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correttiva, rieducativa della pena stessa. Nel Protagora il filosofo, pur
ritenendo la pena in sé un atto repressivo, un male da infliggere al
colpevole di un crimine, osserva che è sufficiente la semplice minaccia di
una sanzione per distogliere i consociati dal commettere quel delitto e che
l'effettiva esecuzione della pena ha un'efficacia curativa sul colpevole, tale
da indurlo a non commettere più illeciti.
Sostiene infatti che chiunque sconta una pena, qualora il castigo
inflitto sia giusto, o diventa una persona migliore e ne trae vantaggio,
oppure serve da esempio per gli altri. Nessuno punisce i colpevoli per il
fatto che hanno commesso ingiustizia a meno che non voglia vendicarsi
irrazionalmente infliggendo una sofferenza fine a se stessa; chi, invece,
commina una pena seguendo la ragione non pretende di vendicarsi
dell’avvenuto misfatto – dal momento che non potrebbe cancellare ciò che
ormai è accaduto – ma punisce pensando al futuro, affinché la colpa non
venga più commessa, né dallo stesso colpevole né da tutti gli altri. Emerge
qui l’alta finalità morale che Platone attribuisce alla pena: il filosofo è
infatti convinto che si possa educare alla virtù (
13
).
Si tratta di una concezione articolata, in cui la pena non riveste un
unico scopo ma un combinarsi di funzioni, proprio come ipotizzano le
teorie moderne (
14
). Platone tuttavia, pur in un'ottica rieducativa, non
esclude dalla sua riflessione la pena di morte, che va necessariamente
comminata qualora il reo risulti “incurabile”. Ritiene infatti che chi abbia
commesso i più gravi delitti e, per tale causa, non sia più curabile, non può
servire che da esempio, e mentre, sopportando la propria pena, non può
(
13
) P
LATONE
, Protagora, 324 a-b: [324a] …οὐδεὶς γὰρ κολάζει τοὺς ἀδικοῦντας πρὸς
τούτῳ τὸν νοῦν ἔχων καὶ τούτου ἕνεκα, ὅτι ἠδίκησεν, ὅστις [324b] μὴ ὥσπερ θηρίον
ἀλογίστως τιμωρεῖ ται: ὁ δὲ μετὰ λόγου ἐπιχειρῶν κολάζειν οὐ τοῦ παρεληλυθότος
ἕνεκα ἀδικήματος τιμωρεῖ ται - οὐ γὰρ ἂν τό γε πραχθὲν ἀγένητον θείη - ἀλλὰ τοῦ
μέλλοντος χάριν, ἵ να μὴ αὖθις ἀδικήσῃ μήτε αὐτὸς οὗτος μήτε ἄλλος ὁ τοῦτον ἰδὼν
κολασθέντα. καὶ τοιαύτην διάνοιαν ἔχων διανοεῖ ται παιδευτὴν εἶ ναι ἀρετήν:
ἀποτροπῆς γοῦν ἕνεκα κολάζει. Si veda P
LATONE
, Protagora, a cura di G.
R
EALE
,
Bompiani, Milano 2001, p. 46.
(
14
) Si veda M.
M.
M
ACKENZIE
, Plato on punishment, Berkeley 1985, pp. 179-206 a proposito
del ruolo predominante avuto da Platone nella riflessione sulla funzione della pena.
161
giovare a sé, può invece essere utile agli altri (
15
). Echi del pensiero
platonico si avvertono anche nelle Novelle giustinianee. Ad esempio un
concetto analogo a quello sopra descritto si ritrova in Nov. 77, che
disciplina i delitti di omosessualità e blasfemia: ai colpevoli Giustiniano
ingiunge di astenersi in futuro da tali infamie, minacciando loro gravi
pene qualora non riescano a emendarsi e perseverino nel loro crimine. La
pena di morte appare quindi l'estremo rimedio a cui occorre fare ricorso se
il reo si mostra recidivo e, quindi, irrecuperabile.
Aristotele elabora e supera la concezione medico-curativa della pena
di derivazione platonica: il filosofo infatti tende a far prevalere sulle altre
la concezione preventiva ed intimidatoria, ritenuta, in definitiva, la più
utile per la tutela degli interessi superiori della collettività. A tal proposito,
in Rhetorica, egli distingue tra timwrίa, che ha come funzione il
soddisfacimento immediato di chi la pone in essere, e kόlaσij, sanzione
vera e propria che interessa la collettività e ha come destinatario colui che
la subisce (
16
). In Etica Nicomachea 5, 9 Aristotele individua come dovere
(
15
) Nell’ambito della riflessione filosofica sulla questione della pena merita di essere
citato il dialogo De sera numinis vindicta (Sui ritardi della punizione divina), 550d-554d,
scritto da Plutarco nel I secolo d.C. In questa opera, facente parte dei Moralia, scritti
teologico-religiosi d’ispirazione platonica, lo scrittore svolge alcune riflessioni sugli scopi
che sottendono alla pena. Il dialogo prende le mosse dall’osservazione che la
provvidenza divina non sempre infligge ai criminali la pena che si meritano e, in ogni
caso, non lo fa con la sollecitudine che gli uomini onesti si aspetterebbero. L’Autore
motiva questo indugio, che ad alcuni potrebbe apparire come sintomo d’ingiustizia da
parte della divinità, con l’osservazione che il delinquente è come un malato, al quale va
concesso il tempo necessario per guarire attraverso il pentimento; inoltre una punizione
precipitosa e dettata da rabbia e volontà di ritorsione sarebbe più nociva che utile alla
società. Le punizioni divine costituiscono in realtà un’occasione per riflettere sulle pene
inflitte dagli uomini che, in linea con il pensiero di Platone, non devono essere mosse da
animosità e spirito di vendetta nei confronti del reo. Si veda P
LUTARCO
, Il demone di
Socrate. I ritardi della punizione divina, Adelphi, Milano 1982, pp. 133-143. Per
approfondimenti si confronti T.J.
S
AUNDERS
, Plutarch's De Sera Numinis Vindicta in the
Tradition of Greek Penology, in Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto
romano, Napoli 1993, pp. 63-94.
(
16
) A
RISTOTELE
, Rhetorica, 1369b, 13: Di¦ qumÕn dὲ kaὶ ὀrg¾n t¦ timwrhtik¦. Diafέrei dὲ
timwrίa kaὶ kόlaσij: ¹ mὲn g¦r kόlaσij toà p¦scontoj ἕnεκά ἐstin, dὲ timwrίa toà
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