Tabù, eufemismo e disfemismo in Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno



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2. 1. IMPRECAZIONI

L’imprecazione si differenzia dagli altri tipi di turpiloquio non solo perché viene espressa in modo automatico, senza intenzioni premeditate ma soprattutto perché non si rivolge mai ad altre persone. Chi impreca parla a sé stesso ed esprime così la propria aggressività contro una situazione che reputa negativa. Le imprecazioni, nella lingua scritta, di solito vengono rafforzate con punti esclamativi o interiettivi. Le imprecazioni servono per sfogare un’emozione forte e sfruttano la forza simbolica delle parolacce dando indicazioni sullo stato emotivo di chi le dice. Per le imprecazioni si usano termini religiosi, sessuali o scatologici: Gesù, cazzo, merda.


Oggi come eufemismo della parola cazzo432 nell’uso figurato o interiettivo si usa espressione formata parafonicamente cacchio433 o cavolo.434 Nell’epoca di G. C. Croce la parola cancaro435 adotta questa funzione, forse per via dell’assonanza con il disfemismo cazzo: «Bertoldo. Io mi trovo avere un anno per l'altro sei mila scusi e più. Sbirro. Cancaro! Vi sono dei signori che non hanno tanto.».436 Nel dialogo precedente cancaro prende il posto di meraviglia e nella frase seguente la stessa voce esprime la furia: «Cominciate pur a ridere, mo' ridete, cancaro!».437
L’ambito del tabù di superstizione viene violato e per l’imprecazione viene sfruttata la parola diavolo: «Sbirro. Che diavolo ti possono far (peggio) di queste sei cose?».438 L’ortolano davanti al re dice: «Tanto faremo, Signore. Orsù, monta su, Bertoldino, e andiamo. Arri, tà sta'! Che diavolo fai tu! Tu sei caduto dall'altra banda.».439 Neanche un bambino cioè Bertoldino è preso dalla paura e usa la parola nella espressione rabbiosamente blasfema: «Togliete, bestie del diavolo; numerate se sono quattro, overo cento”. Ma non per questo le rane s'acchettavano,[…]».440 Per l’alterazione eufemistica si usa diamine, l’incrocio dei vocativi latini diabŏle e domĭne ed è un’interiezione abbastanza familiare che oltre ad esprimere disapprovazione è anche un’esclamazione di meraviglia o di impazienza. G. C. Croce usa eufemisticamente solo il secondo vocativo: «Re. Che domine può aver fatto costui? Io non so che si possino far cose più brutte o sporche di queste.».441
Nei racconti, talvolta i disfemismi sono eufemisticamente sostituiti dall’esclamazione Oh: «Oh, che tu mi burli, va' via!»,442 «Oh, quanto ha egli da ridere di questo nuovo modo di pescare.»,443 «Oh, egli deve esser il bello ignorante.»,444 «Oh, questa sì vale il resto del carlino!».445 Appartenente alla stessa posizione abbiamo le esclamazioni ohimè, ohibò e orsù che hanno ciascuna una funzione diversa. Il composto di o(h)i me è una espressione di sconforto, per lo più provocata dall’improvvisa constatazione di un male irrimediabile: «Ohimè, ben lo diss'io, ch'io sarei impacciata qua giù con questo bestiolo.»,446 «Ohimè, dov'è restato? era pure in mia presenza; dove sei?»,447 «Ohimè, che fai tu, bestia?»,448 «Ohimè, dove vai?»,449 «Ohimè, taci, che pare che io senta venire gente. […] Ohimè, serra la bocca e non dir niente.»,450 «Ohimè, non mi rompere più il capo»,451 ma è utilizzata anche come lamento: «Ohimè, Dio sa che non lo portino in qualche parte che io non lo veda mai più. Or che debb'io più fare in questo mondo?».452
La voce onomatopeica ohibò è composta da ohi e bo ed esprime sdegno e disapprovazione: «Ohibò, possi tu creppare!».453 Il composto di ora e su ha invece la funzione esortativa e solo in alcuni casi potrebbe essere considerato, come succede per gli altri interiettivi, un eufemismo dell’imprecazione: «Re. L'asino pur sei tu. Orsù, va' dietro.»454 o in una forma temperata di comando con valore conclusivo: «Orsù, monta su, Bertoldino, e andiamo.».455


2. 2. OSCENITÀ

L’oscenità è una scandalosa ostentazione o eccitazione attinente all’ambito sessuale. V. Tartamella sostiene che: «[...] le parole oscene sono le uniche capaci di evocare gli organi sessuali o le funzioni escretorie.».456 Per noi anche un eufemismo possiede tale forza: «[...] si caccia fin sotto i panni delle donne.».457 Nelle novelle l’argomento del sesso, considerato spesso come atto osceno, viene solamente sfiorato nella locuzione: «voi eravate una copia d'amanti molto lascivi»458 detta dal cavaliere Erminio. Ma dietro queste parole non dobbiamo ravvisare atti osceni perché la frase viene riferita agli sposi Marcolfa e Bertoldo e l’aggettivo lascivi (depravati o osceni) si riferisce soprattutto all’aspetto fisico dei coniugi.


2. 3. INSULTI

La gara fra Bertoldo e il servitore Fagotto costituisce un ottimo esempio di insulti. L’attacco qui serve a svilire l’avversario, a ridurre la sua autostima. Nella loro speciale competizione gli oltraggi cominciano metaforicamente dal regno animale: «sei una bestia»,459 «un mal animale»,460 «tu barbagianno caduto dal nido»,461 «allocco spennacchiato»,462 «l'asino»,463 «il porco»,464 «Sei tu un bufalo o una pecora?»,465 «Il nibbio e l'avoltore vanno sempre dietro le carogne.»,466 giungono al campo vegetale: «Quant'è che tu non hai mangiato rape?»,467 fino al fango: «Al porco e alla rana non gli levare il fango.».468 La logica è chiara: abbattere il morale del nemico irridendolo. Per offendersi ancora di più i due personaggi passano a colpire la famiglia: «Fagotto. Sei tu un bufalo o una pecora? Bertoldo. Non mettere in ballo i tuoi parenti.»469 e lo stato sociale di appartenenza: «Fagotto. Il villano è un mal animale. Bertoldo. E l'adulatore è un brutto mostro. Bertoldo. Non fu mai gallo senza cresta, né parassito senza adulazione.».470 Gli insulti, prendendo di mira i difetti psichici come la stupidità, quelli morali come la malizia o l’adulazione e i difetti fisici, che, essendo quelli più facilmente individuabili sono anche i più facili da criticare, sono spesso causa di pesanti emarginazioni. Per Fagotto, il suo punto più debole si dimostra essere proprio un suo difetto fisico e così il buffone della corte viene annientato da Bertoldo con la frase: «Meglio è avere rappezzato le calze che il mostaccio come hai tu.».471



Gli insulti hanno il potere di colpire la dignità ma a volte possono esprimere persino l’opposto dando così l’idea di affinità, affetto e intimità. In questi casi, il contenuto offensivo diventa superfluo, si sfrutta solo il suo stile e il suo senso di libertà. Questi insulti di “affiatamento” marcano la vicinanza o la provenienza fra le persone e il contegno della loro comunicazione è più rilassato, confidenziale. Marcolfa si rivolge al suo «figliuolaccio, bambocciaccio» Bertoldino con degli insulti: «bestiolo»,472 «Oh zucconaccio da semente»,473 «Uccellaccio sei tu, bestia, balordo […] cavallaccio da pistrino.»,474 «O pazzo, matto, bismatto e senza cervello che sei, ch'io non so che mi tenghi ch'io non t'affochi.».475 Ma gli insulti pronunciati dalla sua bocca, sembrano più essere delle giustificazioni e si nota un forte senso materno. Questo magari non è appariscente a prima vista, ma diventa evidente tutte le volte che lo protegge dopo i guai che combina e vuole portarselo nella loro casupola di montagna da dove è stato sradicato. Gli insulti per lei sono soprattutto uno sfogo: infatti, non osa rivolgersi con le stesse parole alle persone fuori dell’ambito familiare.
Anche il re e la regina sono legati prima a Bertoldino e poi a Cacasenno, ma è ovvio che l’amore materno è tutta un’altra cosa e per loro quei ragazzi sono solo uno svago che, in quanto tale, potrebbe con il tempo non esser più apprezzato. Da un insulto materno si può distinguere un insulto amichevole e benevolo: «[…] è riuscito più semplice, che già non fu suo Padre, e più grosso dell'acqua dei maccheroni».476
Gli insulti oltre ad essere diretti ad altri, possono essere indirizzati anche contro sé stessi. Spesso accade dopo aver sbagliato o aver commesso un grave errore: «O meschina me, non fuss'io mai venuta qua giù con questo guffo!»477 si può usare anche il plurale quando ci si sente responsabili di un errore collettivo: «Meschine noi, come avremo più faccia di tornare innanzi al Re, poiché non abbiamo osservato il suo comandamento, né abbiamo solo potuto tener stretto l'uccello per una notte. Misere e sconsolate noi,[…]».478 L’arabismo meschino ‘povero, indigente’479 viene usato con lo stesso significato eufemistico della parola italiana: «Povera me, questa pecora balorda mi ha svergognata per la Corte;[…]»480 e del grecismo tapino ‘meschino’481quindi, nella frase: «Povera me tapina, che spettacolo è questo?»482 sarebbe un pleonasmo.
2. 4. MINACCE
Minacce, nel tentativo di intimidire l’antagonista, comunicano velatamente o espressamente l’intenzione di nuocere. Una minaccia è un modo per annunciare quello che potrebbe accadere e viene espressa con diversi tempi verbali. Le frasi minacciose nelle novelle vengono esternate al presente con il verbo modale volere accompagnato da un verbo d’azione: «Bertoldino. Io voglio tagliar l'orecchie a questo asinaccio che ci sta ascoltare.»,483 può essere abbinato anche ad un verbo di movimento: «Non mi tenete, ch'io gli voglio andare a gettare questa cassa sulla testa.».484 Di solito, una minaccia provoca una reazione dell’avversario e quindi arrivano immediatamente le risposte, anch’esse minacciose: «Libera. Aspetta, che io ti voglio battere questo zoccolo su quel grugno di porco. Bertoldino. Se tu mi romperai il grugno di porco, e io ti ammaccarò quel naso di civetta con questa scarpa.»485 e così via: «Libera. Se io mi cavo una pianella, te la butterò sul capo, bestia, villano, porco che sei.».486 Le minacce espresse in tale maniera vengono formate con il periodo ipotetico della realtà che viene usato anche nei litigi perpetui fra il re e Bertoldo:
«Re. Orsù, io ti comando che or ora tu ti debbi partire dalla presenza mia, se non io ti farò cacciare via con tuo danno e vergogna. Bertoldo. Io anderò, ma avvertisci che le mosche hanno questa natura, che se bene sono cacciate via, ritornano ancora: però se tu mi farai cacciar via, io tornerò di nuovo ad insidiarti. Re. Or va'; e se non torni a me come fanno le mosche, io ti farò battere via il capo.».487
Alla fine, il re si spinge fino a minacciare con la pena corporale: «Re. Se tu non mi fai vedere questo, io ti voglio far battere duramente.»488 Poi il re mette l’avversario nella condizione di dover scegliere tra la vita e la morte: «Bertoldo. Ma che dirai tu se io ti farò tornare a dietro tutto quello che in suo favore hai detto, prima che tu vadi a dormire doman di sera? Re. Quando tu farai questo, il quale tengo che sia impossibile che lo facci, io dirò che tu sei il primo uomo del mondo; ma se tu non lo farai io ti farò impiccar subito.».489 Il sovrano arriva sino alla minaccia di infliggere la pena capitale: «Re. Pur ti ci ho colto, villan ribaldo, ma a questa volta non scamperai del certo, se non sei il gran diavolo. […] Bertoldo. E il menar de' piedi dispiace a chi è tratto giù dalle forche. Re. Fra un poco tu sarai uno di quelli.».490
Oltre il periodo ipotetico della realtà, pronunciato ora da Marcolfa, Bertoldino usa il periodo ipotetico della possibilità quando fa finta di dormire:
«Marcolfa. E svégliati in tua buon'ora; se no, ch'io ti tirerò giù del letto. […] Bertoldino. Chi è questo barbone ch'è qui con voi? È egli un castratore? Affé, me non castrarete, messere. Andate pure a fare i fatti vostri e ringraziate il Cielo ch'io dormo, ché s'io non dormessi mi levarei su e vi darei tante bastonate che io vi fiaccherei; ma buon per voi che io non son svegliato.».491
Nel discorso indiretto, il periodo ipotetico assume l’aspetto della lingua parlata, perché nella protasi lo scrittore invece di usare il congiuntivo trapassato sceglie la forma dell’imperfetto:492 «Bertoldo.[ …] però se tu mi farai cacciar via, io tornerò di nuovo ad insidiarti. Re. Or va'; e se non torni a me come fanno le mosche, io ti farò battere via il capo. Non ti diss'io che, se tu non tornavi a me come mosca, ch'io ti farei gettar via il capo dal busto?».493
La minaccia è quindi un modo per avvertire e si usa spesso il futuro, che ha in questo caso la scopo di fornire una previsione di cosa succederà di poco piacevole: «sì ch'io vi darò sul capo con questo bastone»,494 «io ti farò dare condegno castigo»495 o di assolutamente negativo: «Tu non camperai del certo questa volta, usa pure quanta malizia tu puoi e sai».496

Nel testo possiamo trovare anche le minacce eufemistiche, quando il pericolo non viene pronunciato e viene usato il futuro di verbi molto generici con un pizzico d’ironia: «domattina vedrai che opera io avrò fatta per te»,497 «Ma gli provederò ben io adesso adesso.»,498 «Ah, canaglia, io vi farò ben vedere […]».499



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