Tabù, eufemismo e disfemismo in Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno



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2. 5. MALEDIZIONI

Una maledizione trae le sue origini nei riti magici delle popolazioni primitive: a quel tempo, alle parole si assegnava il potere di evocare l’evento e di influenzare la realtà. Una maledizione è l’opposto di una benedizione o degli auguri ed entrambe si riferiscono al futuro. Ironicamente, una benedizione può anche sostituire e velare eufemisticamente una maledizione: «Or ecco l'ortolano che viene in qua. Tu l'udirai bene dire il fatto suo, e avrà gran ragione, e converrà che tu gli paghi il suo asino, che gliel'hai abbertonato.».500 La maledizione si basa sulla fiducia in un desiderio che si dovrebbe avverare. Oggi la visione magico-religiosa della condanna non viene percepita molto seriamente ma sopravvivono ancora alcune formule antiche. Con il passare del tempo, queste formule si sono formate e cristallizzate in espressioni come Accidenti!, dove mancano le parole che però sono sottintese e sono facilmente individuabili: ti vengano. Da G. C. Croce possiamo ottenere delle formule non sintetizzate: «andate a malora»501 o «ti lasso con il malanno che ti pigli».502 Le maledizioni sono cariche di odio e non si fermano neanche davanti ai mali peggiori: «Sartore. O ti venga il cancaro, porcaccio!»503 fino a esortare persino la morte «Ohibò, possi tu creppare!».504 Per evitare una maledizione, Bertoldo ha pronto un consiglio: «Servizio con danno, Dio ti dia il mal anno.».505



2. 6. GERGO - SLANG
Le parolacce possono avere lo scopo di marcare l’appartenenza a un gruppo sociale. Questo succede più spesso, nei confini della lingua parlata, in gruppi di persone per non farsi comprendere, per motivi di segretezza o di solidarietà. Il gergo, cioè le parole concordate, accettate e usate in gruppi ristretti hanno un’influenza piuttosto limitata e, molto spesso, non vengono recepite nella lingua comune. A volte il gergo può diventare slang perché viene preso in prestito da piccoli gruppi sociali (adolescenti, emarginati) e poi le parole vengono diffuse ad un livello più ampio.V. Tartamela dice che: «Il gergo è un linguaggio rozzo, ma efficace: minima spesa, massima resa.».506 La culla del gergo è sempre stata la delinquenza e la criminalità: i loro termini gergali, quando escono dall’ambito della malavita, si usano per scherzo e vengono rimpiazzati da termini nuovi. All’ambito della malavita è legata anche la prigione, un luogo impregnato dal gergo. G. C. Croce conosce questo ambiente per esperienza personale e P. Camporesi vede legami anche nelle sue opere:

«Così, nel Bertoldo, lo sbirro esita a sostituirsi nel sacco al villano-guidone, per paura che, scoperto gli «facessero tirare il guindo» o il «saltarello del groppo». Ma naturalmente l'«astuto» mette «nelle peste» lo «sciocco» che a poco a poco cade nella «rete»; allora Bertoldo «compra il porchetto» il che, secondo la glossa furbesca del Modo nuovo de intendere la lingua zerga, non vuol dire altro che «andar presto, fuggire». Il mondo della «birba» e della «furfa» riesce in tal modo a penetrare anche fra le pieghe del Bertoldo.».507



3. CONCLUSIONE

Abbiamo divisa la nostra ricerca sul tabù, sull’eufemismo e sul disfemismo in due parti. Nella prima parte abbiamo cercato di introdurre la problematica del tabù linguistico, dell’eufemismo e del disfemismo, tenendo conto della complessità e della irregolarità, e di tratteggiare le caratteristiche di tali fenomeni linguistici. Nel campo degli studi italiani intorno al tabù vogliamo segnalare il testo della linguista Nora Galli de’ Paratesi Le brutte parole e il libro del giornalista Vito Tartamella Parolacce, le uniche monografie dedicate interamente all’argomento. Essendo limitati dalla scarsità degli studi glottologici italiani sul tabù linguistico ci siamo serviti dell’analisi del linguista spagnolo M. C. Gómez e del lavoro comparativo della linguista polacca A. Dąbrowska. Le espressioni eufemistiche o disfemistiche non formano un gruppo eterogeneo del lessico di una lingua. Si tratta degli eventi di diversa natura che, nonostante questa diversità, mostrano certi aspetti identici.


Nella seconda parte abbiamo preso in considerazione il movente psicologico come un criterio per distinguere diversi tipi di interdizione. È stato utile tenerlo presente perché le cause del tabù linguistico sono psicologicamente diverse tra loro e hanno diversi aspetti linguistici. Dopo la specificazione delle caratteristiche psicologiche del tabù linguistico abbiamo radunato tutti i termini che si riferiscono agli oggetti colpiti da interdizione. Per il nostro studio semantico abbiamo scelto il lessico della lingua italiana popolare secentesca.
Il lessico italiano per la maggior parte deriva dal latino e dal lì sono arrivate in italiano parole come: natica, culo, merda, cacca, sterco, urina. Gli eufemismi o disfemismi provenienti dal latino ovviamente non fanno tutta la parte del lessico eufemistico o disfemistico. Al fondo ereditario con il tempo si sono aggiunti gli eufemismi e i disfemismi provenienti da diverse lingue. Nel nostro caso i forestierismi infrangono il tabù sociale: meschino, bugiardo, ribaldo, vigliacco, assassino. La formazione del lessico italiano offre numerosi spunti anche per il lessico eufemistico o disfemistico e possiamo assegnare il primato proprio agli scrittori scelti: a Adriano Banchieri per l’uso del composto Cacasenno e a Giulio Cesare Croce per la parola taffanario.

Al livello semantico abbiamo visto che l’eufemismo e il disfemismo si servono spesso dei diversi traslati individuati già dai linguisti citati:508 metafora, metonimia, sineddoche, iperbole, antonomasia, litote e noi abbiamo ricavato dalle novelle in più anche: climax, chiasmo, paronomasia e sinestesia. Le figure retoriche si propongono di innovare il linguaggio e le ragioni del cambiamento del linguaggio possono essere molto varie. Il parlante può sentire il bisogno di aumentare l’efficacia delle sue espressioni linguistiche o può formare termini nuovi che permettono di evitare quelli colpiti dall’interdizione verbale. Ma come le figure retoriche sono gli “effetti speciali” che catturano l’attenzione possiamo esprimere la nostra oppinione: l’eufemismo non si usa solo per nascondere o velare un argomento ma pare che il risultato sia ben contrario a quello che il tabù esigerebbe. Il tabù risvegliato così passa a una condizione diversa e diventa l’oggetto dell’umorismo.


Abbiamo osservato che gli eufemismi nascono in due modi. Nel primo caso sono causati dal tabù e nel secondo caso velano i disfemismi anche essi causati dal tabù. L’eufemismo si potrebbe paragonare a due farmaci diversi: ad un sedativo con l’effetto calmante e ad uno stimolante con l’effetto intrigante. I disfemismi sono un ingrediente essenziale della comicità o servono anche a sdrammatizzare le cose serie, sminuendole un po’. Gli escrementi vengono menzionati per esprimere disgusto, per divertimento, per attirare l’attenzione o semplicemente per provocare. I disfemismi che riguardano il tabù della morte sono caratterizzati dalla paura che essa provoca e si distinguono per la loro disperata allegria. La comicità riassume molte funzioni della parolaccia: eccitare, avvicinarsi, attirare l’attenzione, provocare e anche offendere.
Pertanto, gli eufemismi o i disfemismi non possono essere valutati analizzando un termine isolandolo dal preciso contesto in cui viene utilizzato perché non sono proprietà insite nelle parole, ma valori che le parole assumono avvalendosi della situazione nella quale vengono adoperate.
Inoltre tutto abbiamo visto che gli eufemismi e i disfemismi di una lingua si appoggiano sugli eventi storici in generale ma anche sulla cultura del popolo della propria nazione. L’ulteriore approfondimento dell’argomento è utile non soltanto per la conoscenza della cultura o della mentalità di un popolo in una determinata epoca, ma soprattutto per lo studio linguistico di una lingua e quindi il fenomeno del tabù, dell’eufemismo e del disfemismo meriterebbe maggior interesse dalla parte degli studiosi di linguistica.

BIBLIOGRAFIA


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1. Sonne, Mond und Feuer (il sole, la luna e il fuoco)

2. Tiernamen (i nomi degli animali)

3. Der religiöse Bereich (l’ambito religioso)

4. Krankheiten und Tod (le malattie e la morte)

5. Körperteilnamen (i nomi delle parti del corpo)

6. Tabuisierung zur Schonung (tabù di delicatezza)

7. Ich-Tabuisierung (tabù dell’io)

8. Tabu des Westens (tabù dell’ovest)509


Le 510 «Austria und Neustria, nicht aber “Westria”, Ostgoten, Ostrogothen, Austrogoti, aber keine “Westgoten”, sonder Visi, Vesi, Wisigothi d.h. “die Guten, die Wackeren”.».511Una superstizione simile è ravvisabile anche nelle lingue romanze e G. Bonfante spiega la superstizione riscontrabile per la parola sinistra: «I nomi francesi e spagnoli della “sinistra”, che porta sfortuna, sono spesso dei nomi stranieri (fr. gauche è germanico, sp. izquierda è basco) mentre i nomi della “destra” concordano e sono di origine latina: fr. droite, sp. derecha, ital. diritta.».512

Molti linguisti513 sfruttano una classificazione più stretta proposta da João da Silva Correia (1927). Il linguista portoghese identifica quattro categorie di eufemismi causati dal tabù:514


1

Alla luce di quanto finora osservato, il modello che riteniamo di proporre e che useremo nelle prossime analisi si basa sui fattori psicologici che sviluppano sia eufemismi che disfemismi:


1. Tabù magico - religioso (superstizioso)

2. Tabù sessuale

3. Tabù scatologico

4. Tabù sociale2. 2. EUFEMISMO

«La particolarità del tabù linguistico è quella di trovare delle risorse all’interno del linguaggio stesso, in grado di far fronte a questa disgregazione, a questa impurità che rompe il senso del pudore. Tali risorse sono costituite dalla produzione di eufemismi.».515 In pratica, si sostituisce un’espressione con un’attenuazione o un’alterazione suggerita dallo scrupolo morale o religioso.516 A. Dąbrowska propone un elenco dei mezzi che concorrono alla realizzazione di tale fenomeno: «Eufemizm rozumiem szeroko - na płaszczyźnie językowej mogą to być wszelkie środki formalne (fonologiczne, morfologiczne, składniowe) i semantyczne, ktόre mogą być wykorzystane do stworzenia określeń zastępczych (synonimόw tekstowych) w stosunku do nazwy właściwej (verbum proprium).».517Alcuni linguisti hanno voluto approfondire l’argomento e cominciano dalla spiegazione dell’origine dell’eufemismo per arrivare al significato del termine. Émile Benveniste lo definisce prendendo spunto dall’etimologia ellenica: ‘dire le parole di buon augurio’:«Dans l’exégèse de ces mots [εύφημία εύφημισμός] il s’est introduit une confusion entre les valeurs de «langue» et celles de «parole» (au sense saussurien). Les acceptions religieuses, avec toutes leurs résonances, leurs associations, leurs interférences, relèvent de la «parole». Mais ces acceptions ne se déterminent qu’à partir d’une valeur purement linguistique [...]. On doit donc commencer par restaurer la signification propre de εύφημετν, εύφημία, et celle-ci est indubitablement positive; il faut affirmer, puisque cette évidence a été méconnue, que εύφημετν signifie toujours et seulement «émettre des paroles de bon augure.».518

Anche Paul Zumthor si è interessato dell’origine dell’eufemismo; secondo lo studioso, tale parola: «relève originellement du vocabulaire sacral»,519 perciò il fenomeno linguistico era usato principalmente per i riti sacri: «Il désigne en principe l’emploi d’expressions fastes au cours du sacrifice; en pratique, l’exclusion de toute expression néfaste au sein du sanctuaire.».520 Nel corso della sua analisi, il linguista svizzero non ha mancato di segnalare l’evoluzione semantica della parola eufemismo dovuta al progresso e alla mutazione culturale della società:«Il constitue un phénomène psychologique primaire, mais dont la signification évolue avec le temps: à mesure qu’un groupe humain se libère davantage de ses liens primitifs, l’euphémisme perd en valeur religieuse et se trouve lié plus souvent à la volonté de décence, à la politesse, à la maîtrise de soi, à un idéal de bienséance et d’harmonie collectives. Il glisse ainsi de plus en plus vers une fonction morale et, selon les besoins et l’occasion, finit par comporter, dans le langage des civilisations les plus différenciées, un aspect proprement esthétique».521È evidente che è possibile esprimere in concetto di eufemismo in vari modi. M. C. Gómez sostiene che la definizione proposta da Ricardo Senabre ha determinato il concetto linguistico con «mayor profundidad»522 basandosi su alcuni nozioni della glossematica523 come per esempio: sincretismo524 e correlazione525


Il linguista «analiza paso a paso los distintos elementos que conforman lingüísticamente el processo eufemístico»526 e definisce tale fenomeno come: «sincretismo léxico resolubre, producido en el plano del contenido y al nivel del emisor y del que sόlo se manifesta el términe extensivo o no marcado.».527 L’autore della definizione, quando usa la parola resolubre, intende dire che un eufemismo espresso con un sinonimo potrebbe generare confusione nell’ascoltatore e quindi potrebbe essere disinterpretato.
Dai testi finora

kakofemizm zdanie prawdziwe eufemizm

- x 0 + x ».528

Per Keith Allan e Katy Burridge si può addirittura parlare di «euphemistic dysphemism and dysphemistic euphemism»529: i due termini, in apparente contraddizione, per i due autori non sono in opposizione:


Gaetano Berruto mette il disfemismo e l’eufemismo in opposizione sullo schema della parola morire. Ma il verbo nello schema viene connesso a ben tre assi:


1. l’asse formale – informale che determina il registro

2. l’asse solenne – volgare che afferra gli effetti connotativi legati all’ambito di interazione

3. l’asse eufemismo – disfemismo che chiarisce l’atteggiamento del parlante530






Azioni

Turpiloquio






























































Il blocco nel discutere della morte è ancora più forte quando la morte è voluta o provocata. Forse questo avviene, oltre per le naturali ragioni di paura, anche per un fatto religioso perché l’omicidio e anche il suicidio sono ritenuti fra i peggiori peccati.


L’eufemismo: «farlo privar di vita»531 è molto generico e non ci offre maggiori informazioni sull’accaduto. La parola «uccidere»532 deriva dal latino ob-caedo ‘tagliare’ e nella locuzione: «prese una falce e corse alla sua volta per ucciderla»533 assume probabilmente senza l’intenzione dello scrittore tale significato. Il termine uccidere difficilmente viene percepito in tal senso in quanto assume un significato molto generico; in questo contesto sostituisce ad esempio il verbo sparare: «Onde il Contadino si prese tanto disgusto di aver ucciso il suo Cane, […]». Anche la parola «ammazzare»534 significa letteralmente ‘percuotere con una mazza’, ma acquisisce un significato più generico perché il cane «miserabilmente ammazzato dal Contadino con un'archibugiata.»535 non è stato certamente picchiato con l’arma. Oggi la parola ammazzare è più brutale della parola uccidere, ma nelle novelle sono sullo stesso livello ed entrambe si usano in senso generico.
A. Banchieri usa per fucilare la locuzione: «con un’archibugiata mi dà l’ultimo vale»536 ma siccome dare l’ultimo vale rientra tra gli eufemismi l’intera locuzione suona piuttosto beffarda. Anche G. C. Croce prende di mira il tabù della morte quando usa al posto delle parole far avvelenare e far morire l’espressione: «mi potrebbe dar forse il boccone e farmi tirare le calcie».537
P. Camporesi afferma che: «Il linguaggio secentesco è particolarmente ricco d’espressioni riguardanti le esecuzioni capitali per impiccagione.»,538 e infatti, dal discorso fra Bertoldo e lo sbirro emergono subito due disfemismi: «Sbirro. Qualche buffalaccio farebbe tal pazzia, che, come mi scoprissero poi, e ch'io non fussi te, mi facessero tirare il guindo539 e farmi fare il saltarello del groppo.»540 Oggi queste locuzioni sono cadute completamente in disuso e risultano anche poco comprensibili. In Italia la penna di morte per impiccagione non esiste più da molto tempo e quindi è sparito il rapporto arbitrario dei disfemismi. Al contrario, i disfemismi dove viene espressamente pronunciato lo strumento per l’impiccagione non presentano alcuna difficoltà di comprensione: «Che vuoi tu che dica il Re di questa tua pazzia, quando la saprà? Questa è la volta ch'egli ci espedirà per tante bestie e ci caccerà alle forche, e meritamente, solamente per le tue gran balordaggini, le quali sono tanto grandi, che un pazzo affatto non ne farebbe di più»541 o ancora nella preoccupazione di Bertoldo nei confronti della regina: «che in quanto della vita mia non credo ch'ei se ne curi un aglio, anzi credo che egli mi vorrebbe piuttosto vedere sulle forche.».542
Nelle novelle i disfemismi più mascherati e poco riconoscibili sono quelli che derivano dall’inganno inventato da Bertoldo nei confronti dello sbirro. Per capire di cosa parla la regina o il narratore e per intendere le sostituzioni bisogna analizzare con attenzione tutto il ragionamento tra Bertoldo, lo sbirro e la regina. La frase: «Dopo che l'infelice sbirro fu mandato a bere,»543 tolta dal suo contesto non sembra assolutamente un disfemismo ma nella novella sostituisce le parole fu mandato a morire, quindi si potrebbe parlare del disfemismo eufemistico. Anche la sostituzione disfemistica della parola affogare nasce dall’inganno bertoldesco: «la Regina lo fece tornar nel sacco e portarlo a gettar nel fiume, e così quel povero disgraziato tirò le doble di peso, mal per lui, e in cambio di prender moglie s'ammogliò nell'Adice del tutto.».544

DEFUNTON. Galli de’ Paratesi afferma che: «Al nome del morto si accompagna l’aggettivo il povero.».545 Ma non si può certo dire che la parola povero sostituisce sempre la parola defunto: «Restò dunque il povero Bertoldo serrato nel sacco, con la guardia di quello sbirro; e avendosi imaginato una nuova astuzia, mostrando di parlare fra se stesso, incominciò querelandosi a dire:[…]».546 L’aggettivo povero, anteposto al nome indica semplicemente la commiserazione dell’oratore: «Onde, vedendosi il povero Bertoldo in così gran pericolo, ricorse di nuovo all'usata astuzia,» 547 o «cominciarono a bastonare il povero sbirro».548 La commiserazione non è necessariamente motivata da condizioni oggettive di disagio e spesso si limita ad essere a una premura affettuosa: «pensando pure, il povero sempliciotto».549 L’anteposizione della parola povero può esprimere il rimpianto per aver perso una persona cara o anche un animale. Ma nella frase seguente, se l’aggettivo povero sostituisce la parola defunto risulterebbe un pleonasmo, quindi è più logico presumere che esprima commiserazione: «e son sicuro che il mio povero Cane è morto per malizia di detta Volpe».550 L’aggettivo infelice viene usato in contesti simili perché fu mandato a bere abbiamo individuato come la sostituzione dell’affogare: «Dopo che l'infelice sbirro fu mandato a bere, […]».551 Ma anche esso mostra la commiserazione e non sostituisce la parola defunto. Invece nella frase seguente, l’aggettivo povero, anteposto alla parola disgraziato, sostituisce sicuramente la parola defunto perché altrimenti sarebbe un pleonasmo: «la Regina lo fece tornar nel sacco e portarlo a gettar nel fiume, e così quel povero disgraziato tirò le doble di peso, mal per lui, e in cambio di prender moglie s'ammogliò nell'Adice del tutto.».552 Pertanto, con ogni probabilità l’oggetto della commiserazione è espresso solo con la parola disgraziato e di conseguenza la parola povero sostituisce eufemisticamente la parola defunto. I valori possibili derivati dalle anteposizioni e posposizioni vengono mostrati nella seguente tabella:


Squattrinato

































«Regina. Voglio dire se ti senti più aggravato dal male, ch'io intendo che sei stato infermo un poco. Bertoldino. Io non mi sono mai partito da casa se non ora: guardate voi se io sono stato a Fermo, né manco so dove si sia, e che cosa è questo Fermo? un pagliaro, o pur una colombara?».553

Bertoldo vede il rapporto sessuale come uno svago: «Mia sorella tutto quest'anno s'è data trastullo con il suo marito, e ora piange nel letto i dolori del parto.».554 Il sesso tra coniugi è una cosa considerata regolare, ma fuori del matrimonio «se una donna fa l'amore»555 e non si astiene dalle esperienze sessuali non consentite al suo stato cioè non è «casta overo impudica»556 cioè vergine teme poi «di non essere scoperta di qualche macchia»557 ebbene alla corte «tutte avevano, come si suol dire, qualche straccio in bucato.».558



La parola montanaro viene usata sia in vero senso di provenienza « Ben vi fu un montanaro che di lì a poco tempo venne al piano[…]»559 sia con il con il valore spregiativo: «due goffi e rustici montanari»560 o proprio con il suffisso peggiorativo. Lo spostamento di significato e l’uso della parola viene spiegato nella novella:
«Restarono grandemente meravigliati il Re e la Regina dell'eloquenza di Marcolfa, né la giudicorno Donna montanara, ma sì bene abitatrice della montagna, la quale ben dava saggio che fu moglie dell'astuto Bertoldo, tanto celebre al mondo.».561


MESTIERI
«Re. Qual è il vostro nome?Notaro. Io mi addimando Cerfoglio de' Viluppi, per servirla sempre. Re. Bel nome avete certo e anche il cognome può passare; ma vi starebbe meglio al parer mio nome Sier Imbroglio, poiché imbrogliate così bene il mondo. Orsù, leggete allegramente, Sier Cerfoglio, e dite forte, adagio e chiaro, ch'io v'intenda.»562
La parola notaresco, formata dal suffisso -esco, che dovrebbe riferirsi alle cose caratteristiche nell’ambito di notai, ma forse per via dell’ostilità motivata dal sussiego burocratico, assume solo il valore negativo. G. C. Croce manifesta questa ostilità tramite il re, il quale invita il notaio a leggere una «lettera notaresca»563 dichiarando che non capisce molto: «per le stravaganti zifere che vi solete fare per dentro.»564
L’esecutore della condanna a morte viene in italiano chiamato boia o manigoldo: «Bertoldino. Non sei tu il boia?»565 La parola manigoldo si usa per designare anche una persona spietata, che si accanisce maggiormente contro chi è debole e indifeso: «Marcolfa. Ah, manigoldo che sei, mira qua la bell'opera che tu hai fatto, sporco, bestia! […] Guarda qui, bestiaccia, quello che tu hai fatto, che tu mi hai rotto tutte le ova e hai soffocato tutti i pavarini, i quali cominciavano già a nascere,[…]».566 Neanche «quei maladetti pesci»567 stanno in salvo da Bertoldino: «E che burla è questa che tu gli hai fatto? Di' su, manigoldo, ch'io m'aspetto un'altra pazzia maggior di questa. Bertoldino.»568 In Italia la parola manigoldo è arrivata dalla Germania e deriva dal nome del teologo e filosofo tedesco Manegold569 de Lautenbach570 vissuto nell’XI secolo. G. C Croce si serve dell’antonomasia anche nelle offese: «Re. Tu ridi, manigoldo?»,571 Re. Che cosa vuoi tu fare manigoldo?»572 e anche lo sbirro offende Bertoldo: «tu dei essere un brutto manigoldo.»573

2. DISFEMISMISotto il termine disfemismo si possono distinguere vari tipi di turpiloquio e diversi tipi di interdizione: magico-religiosa, sessuale, scatologica o sociale. Tutti i tipi sono psicologicamente diversi fra loro e hanno diversi aspetti linguistici. Per l’analisi che svolgeremo in questo capitolo ci serviremo della classificazione di V. Taratamella (si veda p. 24).

’ambito del tabù di superstizione per l’imprecazione viene sfruttata la parola diavolo: «Sbirro. Che diavolo ti possono far (peggio) di queste sei cose? ».574 L’ortolano davanti al re dice: «Tanto faremo, Signore. Orsù, monta su, Bertoldino, e andiamo. Arri, tà sta'! Che diavolo fai tu! Tu sei caduto dall'altra banda.»575 Neanche un bambino cioè Bertoldino è preso dalla paura e usa la parola nella espressione rabbiosamente blasfema: «Togliete, bestie del diavolo; numerate se sono quattro, overo cento”. Ma non per questo le rane s'acchettavano,».576 Per l’alterazione eufemistica si usa diamine, l’incrocio dei vocativi latini diabŏle e domĭne ed è un’interiezione abbastanza familiare che oltre ad esprimere disapprovazione è anche un’esclamazione di meraviglia o di impazienza. G. C. Croce usa eufemisticamente solo il secondo vocativo: «Re. Che domine può aver fatto costui? Io non so che si possino far cose più brutte o sporche di queste.».577


Nei racconti, talvolta i disfemismi sono sostituiti dall’esclamazione Oh: «Oh, che tu mi burli, va' via!»,578 «Oh, quanto ha egli da ridere di questo nuovo modo di pescare.»,579 «Oh, egli deve esser il bello ignorante.»,580 «Oh, questa sì vale il resto del carlino!».581 Appartenente alla stessa posizione abbiamo le esclamazioni ohimè, ohibò e orsù che hanno ciascuna una funzione diversa. Il composto di o(h)i me è una espressione di sconforto, per lo più provocata dall’improvvisa constatazione di un male irrimediabile: «Ohimè, ben lo diss'io, ch'io sarei impacciata qua giù con questo bestiolo.»,582 «Ohimè, dov'è restato? era pure in mia presenza; dove sei?»,583 «Ohimè, che fai tu, bestia?»,584 «Ohimè, dove vai?»,585 «Ohimè, taci, che pare che io senta venire gente.[…] Ohimè, serra la bocca e non dir niente.»,586 «Ohimè, non mi rompere più il capo»,587 ma è utilizzata anche come lamento: «Ohimè, Dio sa che non lo portino in qualche parte che io non lo veda mai più. Or che debb'io più fare in questo mondo?».588


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