29
Merita inoltre soffermarsi sulla funzione assegnata alla pena in questa
Novella: a tal fine occorre tornare nuovamente al caso della donna che, in
seguito al rapimento, sposi di sua volontà l’uomo che l’ha sottratta alla
casa paterna. Nella prassi infatti il matrimonio riparatore (coniugium raptus
scelere contractum) era alquanto frequente e, pur essendo illegittimo, creava
delle situazioni familiari durature nonché problemi ereditari che
coinvolgevano anche il diritto civile. La pratica, di fronte a questi casi,
sosteneva che, esistendo di fatto un matrimonio anche se privo dei
caratteri della liceità, la donna avesse diritto alle sostanze del rapitore. Di
fatto, nella società, le nozze riparatrici erano equiparate, agli effetti
civilistici, al iustum matrimonium.
Nov. 143 (150), riaffermando l’invalidità del matrimonio contratto
mediante rapimento, nega invece tale possibilità, che viene definita un
vero e proprio “praemium legis” immeritato. L’enunciato “nam nefarios
huiusmodi coitus poenis corrigi, non praemiis competit honorare” contiene un
chiaro riferimento alla funzione assegnata alla pena: si tratta di un duplice
accenno da un lato al valore educativo della sanzione, che traspare
dall'uso del verbo “corrigi”, dall'altro alla funzione retributiva, in quanto il
testo implica che al reo spetta, in relazione al crimine commesso, una
punizione e non un premio. Questa costituzione si colloca dunque in una
prospettiva assai diversa dallo scopo preventivo della pena che si ritrova
in buona parte della legislazione penale di età giustinianea.
4. Il rapimento di donne
deo dedicatae: CI. 1, 3, 53 (54) e Nov. 123, 43
Anche se CI. 9, 13, 1 non esclude dall’ambito della sua applicazione il
ratto di vergini e vedove deo dedicatae, a questa materia è rivolta una
specifica costituzione, CI. 1, 3, 53 (54), che si pone come lex specialis rispetto
alla prima.
A dimostrazione che le due leggi formano un complesso organico vi è il
fatto che sono state promulgate a Costantinopoli lo stesso giorno (il 17
30
novembre del 533), sono rivolte al medesimo funzionario (il magister
officiorum Ermogene) e trattano la stessa materia. Al di là del contenuto
normativo, la principale differenza consiste nella circostanza che la prima
legge è inserita nel libro 9 del Codice, al titolo 13 De raptu virginum seu
viduarum nec non sanctimonialium mentre la seconda compare al libro 1,
titolo 3, sotto la rubrica De episcopis et clericis et orphanotrophis et
brephotrophis et xenodochis et asceteriis et monachis: infatti la prima
costituzione punisce il ratto di donne “laiche” e stabilisce, come sede
giurisdizionale del processo, le corti dei governatori provinciali (cognitio
extra ordinem) mentre la seconda prevede la giurisdizione del vescovo
(episcopalis audientia) per l’esperimento di azioni a tutela delle religiose
rapite. Ne consegue che anche la collocazione delle disposizioni all’interno
del Codice sia diversa.
CI. 1, 3, 53 (54) si riferisce esclusivamente al rapimento di vergini,
vedove santimoniali e diaconesse, dove per santimoniali si intendono
quelle donne, in stato di verginità o di vedovanza, votate a Dio e alla
castità, mentre le diaconesse sono vergini e vedove consacrate che
rivestono particolari funzioni nella liturgia e sono diffuse soprattutto in
Oriente (
27
).
(
27
) Per quanto riguarda il rapimento di donne consacrate a Dio, già nel 354 fu emanata
una costituzione che parificava il ratto di vedove – fino ad allora considerato meno grave
perché si trattava di donne non più illibate – con il ratto di vergini deo dedicatae: CTh. 9,
25, 1: Imp. Constantius A. ad Orfitum. Eadem utrumque raptorem severitas feriat, nec sit ulla
discretio inter eum, qui pudorem virginum sacrosanctarum et castimoniam viduae labefactare
scelerosa raptus acerbitate detegitur. Nec ullus sibi ex posteriore consensu valeat raptae blandiri.
Dat. XI k. Sept. Constantio A. VII et Constante C. conss. [354 Sept. 22]. Successivamente,
con una legge del 364, Gioviano punisce con la pena capitale il ratto e il tentativo di ratto
perpetrati contro religiose a scopo di matrimonio: CTh. 9, 25, 2: Imp. Iovianus A. ad
Secundum p(raefectum) p(raetori)o. Si quis non dicam rapere, sed vel attentare matrimonii
iungendi causa sacratas virgines vel viduas, volentes vel invitas, ausus fuerit, capitali sententia
ferietur. Dat. XI k. Mar. Antiochiae Ioviano A. et Varroniano conss. [364 Febr. 19]. Ratto
consumato e tentativo di ratto sono quindi equiparati. Infine va segnalata una
costituzione promulgata nel 420 da Onorio in Occidente e conservata in CTh. 9, 25, 3, che
punisce chi, tramite istigazione, circuisce una religiosa: Impp. Honor(ius) et Theod(osius)
AA. Palladio p(raefecto) p(raetorio). Post alia: Si quis dicatam deo virginem prodigus sui
raptor ambierit, publicatis bonis deportatione plectatur, cunctis accusationis huius licentia absque
31
Il rapimento di donne votate a Dio costituisce un reato complesso, che
racchiude in sé le caratteristiche del ratto, dell’omicidio (
28
) e del sacrilegio
e ha risvolti sia giuridici che religiosi: infatti si dice esplicitamente che in
questo caso viene a prospettarsi l’ipotesi di concorso formale (duplex
crimen) tra i crimini di ratto e sacrilegio (
29
).
Anche in caso di ratto di donne deo dedicatae è concessa ai consanguinei,
al tutore e al curatore della rapita la facoltà di uccidere il colpevole,
sempre che venga colto sul fatto, dal momento che la flagranza è
equiparata alla colpevolezza provata in giudizio. In generale questa
fattispecie di reato è disciplinata secondo le forme previste per il ratto di
donne “laiche”, mentre la vera novità inserita in questa legge riguarda la
destinazione del patrimonio sottratto al rapitore e ai suoi complici: tali
beni non vengono devoluti alla rapita, che li riceve solo in usufrutto, ma
sono assegnati all’istituto religioso presso cui la donna vive o, se abita per
conto suo, alla chiesa in cui esercita la sua funzione (
30
).
metu delationis indulta. neque enim, exigi convenit proditorem, quem pro pudicitia religionis
invitat humanitas. Dat. VIII id Mart. Rav(ennae) Theod(osio) A. VIIII et Constantio III V.C.
conss. [420 Mart. 8]. Si veda B
EAUCAMP
, Le statut de la femme à Byzance (4
e
-7
e
siècle), I, Le
droit imperial, cit., pp. 118-120.
(
28
) La perdita della verginità veniva infatti considerata una lesione all’integrità della
persona, che – come la morte – segnava irrimediabilmente il corpo della vittima e di
conseguenza rendeva il rapitore simile, per certi versi, all’omicida. Lo afferma a chiare
lettere Giustiniano in CI. 9, 13, 1, pr.: …maxime cum virginitas vel castitas corrupta restitui
non potest; et merito mortis damnantur supplicio, cum nec ab homicidii crimine huiusmodi
raptores sint vacui. Si veda P
ULIATTI
, La dicotomia vir-mulier, cit., pp. 471 ss.; è di opinione
differente B
OTTA
, “Per vim inferre”. Studi su stuprum violento e raptus nel diritto romano e
bizantino, cit., pp. 126-176, secondo il quale il crimine di omicidio potrebbe essere
richiamato solo per giustificare la severità del regime punitivo e non per configurare un
vero e proprio concorso di reati.
(
29
) Come già detto, si può ravvisare un esempio di concorso anche nella diversa
fattispecie di rapimento di nuptae mulieres, in cui la medesima azione criminosa integra i
due reati di ratto e adulterio.
(
30
) Va specificato che a queste donne il matrimonio è sempre precluso, anche quando non
vi sia stato ratto. Si confronti L. D
ESANTI
, Sul matrimonio di donne consacrate a Dio nel diritto
romano cristiano, in SDHI, LIII, 1987, pp. 270-296.
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