Repubblica italiana



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Il capo relativo alla sanzione è oggetto degli appelli principali e incidentali proposti dalle imprese e dell’appello principale proposto dall’Autorità.

Per un corretto esame logico delle questioni si ritiene di dover partire dalle censure, proposte dalle imprese appellanti e relative alla sussistenza dei presupposti per l’irrogazione della sanzione pecuniaria.

6.2. Alcune appellanti contestano la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito, lamentando il mancato compimento da parte dell'Autorità di un qualsiasi accertamento circa la consapevolezza da parte delle imprese dell'antigiuridicità dei loro comportamenti.

Il motivo è infondato.

Secondo una giurisprudenza costante, perché un'infrazione alle norme del Trattato sulla concorrenza si possa considerare intenzionale, non è necessario che l'impresa sia stata conscia di trasgredire tali norme, ma è sufficiente che essa non potesse ignorare che il suo comportamento aveva come scopo la restrizione della concorrenza (Corte Giust. CE, 8 novembre 1983, cause riunite da 96/82 a 102/82, 104/82, 105/82, 108/82 e 110/82, IAZ, punto 45; Trib. Ce, 6 aprile 1995, causa T-141/89, Trefileurope, punto 176, e 14 maggio 1998, causa T-310/94, Gruber + Weber, punto 259; 12-7-2001, British Sugar cit. punto 127).

Nel caso di specie, le imprese partecipanti al sanzionato accordo sono tutte imprese di medie dimensioni e dispongono delle conoscenze giuridiche ed economiche necessarie per conoscere il carattere illegittimo della loro condotta e le conseguenze che ne derivano dal punto di vista del diritto della concorrenza, tenuto anche conto dell’evidente carattere di illecito che qualifica ogni tipo di concertazione diretta a influenzare gli esiti delle gare ad evidenza pubblica.

Peraltro, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 689/1981, cui rinvia l’art. 31 della legge n. 287/90, il principio secondo cui per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva sia essa dolosa o colposa, deve essere inteso nel senso della sufficienza dei suddetti estremi, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l'onere di provare di aver agito senza colpa (v. Cass, I civ., n. 1142/99; Cons. Stato, VI, n. 4362/2002).

Detto onere non è stato assolto dalle imprese appellanti e, pertanto, nessun dubbio è possibile nutrire sulla ricorrenza dell'elemento soggettivo dell'illecito.

6.3. Le appellanti contestano, inoltre, che l’infrazione accertata possa ritenersi grave e che quindi possa essere colpita anche con la sanzione pecuniaria.

Si osserva che nel provvedimento impugnato sono stati ben evidenziati gli elementi, in base a cui l’infrazione è stata ritenuta grave: il carattere orizzontale della pratica, la sua suscettibilità di incidere sui profili non solo economici, ma anche tecnici delle offerte, la sua portata di ripartizione del mercato, gli effetti economici pregiudizievoli per la Committenza che la logica impone di ascriverle, l'importanza economica particolarmente spiccata delle imprese coinvolte nell'illecito ed il loro alto numero, nonché l'idoneità dell'infrazione ad eliminare il confronto concorrenziale nel mercato considerato, eludendo in pari tempo gli specifici meccanismi procedurali previsti dalla legge per garantire alle amministrazioni pubbliche che dal confronto concorrenziale tra i competitori sortiscano le offerte migliori.

Si tratta di elementi non contestabili e che rispondono ai criteri, utilizzati al fine di ritenere la sussistenza del requisito della gravità dell’infrazione dalla giurisprudenza comunitaria citata nei par. 194 e ss dell’impugnato provvedimento e fatti propri anche dalla Commissione, che nella comunicazione sugli “Orientamenti per il calcolo delle ammende” (In GUCE n. 9 del 14-1-98), ha compreso tra le infrazioni molto gravi proprio le restrizioni orizzontali di ripartizione dei mercati, quale deve essere considerata quella in esame.

L’elemento della durata dell’infrazione, che verrà esaminato in seguito, non influisce sulla gravità della stessa, ma deve essere tenuto in considerazione ai fini dei criteri di quantificazione della sanzione.

Infatti, l’art. 15 della legge n. 287/90 prevede che nei casi infrazioni gravi, tenuto conto della gravità e della durata dell’infrazione, (l’Autorità) dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria..”.

Ciò significa che presupposto per irrogare la sanzione è il solo elemento della gravità dell’infrazione, mentre il livello di gravità e la durata costituiscono elementi in base a cui graduare la sanzione pecuniaria, come emerge anche dalla citata Comunicazione della Commissione (che prevede solo una sanzione non maggiorata per le infrazioni di durata breve).

6.4. Deve a questo punto essere esaminato l’appello dell’Autorità nella parte relativa alla norma sanzionatoria da applicare.

Con l’impugnato provvedimento l’Autorità ha applicato l’art. 15 della legge n. 287/90, come modificato dall’art. 11 della legge n. 57/2001, ritenendo che la restrizione della concorrenza avesse avuto inizio almeno a partire dal novembre 2000 e fosse ancora in essere.

Il Tar ha accolto i ricorsi delle imprese sanzionate, ritenendo invece applicabile l’originaria versione del citato art. 15 della legge n. 287/90, sulla base delle seguenti considerazioni:

a) l’infrazione accertata non costituisce illecito di carattere permanente;

b) i contratti conclusi “a valle” di un’intesa anticoncorrenziale non sono nulli ai sensi dell’art. 2, comma 3, della legge n. 287/90;

c) l’atto autoritativo posto a conclusione del procedimento di gara resta soggetto all’ordinario regime di impugnabilità;

d) dovendosi distinguere tra fatto illecito ed i suoi effetti, nel caso di specie il fatto illecito si è consumato al momento della presentazione delle offerte di gara e a quel momento, quindi, deve essere individuata la norma sanzionatoria applicabile.

L’Autorità contesta tale interpretazione, rilevando che:

1) il giudice di primo grado ha elaborato una artificiosa distinzione tra l’esecuzione dell’intesa e i suoi permanenti effetti;

2) nel diritto antitrust non è possibile scindere l’illecito dai suoi effetti ed affermare che l’infrazione non è più in atto, benché continui a produrre sul mercato gli effetti anticoncorrenziali;

3) l’intesa accertata non si esaurisce nella spartizione delle aggiudicazioni dei vari lotti della gara, ma nell’effettiva spartizione del servizio attraverso la perdurante esecuzione dei contratti stipulati con la Consip;

4) l’aggiudicazione dei contratti non era il fine ma solo il mezzo per raggiungere l’obiettivo e nel diritto antitrust rilevano i comportamenti delle imprese a prescindere dalla loro veste giuridico-formale;

5) stante il carattere permanente dell’illecito, è legittima l’applicazione dell’art. 15 della legge n. 287/90 nel testo novellato dalla legge n. 57/2001.

Il motivo di appello, proposto dall’Autorità, è infondato.

Si ricorda che l’originaria versione dell’art.15 della legge n. 287/1990 prevedeva che in caso di infrazione grave fosse disposta “l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria in misura non inferiore dell’1% e non superiore del 10 % del fatturato realizzato da ciascuna impresa o ente nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida, relativamente ai prodotto oggetto dell’intesa..”

La disposizione è stato in seguito modificata dall’art. 11, comma 4 della legge n. 57/2001, con cui è stato ampliato il margine di discrezionalità dell’Autorità attraverso l’eliminazione di una percentuale minima della sanzione, rapportata ora all’intero fatturato dell’impresa (“… dispone inoltre l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida”).

L'art. 1 della legge n. 689 del 1981 (cui fa rinvio l'art. 31 della legge n. 287 del 1990) prevede che “Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati” in virtù del principio di legalità, che implica il conseguente assoggettamento della violazione alla legge del tempo del suo verificarsi, ed esclude l'applicabilità della disciplina posteriore anche laddove più favorevole (nel senso della legittimità costituzionale di un simile assetto cfr. Corte Cost. n. 140/2002 e n. 245/2003).

Come ricordato dal Tar, anche la giurisprudenza comunitaria si è del resto espressa nel senso che nei procedimenti amministrativi che possono portare all'irrogazione di sanzioni in applicazione delle regole di concorrenza del Trattato si impone il rispetto del canone generale dell'irretroattività, il quale esige che le sanzioni inflitte ad un'impresa per un'infrazione in materia corrispondano a quelle che erano stabilite al momento in cui l'infrazione è stata commessa (Tribunale di primo grado U.E. 20 marzo 2002, causa T-23/99).

Nel caso di specie, il Collegio ritiene che l’infrazione accertata non abbia carattere permanente, ma che si sia consumata al momento della presentazione delle offerte nella gara Consip.

Nel diritto penale, secondo un principio applicabile anche agli illeciti amministrativi, per i reati permanenti , il protrarsi del periodo consumativo ad opera dell'agente comporta, in caso di successione di leggi penali che puniscano più severamente il fatto criminoso, l’applicazione della nuova norma per il principio dell'unitarietà del reato e per essersi la sua consumazione esaurita sotto l'impero della legge sopravvenuta (v. fra tutte, Cass. pen., III, 3-11-93).

Sempre nel diritto penale, è anche pacifico che ai fini della permanenza del reato, risulta irrilevante la circostanza che gli effetti, di danno o di pericolo, prodotti dal reato continuino successivamente a prodursi, trattandosi di elementi esteriori rispetto alla fattispecie tipica legale (Cassazione penale, sez. III, 28 gennaio 2002, n. 8786). La permanenza del reato va, quindi, riferita non già all'effetto del reato ma alla "produzione dell'effetto" e pertanto non è possibile ritenere che la permanenza cessi solo al momento della rimozione degli effetti (Cassazione penale, sez. un., 14 luglio 1999, n. 18).

Tali principi, applicabili anche agli illeciti amministrativi, conducono a ritenere che si deve distinguere tra illeciti di carattere permanente, in cui persiste la condotta illecita del soggetto agente ed illeciti consumati con effetti permanenti, in cui dopo la conclusone della condotta illecita perdurano le conseguenze dannose.

La fattispecie in esame rientra proprio in tale seconda categoria di illeciti, in quanto l’intesa accertata è consistita nell'individuazione concertata tra tutte le partecipanti della composizione delle varie ATI nonché delle imprese destinate a presentarsi singolarmente, la fissazione congiunta dei livelli di sconto nella presentazione delle singole offerte e la ripartizione dei lotti, al fine di spartirsi le aggiudicazioni nella gara bandita dalla Consip per l’acquisizione dei servizi sostitutivi di mensa mediante buoni pasto per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche.

Il comportamento illecito delle imprese si è quindi verificato nella fase precedente la presentazione delle offerte attraverso una concertazione delle modalità di presentazione e degli sconti da offrire.

La condotta successiva all’aggiudicazione della gara, tenuta dalle imprese coinvolte e consistente nell’erogazione delle forniture relative ai buoni pasto, costituisce un effetto della concertazione e non un elemento costitutivo della stessa.

Basti pensare che, qualora in presenza della medesima intesa anticoncorrenziale l’aggiudicazione della gara non fosse stata conseguita a causa di una inattesa offerta economica da parte di un’impresa estranea al cartello, sarebbe stata comunque configurabile l’infrazione anticoncorrenziale, con l’unica differenza consistente nella mancata verificazione degli effetti.

Ciò dimostra come la distinzione tra condotta illecita ed i suoi effetti, operata dal Tar, non sia affatto artificiale e non si ponga in contrasto con il diritto antitrust.

Diversa sarebbe stata la soluzione in presenza, ad esempio, di una pratica concordata diretta alla fissazione dei prezzi di mercato, in cui la condotta illecita consiste direttamente nel fissare livelli uniformi (e concertati) di prezzo e quindi assume carattere permanente fino alla cessazione di tale comportamento.

In questa ipotesi, infatti, il mantenimento di livelli di prezzo concertati non è un effetto della pratica, ma costituisce l’oggetto stesso dell’infrazione anticoncorrenziale.

Nella fattispecie in esame, invece, l’infrazione si è consumata al momento della determinazione delle modalità di partecipazione alla gara e degli sconti da offrire, mentre tutta l’attività successiva all’aggiudicazione ha costituito l’effetto della pratica concordata.

Inquadrata in tali termini la questione, non assume rilevanza il dibattuto problema della sorte dei contratti conclusi “a valle” di un’intesa anticoncorrenziale in relazione al regime di nullità, previsto dall’art. 2, comma 3, della legge n. 287/90.

Infatti, il carattere non permanente dell’infrazione accertata determina l’applicabilità dell’originaria versione dell’art. 15 della legge n. 287/1990 a prescindere dalla soluzione della appena menzionata questione.

6.5.1. Il giudice di primo grado ha quindi accertato che la sanzione inflitta alle ricorrenti, commisurata dall'Autorità al parametro costituito dagli interi fatturati delle imprese, avrebbe dovuto essere invece riferita ai fatturati relativi ai soli « ...prodotti oggetto dell'intesa... », e quantificata secondo i criteri propri dell'originario dettato dell'art. 15 della legge n. 287.

Il Tar ha implicitamente ritenuto di non dover procedere a rideterminare direttamente la sanzione e tale questione, non essendo stata oggetto di contestazione, non è devoluta al giudice di appello.

Il Tar ha anche aggiunto che:

- l'accoglimento dei rilievi di parte in merito alla disciplina legislativa applicabile alla fattispecie concreta determina già di per sé l'invalidazione delle statuizioni del provvedimento con le quali sono state determinate - in errata applicazione della lex posterior - le sanzioni applicabili a ciascuna impresa;

- a determinare lo stesso risultato di annullamento parziale del provvedimento concorre, inoltre, la più ridotta durata dell'illecito sopra constatata, cui non può essere riconosciuta, come si è detto, un'efficacia causale rispetto alla qualificazione dell'infrazione come « grave », ma che senza dubbio è in grado di influire in senso moderatore sulla percezione del grado di siffatta « gravità »;

- i rimanenti motivi di parte attinenti alla tematica delle sanzioni dovrebbero di conseguenza rimanere assorbiti; nondimeno, per un opportuno indirizzo dell'Autorità rispetto alle valutazioni che essa dovrà compiere nei successivi sviluppi della vicenda, vanno comunque esaminati in questa sede quelli che tra loro rivestono carattere preliminare (il Tar ha, quindi, esaminato i motivi relativi al fatturato su cui calcolare la sanzione ed all’assoggettamento di tutte le imprese al medesimo criterio percentuale di calcolo dell’infrazione).

Con riguardo a queste ultime questioni, quindi, il giudice di primo grado, dopo aver annullato il capo dell’impugnato provvedimento relativo alla sanzione, ha comunque esaminato le censure che riguardavano le modalità del successivo riesercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità.

Così facendo, il Tar ha esaminato alcune censure, che non erano state proposte da tutte le imprese, ma che riguardavano non la norma sanzionatoria applicata dall’Autorità, ma quella che l’Autorità avrebbe dovuto applicare (originaria versione dell’art. 15 della legge n. 287/90 nella parte relativa al fatturato su cui calcolare la sanzione).

E’ evidente che le imprese si sarebbero potute limitare in primo grado, come alcune di esse hanno fatto, a contestare l’applicabilità dell’art. 15 della legge n. 287/1990, come novellato dalla legge n. 57/2001, senza estendere l’ambito del giudizio ai criteri in base a cui applicare l’originaria versione dello stesso art. 15.

Da ciò discende che tale problematica, relativa alle modalità di riesercizio del potere sanzionatorio, deve ritenersi interamente devoluta a questo giudice di appello da parte di tutte le imprese sanzionate, tenuto conto delle considerazioni da esse svolte negli appelli principali ed incidentali e nelle rispettive memorie.

Del resto, una diversa interpretazione sul punto non avrebbe condotto a risultati sostanzialmente differenti, in quanto in sede di riesercizio del potere sanzionatorio l’Autorità avrebbe dovuto comunque applicare i medesimi criteri per tutte le imprese, anche qualora le tesi accolte in sede di appello fossero state proposte solo da alcune di queste.

In questo caso non si tratta di ottenere dal giudice l’annullamento del provvedimento, o di parte di esso (risultato già ottenuto in primo grado dalle imprese con statuizione confermata in questa sede), ma di fornire all’Autorità, come affermato dal Tar, “l’opportuno indirizzo rispetto alle valutazioni che essa dovrà compiere nei successivi sviluppi della vicenda”.

Tale indirizzo, anche se in parte modificato in appello (come si vedrà oltre), non può che valere nei confronti di tutte le imprese nei cui confronti la sanzione è stata annullata, tenuto conto ovviamente delle considerazioni da esse svolte negli atti del presente giudizio di appello.

6.5.2. Ciò premesso, deve innanzi tutto essere respinta la censura, relativa alla esatta individuazione dell'oggetto dell'attività di impresa che viene esplicata nel settore in questione.

Le imprese sostengono che la loro prestazione tipica consisterebbe esclusivamente in una intermediazione tra i soggetti che erogano l'effettivo servizio sostitutivo (i ristoratori) ed i consumatori finali (onde la consueta espressione « fornitura di buoni pasto » non rispecchierebbe la realtà economica di semplice intermediazione dell'attività). La tesi avrebbe una ricaduta sul piano della individuazione del fatturato rilevante ai fini della quantificazione del trattamento sanzionatorio, in quanto, secondo le ricorrenti, il « fatturato relativo ai prodotti oggetto dell'intesa » non potrebbe inglobare i costi del riacquisto dei buoni pasto da parte delle imprese, ma dovrebbe essere identificato, in coerenza con la natura meramente intermediatoria dell'attività di settore, nella sola differenza tra il valore facciale dei buoni pasto, al netto dello sconto applicato ai clienti, ed il valore dei buoni pasto rimborsati agli esercizi convenzionati, come avviene in altri paesi europei ed, in particolare, in Francia, in cui il servizio sostitutivo di mensa non rientra nel campo di applicazione dell'i.v.a.

Viene invocata, a sostegno della tesi, anche la decisione del Conseil de la concurrence dell’11-7-2001.

Le ragioni per cui la tesi sostenuta dalle imprese appellanti non può essere accolta sono sia di carattere formale che di carattere sostanziale.

Sotto il primo profilo, si osserva che le imprese del settore offrono la disponibilità di pasti presso i punti di una rete di esercenti selezionati sulla base di caratteristiche di prezzo e qualità, ed il controvalore richiesto dalle società emittenti, indicato nei loro bilanci quale valore della produzione, rispecchia proprio il contenuto dell'intero servizio indicato, e non la mera differenza tra commissioni attive e passive.

Il fatturato delle imprese non è quindi costituito dalla sola differenza tra il valore facciale dei buoni pasto, al netto dello sconto applicato ai clienti, ed il valore dei buoni pasto rimborsati agli esercizi convenzionati, come conferma il fatto che le società del settore possono beneficiare dello scorporo dell'i.v.a. inclusa nel prezzo che pagano ai ristoratori con loro convenzionati.

Sotto il profilo sostanziale, si rileva che le imprese sono parti venditrici dei buoni pasto alle P.a. e svolgono un’attività, che è differente rispetto a quella di intermediazione, assumendo tutte le garanzie, i rischi ed anche i profitti, tipici di un’attività di compravendita (ad esempio, le imprese possono far valere la propria forza contrattuale sugli esercenti convenzionati, abbassando il prezzo da corrispondere loro).

Del resto, è evidente che le imprese del settore svolgono un’attività che è profondamente diversa dal limitarsi a mettere in relazione la parte acquirente dei buoni pasto e gli esercizi convenzionati, ma si obbligano, tramite contratti quali quelli stipulati con la Consip, a fornire il servizio sostitutivo di mensa ad un determinato prezzo ed attraverso una rete di esercizi convenzionati, con cui la parte acquirente dei buoni pasto non entra in contatto neanche in via indiretta.

Il paragone con altri paesi europei non è rilevante, in quanto, come riconosciuto anche dalle appellanti (v., in particolare, Day Ristoservice), in tali paesi il servizio sostitutivo di mensa è soggetto ad una disciplina diversa che caratterizza in modo differente la qualificazione giuridica dell’attività svolta (infatti, il servizio non rientra nel campo di applicazione dell’iva e i buoni pasto non sono fatturati, ma sono oggetto di fatturazione i soli proventi derivanti dalle commissioni dovute dai clienti e dai locali convenzionati).

Di conseguenza, anche il caso esaminato dall’Autorità antitrust francese non è rilevante ai fini del decidere per la diversità della disciplina, anche fiscale, che regola il servizio sostitutivo di mensa.

Tale soluzione della questione esclude la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, richiesto da alcune parti appellanti (in particolare, Gemeaz), in quanto il differente trattamento sanzionatorio asseritamene esistente in altri stati membri deriva dalle diverse caratteristiche dell’attività svolta in tali paesi e considerato che comunque alcuna uniformità di trattamento sanzionatorio è imposta dalla disciplina comunitaria, tanto più in presenza di illeciti aventi esclusivo rilievo nazionale.

Deve inoltre essere aggiunto che come già chiarito da questa Sezione, non basta che una parte sostenga che la controversia pone una questione di diritto comunitario perché il giudice di ultima istanza sia obbligato a ritenere configurabile una questione pregiudiziale (Cons. Stato, VI, n. 1885/2000).

Il citato precedente si basa sulla giurisprudenza comunitaria, secondo cui i giudici di ultima istanza non sono pertanto tenuti a sottoporre alla Corte una questione di interpretazione di norme comunitarie se questa non è pertinente (vale a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull’esito della lite), se la questione è materialmente identica ad altra già decisa dalla Corte o se comunque il precedente risolve il punto di diritto controverso, o se la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata (cfr, Corte Giust, CE, 6-10-82, C 283/81, Cilfit).

Nel caso in esame, la questione prospettata dalle parti non è pertinente ai fini del decidere per i motivi evidenziati in precedenza

6.5.3. Sempre al fine di orientare l’Autorità per il riesercizio del potere, il Tar ha inoltre affermato che per « prodotti oggetto dell'intesa » devono intendersi tutti i buoni pasto, e certo non solo quelli del valore facciale di lire novemila offerti nella gara Consip.

Tale statuizione è stata contestata dalle imprese appellanti nelle forme di cui si è detto al precedente punto 6.5.1. in modo che la questione della corretta determinazione del fatturato dei prodotti oggetto dell’intesa deve ritenersi interamente devoluta a questo giudice da parte di tutte le imprese sanzionate.


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