche le sue pretese sul Monferrato. Gli Spagnuoli, reputando la cosa di poca importanza, vennero tosto alle mani col duca di Savoia; ma quando videro le loro genti in fuga ed in gran numero trucidate, conobbero di aver a fare con un rivale formidabile.

Fecero pertanto tale apparecchio di fanti, di cavalli e di cannoni, che pareva la Spagna volersi tutta versare sul Monferrato.

Ma Carlo Emanuele, che aveva già tante volte condotti i suoi soldati alla vittoria in paesi stranieri, non si sgomentò in questo caso in cui trattavasi di sostenere i proprii diritti. Cinque volte si venne a battaglia campale, cinque volte la vittoria fu del duca di Savoia. Dopo di avere, si può dire, quasi distrutti gli Spagnuoli, egli riunì al Piemonte il possesso del Monferrato.

Le gloriose vittorie del duca di Savoia ingelosirono i Francesi, che perciò si determinarono di tentare la sorte delle armi a fine di conquistare il Monferrato. Con immenso numero di soldati i Francesi vennero ad assalire Carlo Emanuele in un momento in cui non se lo immaginava, perché poco prima nell’aggiustare le cose di Saluzzo aveva con chiuso coi Francesi un trattato di pace. Malgrado il suo valore, Carlo Emanuele fu sopraffatto dal numero dei nemici e dovette ritirarsi dal Monferrato. Venne di nuovo a battaglia vicino a Rivoli, e fu nuovamente sconfitto.

Forse il duca di Savoia avrebbe riparate le sue perdite, se non fosse sopraggiunta una terribile pestilenza, che dopo aver fatto gravissima strage in Francia, si sparse in tutta l’Italia. Il duca medesimo morì di quel malore nella città di Savigliano, nel 1630: egli moriva lasciando il suo regno agitato dalla peste e dalla guerra; ma moriva consolato di avere impiegata la vita a difendere i suoi Stati e colla gloria di essersi costantemente adoperato a beneficare i suoi sudditi. Era solito a dire: Le più belle prerogative di un principe sono dare e perdonare.

A Carlo Emanuele succedette Vittorio Amedeo I. In mezzo a tanti mali cagionati dalla guerra e dalla peste, era necessaria una tregua, perché i popoli potessero ristorare le loro forze, ripigliare la coltivazione delle campagne, e risarcire l’erario. In questo bisogno universale i Francesi, gli Spagnuoli ed i principi Italiani si radunarono in Cherasco, piccola città situata al confluente della Stura e del Tanaro. Ivi fu con chiuso (anno 1631) un trattato, in forza di cui l’Italia agitata da una lunga serie di mali poté provvedere ai proprii bisogni.

Aggiustate le cose che riguardavano al bene de’ suoi sudditi, Vittorio Amedeo, invitato e quasi costretto da Richelieu, ministro della Francia, strinse una lega con questa potenza. Facevano anche parte di questa lega i duchi di Mantova e di Parma. Queste potenze collegate mossero guerra agli Spagnuoli; uno dei più sanguinosi scontri fu quello che avvenne vicino ad un paese del Monferrato, detto Mombaldone; dove mediante il senno ed il coraggio del duca di Savoia la vittoria fu compiutamente a favore degli alleati; ma non molto dopo questa battaglia Vittorio Amedeo morì in Vercelli.

XVIII.
Lodovico Ariosto. - Torquato Tasso. - Galileo Galilei (140)

(Dall’anno 1516 all’anno 1642).


In mezzo alle guerre ed alle pestilenze, che afflissero il Piemonte ed altre provincie d’Italia, fiorirono parecchi illustri personaggi che innalzarono la nazione italiana ad un alto grado di gloria nelle scienze, nelle lettere e nelle arti. Oltre a quelli di cui già vi parlai, fiorì un illustre poeta, di nome Lodovico Ariosto, nato nella città di Reggio. Da fanciullo egli fu studiosissimo, e avendo sortito dalla natura molta propensione a comporre versi, dopo avere studiato i classici antichi, compose un poema intitolato L’Orlando Furioso, libro assai pregevole per la lingua e per lo stile ond’è dettato, e la potentissima fantasia dell’autore, ma che vi esorto a non leggere, senza accertarvi se sia stato depurato da parecchie cose, che tornerebbero assai nocevoli ai vostri costumi. Nacque nel 1474, morì nel 1532 (*).


[(*) Per evitare il danno irreparabile che la lettura di questo libro arreca al buon costume fu stampato nella Biblioteca della Gioventù Italiana da me diretta un volumetto intitolato: Le Bellezze dell’Orlando Furioso. Ivi il chiaro cav. Vincenzo Lanfranchi scelse cautamente e riunì i tratti innocui dando allo studioso una qualche idea di questo celebre poema romanzesco (a-1873)].
Altro poeta illustre fu Torquato Tasso, assai celebre per un suo poema intitolato: Gerusalemme liberata, in cui prende a descrivere le prodezze ed il coraggio mostrato dai crociati quando andarono all’acquisto di Terra Santa caduta in potere dei Turchi. Nacque egli in Sorrento, e visse gran tempo nella città di Ferrara. Era dotato di grande ingegno; ma aveva un difetto notevolissimo, e si è che non sapeva frenare l’impeto della collera. Per cagione di questa, tratto una volta in prigione, vi dovette rimanere più anni, finché il Papa, avuta notizia della disgrazia di un sì gran poeta, ottenne dal duca di Ferrara che fosse lasciato in libertà. Fatto libero, si pose a viaggiare per l’Italia, dimorando in più città del Piemonte. Non avendo di che provvedersi una cavalcatura, partì da Vercelli a piedi, e dopo una serie di disagi giunse alle porte di Torino così male in arnese, che le guardie nol vollero lasciar entrare. Fortunatamente un letterato suo amico lo vide e gli ottenne di poter entrare in città. Il principe Carlo Emanuele, che ne conosceva l’alto merito, lo trattò con onore e gli fece larghe esibizioni; ma l’animo suo inquieto lo indusse ad abbandonare questa città per ritornare a Ferrara.

I letterati, molti prìncipi, lo stesso Pontefice decretarono d’incoronarlo di alloro, come si era fatto al Petrarca. A questo fine egli fu invitato di recarsi a Roma e fu solennemente ricevuto dal Papa. Tutto si apparecchiava per quella grande cerimonia, ma diverse erano le disposizioni del Cielo. Infermatosi tosto gravemente, chiese di essere portato al monastero di S. Onofrio, ove tranquillamente spirò in età di 51 anno nell’aprile del 1595, nella vigilia del giorno destinato al suo trionfo. Il suo corpo nobilmente vestito e colla chioma cinta d’alloro venne portato con molta pompa per le vie di Roma fino al sepolcro.

Un altro uomo, che formerà mai sempre la gloria d’Italia, fu Galileo Galilei. Nato a Pisa nel 1564, studiò con molto successo la musica, il disegno, la pittura, le scienze, le lettere, e si segnalò particolarmente nella fisica. Era ai suoi tempi grande protettore delle scienze e delle lettere Ferdinando I, granduca di Toscana.

Non avrete certamente dimenticato come i sovrani di Toscana dapprima abbiano semplicemente avuto il titolo di duchi sino all’anno 1570. Fu Pio V, il quale mutò il nome di ducato in quello più magnifico di Granducato. D’allora in poi il sovrano fu sempre detto il granduca. Molto mite, miei cari, fu in generale il governo dei granduchi. Essi favorirono molto le scienze; e se Galileo progredì tanto nei suoi studi, il dovette in gran parte alla generosità di quei principi. Imperocché il granduca Ferdinando I lo nominò professore all’università di Pisa, quando aveva appena ventisei anni,

Mentre colà dimorava, stando un giorno in chiesa, osservò la oscillazione di una lampada sospesa, e notò che essa andava e veniva dondolando e percorrendo un bel tratto, poi un altro più piccolo, quindi uno piccolissimo; ma che quella lampada compiva uno di quei tratti o grandi o piccoli nella stessa durata di tempo. Tornato a casa, volle ripetere quella esperienza con una cordicella e con un piombino formato a modo di pendolo. Il fece dondolare, e verificò che le oscillazioni maggiori e le più piccole si compievano sempre in eguale spazio di tempo. Galileo conchiuse da ciò che un pendolo sarebbe uno strumento da aggiungere agli orologi per regolare il giro delle ruote in modo che non corrano né più né meno di quanto è necessario per avere un moto regolare e costante.

Passò pure ad insegnare filosofia a Padova, dove inventò il telescopio, che è un maraviglioso cannocchiale, con cui si vedono gli oggetti mille volte più grossi di quel che si vedrebbero ad occhio nudo. Con esso osservò la luna, e pel primo riconobbe che le macchie, le quali si scorgono ad occhio nudo nel disco lunare, non altro sono che valli e montagne, di cui seppe anche misurare l’estensione. Scoprì eziandio molte stelle sino allora sconosciute, e pel primo asserì che quella striscia bianca, la quale si vede in notte serena fasciare il cielo, e che si chiama via lattea, è uno spazio tutto seminato di stelle a noi lontanissime.

La fama dell’ingegno di Galileo crebbe tanto, che il granduca ed i Fiorentini desideravano che egli tornasse in patria. Ritornò egli difatto, ed il granduca gli assegnò cinquemila franchi all’anno con piena libertà di occuparsi nei suoi profondi studi. Questo grand’uomo era d’indole focosa e proclive alla collera come il Tasso, ma sforzavasi di vincerne gl’impeti senza lasciar trascorrere la lingua ad ingiurie. Era religioso e caritatevole assai; perciò istruiva con ammirabile pazienza i giovani volenterosi di studiare, e col suo proprio danaro sovveniva gli scolari poveri, acciocché potessero continuare i loro studi. Costoro gli erano così grati ed affezionati, che l’obbedivano e l’amavano Come padre.

Ma il fatto più luminoso, e che fece parlare molto nella storia di Galileo, fu un suo libro sul movimento della terra. Pretendeva egli, siccome ora generalmente si crede, che non già il sole girasse intorno alla terra, sibbene la terra si volgesse intorno al suo proprio asse ogni spazio di ventiquattro ore, e che intanto in un anno compisse un vasto giro intorno al sole. Questa opinione era già stata manifestata ed insegnata cento anni prima da un filosofo prussiano di nome Copernico (canonico), né mai se gli era fatto rimprovero, perché egli insegnava queste cose come ipotesi, ovvero supposizioni sue proprie senza mischiarvi la religione.

Ma Galileo volle andare più avanti, e pretese di provare che il suo sistema era fondato sulla Bibbia, colla qual cosa veniva a conchiudere essere tale la mente del Creatore nel creare questi astri; onde cangiava in verità di fede una semplice opinione. Il che non mai si poté, né si potrà asserire. Perciò fu avvisato per ordine del Papa Paolo V a non voler fare un domma di fede di cose solamente probabili; che insegnasse pure il suo sistema, ma non lo mischiasse colla Bibbia. Questa volta l’indole bizzarra del Galileo non seppe moderarsi. Si persuase che tutti la sbagliassero, e che egli solo vedesse la verità; e giunse fino a dire che la Chiesa doveva definitivamente approvare il suo sistema. Eravi in quei tempi un tribunale ecclesiastico detto Inquisizione, da una parola latina, che vuol dire cercare, perché aveva per iscopo di cercare ed esaminare quelli i quali dicevano o scrivevano cose contrarie alla religione. Trovato qualcuno che fosse colpevole, e che non volesse emendarsi, veniva denunziato alle autorità civili, da cui era giudicato secondo le leggi penali di ciascuno Stato. Molti sovrani chiesero al Papa di poter aprire nei loro regni uno di questi tribunali, il cui scopo non fu mai di condannare, ma solo di denunziare i colpevoli di delitti contro alla religione.

Desideroso che il suo sistema fosse approvato dalla Chiesa, andò a Roma, e vi riscosse grandi applausi per le nuove sue scoperte. Nel trasporto della gloria egli dimandò che il Papa e l’Inquisizione dichiarassero il suo sistema fondato sulla Bibbia. Il giudizio proferito non fu quale Galileo si aspettava; fu conchiuso non potersi con certezza definire che il sistema di Copernico fosse conforme alla Bibbia. Laonde venne imposto a Galileo di non più mischiare le verità certe dei libri santi colle sue private opinioni: lasciandolo in libertà di fare altrimenti tutte le congetture che egli desiderava.

Ma gli uomini grandi, miei cari, si lasciano talvolta inebriare dalla superbia, e spesso non sanno umiliarsi e confessare la miseria umana. Tale fu Galileo. Egli rifiutò di assoggettarsi al giudizio dell’Inquisizione, e solamente vi gi sottomise quando si minacciò di consegnarlo alle autorità civili; ed era già in procinto di dover subire la pena, se avesse protratto più a lungo la sua emendazione. Ecco come egli parla di questo affare scrivendo ad uno dei suoi discepoli: «Il Papa, egli dice, mi trattò come uomo degno della sua stima: per luogo di arresto io ebbi il delizioso palazzo della Trinità. Quando arrivai al Santo Uffizio, fui cortesemente accolto dall’assessore. Io fui costretto a ritrattare la mia opinione, ed in punizione mi furon proibiti i miei dialoghi, e venni congedato dopo sei mesi di soggiorno in Roma. Siccome la peste serpeggiava in Firenze, mi fu assegnato per dimora il palazzo del migliore mio amico, l’arcivescovo di Siena, ove godetti la più dolce tranquillità».

Vi ho parlato alquanto a lungo di questo fatto, perché molti storici avversi alla cattolica religione, sogliono travisarlo in maniera assai diversa: ma voi ritenete che chi vi dice diversamente da quanto vi ho raccontato non espone la verità (*).


[(*) In alcuni libri di storia moderna dettati per la gioventù, tra le altre calunnie si spaccia questa, che il Galileo fu torturato per ordine della Inquisizione. Contro si sfacciata accusa si levarono alcuni dei migliori moderni; qui a noi basta citare: Sul processo di Galileo due lettere di Eugenio Albèri. Firenze, Tip. all’insegna di Sant’Antonio, 1864 (a).]
Galileo fece moltissime altre scoperte senza più mischiarsi in cose di religione. Finalmente in età di settant’otto anni cadde ammalato; e accortosi che era al termine dei suoi giorni, qual uomo savio e buon cristiano, chiese di ricevere i conforti della cattolica religione; indi spirò nel 1642.


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