S giovanni bosco


XVI. I Tiranni di Siracusa



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XVI.
I Tiranni di Siracusa (32).

(Dall’anno 425 all’anno 396 avanti Cristo).

L’isola più grande e più considerabile d’Italia è senza dubbio la Sicilia, posta nella parte più meridionale della penisola, separata dal resto dell’Italia da uno stretto oggidì appellato Faro. Dicono che anticamente la Sicilia fosse unita all’Italia e che quello stretto sia stato cagionato da un gran terremoto, a cui va molto soggetto quel paese.

Quell’isola appellavasi primieramente Trinacria, perché ha figura di un triangolo; e fu poi detta Sicilia dai Siculi, i quali ne furono antichissimi abitatori. Le sue campagne sono fertilissime, ed i Romani ne traevano tanti prodotti, che fu per molto tempo appellata il granaio di Roma.

Gli antichi re di quest’isola solevano appellarsi tiranni, nome che in quel tempo non significava crudele, come suona oggidì; ma semplicemente un uomo valoroso che colle armi o coll’industria fosse venuto al sovrano potere in una città prima libera. Devo per altro confessarvi, che la più parte di quegli antichi sovrani erano veri tiranni, ingiusti, vendicativi, crudeli e stravaganti. La qualcosa ben comprenderete da quanto io vi voglio raccontare di un certo Dionigi, tiranno di Siracusa, città principale della Sicilia.

Dionigi non era nato di famiglia reale, ma a forza di astuzie e di frodi riuscì a farsi ubbidire da tutti, ora facendo morire segretamente coloro che gli resistevano, ora accarezzando quelli che potevano favorirlo.

Poco geloso di farsi amare, purché fosse temuto, quando compariva in pubblico era sempre accompagnato dalle feroci sue guardie, le quali attente ad ogni suo cenno trucidavano senza pietà gl’infelici che avevano la mala sorte di cadere in disgrazia di lui. Guai a chi non lo avesse lodato o piuttosto adulato in tutte le sue capricciose azioni. Perciò avvenne che in breve si trovò circondato da un numero grande di vili adulatori, i quali applaudivano ad ogni suo detto, e lodavano quanto gli fosse tornato a capriccio di fare.

Dionigi aveva altresì la manìa di voler comparir dotto letterato; a questo fine soleva preparare alcuni componimenti, che leggeva in pubblico a fine di riscuotere applausi. Un giorno ebbe a sé uno, che non era adulatore, di nome Filossene, e lo richiese del suo parere intorno ad alcuni versi che egli pretendeva essere bellissimi. Filossene colla solita sua schiettezza non gli poté nascondere che a lui parevano pessimi. Allora il tiranno montato in collera ordinò alle guardie di afferrare l’audace Filossene e cacciarlo in oscura prigione.

Gli amici di Filossene, spaventati della sorte, che gli sovrastava, si recarono dal tiranno e tanto lo supplicarono, che gli volle perdonare, a patto che il prigioniero acconsentisse di andar la sera medesima a cenare alla sua tavola.

Durante la cena Dionigi, il quale non poteva ancora darsi pace della franchezza di Filossene, lesse di nuovo alcuni versi cattivi come i primi, colla speranza che quegli non osasse questa volta negargli le sue lodi. Ma quanto non rimase confuso allora che Filossene invece di applaudire, come gli altri cortigiani, si volse alle guardie e loro disse ad alta voce: Riconducetemi in prigione! Con che quell’uomo dabbene voleva dire ch’ei preferiva di andare in prigione piuttosto che parlar contro coscienza. Dionigi il comprese benissimo; ed in luogo di adirarsi ammirò la nobile indole di lui e gli permise di dire qualche volta la verità in sua presenza.

Mentre regnava Dionigi vissero Damone e Pizia, per la loro amicizia tanto celebrati. Per una certa sua imprudenza Damone fu dal crudele Dionigi condannato a morte, e soltanto per somma grazia ottenne di potersi recare in patria per assestare alcuni affari domestici ed abbracciar per l’ultima volta la vecchia sua madre; ma a condizione che il suo amico si desse in sicurtà, e fosse disposto a subire la morte se Damone non fosse ritornato. Era giunto il giorno fissato pel ritorno di Damone e niuno il vedeva comparire. Alcuni biasimavano l’imprudente confidenza di Pizia, ma esso rispondeva: Io sono sicuro che Damone verrà e mi toglierà la gloria di poter morire per lui. Infatti Damone mantenne la parola, e pel tempo fissato fu di ritorno. Qui sorse una gara per cui uno voleva andare alla morte per l’altro. Dionigi, benché di cuor malvagio, rimase tuttavia commosso all’azione magnanima di Pizia; li graziò ambidue e li colmò di elogi e di doni, e li scongiurò di voler anche associare lui stesso alla loro amicizia. Tanto è vero che gli stessi malvagi sono costretti ad ammirare la virtù dei buoni.

Fra’ cortigiani del re uno segnalavasi di nome Damocle, il quale magnificava del continuo le ricchezze, la sapienza e la felicità del tiranno. Dionigi sebbene si compiacesse di tali adulazioni, nulladimeno volle con fatti dimostrargli che le grandezze mondane non rendono gli uomini felici. Disse pertanto a Damocle: Io ti cedo il mio posto per tutto quel tempo che vorrai, né alcuna cosa voglio che ti manchi per farti godere della mia felicità.

Damocle fu da prima collocato sopra un letto di oro coperto di panni doviziosamente ricamati; intorno a lui sorgevano credenze cariche di vasi d’oro e d’argento; molti domestici magnificamente vestiti lo circondavano attenti a servirlo ad ogni cenno; da tutte parti gli aromi spandevano odori, ardevano squisiti profumi. Infine fu servito di un superbo pranzo, in cui si trovava raccolto tutto ciò che un gran ghiottone avrebbe potuto bramare.

Damocle era fuor di sé per la gioia e sembravagli di trovarsi in un vero paradiso, quando alzando gli occhi vide sopra il suo capo la punta di una spada, la quale, attaccata al soffitto per un tenue crine di cavallo, al più leggiero urto sarebbe caduta sul suo capo. A questa vista compreso da terrore dimenticò tutta quell’apparente felicità; si alzò da tavola precipitosamente, né volle più fermarsi un istante in quel posto che tanto aveva invidiato. In questa maniera conobbe che molte persone sembrano felici, e intanto hanno segrete pene che a guisa di pungenti spade le trafiggono.

Intanto Dionigi agitato da continui rimorsi cagionati dalle persecuzioni contro a’ suoi sudditi, che parte aveva uccisi, parte spogliati d’ogni avere, conduceva infelicissima vita. Diffidente e sospettoso portava sempre sotto l’abito una corazza di ferro per timore di essere ferito; e faceva visitare dalle guardie tutti quelli che entravano nel suo palazzo, per assicurarsi che non avessero armi nascoste. Il barbiere un giorno disse la vita del re essere nelle sue mani, e Dionigi il fece tosto morire sul timore che un giorno o l’altro volesse tagliargli la gola radendogli la barba. Allora egli volle che la regina sua moglie e le principesse sue figliuole gli rendessero quel servigio; ma presto diffidò anche della sua propria famiglia e fu ridotto a radersi la barba egli stesso Affinché nessuno gli prestasse sì pericoloso servigio. Le crudeltà che aveva commesse facevangli vedere dappertutto nemici pronti a trucidarlo; né avrebbe potuto prendere riposo, se non avesse dormito in un letto circondato da una fossa larga e profonda, la quale non si poteva attraversare se non per un ponticello, che egli aveva grande cura di alzare prima di coricarsi.

Tuttavia non potendo calmare le sue noie e i suoi terrori, provò di abbandonarsi agli eccessi del mangiare e del bere; sicché, fatta una grave indigestione, morì in età di 63 anni, nel 360 prima dell’èra volgare.

Allo sciagurato Dionigi succedette suo figliuolo, detto Dionigi il Giovine per distinguerlo dal genitore. Egli non era così malvagio come il padre, ma era tanto indolente ed incostante, che ogni giorno cangiava i suoi propositi. Un suo cognato di nome Dione, persuaso. del grande vantaggio che avrebbe procurato un maestro savio ad un sovrano, indusse Dionigi a far venire da Atene un uomo dottissimo chiamato Platone.

Dionigi era impaziente dell’arrivo di quel filosofo, e per alcuni mesi provò sommo diletto nell’udirne le lezioni, anzi parve che volesse mettere in pratica le massime di saviezza di quel celebre maestro. Se non che i suoi cortigiani, cioè i suoi adulatori, più amanti della crapula che della scienza, gli fecero mutare proposito e lo consigliarono di allontanare dalla corte Platone, ed esiliare Dione che ve lo aveva chiamato.

Ma guai a chi disprezza gli avvisi degli uomini savi! Nella reggia alle scienze sottentrarono nuovamente lo stravizio e la licenza, ed ecco di nuovo la crudeltà e l’oppressione verso dei sudditi. Tante barbarie risolverono Dione a prendere le armi per liberare la patria dall’oppressore. Allestì un esercito di prodi amici; di Grecia venne in Siracusa, e costrinse Dionigi a fuggire in altri paesi. Costui dieci anni dopo tentò nuovamente d’impadronirsi del regno; ma cacciatone per la seconda volta, si riparò a Corinto, dove per più anni menò vita abbietta, abbandonandosi a quei vizi che lo avevano disonorato sul trono. Ridotto ad estrema miseria, fu costretto di aprire una scuola ed insegnar grammatica ai fanciulletti a fine di campare la vita. Si dice che quando passava per le vie di Corinto, avvolto in un mantello di grosso panno, era dal popolo beffeggiato ed ingiuriato non per essere povero, il che sarebbe stato biasimevolissimo, ma perché è degno di disprezzo chi pei suoi vizii è cagione della sua miseria.

Ora che vi ho raccontata la storia di due tiranni di Siracusa, ritorniamo alle cose dei Romani.




XVII.
Guerra di Veio. - Camil1o. - I Galli Senoni a Roma (33).

(Dall’anno 396 all’anno 321 avanti Cristo).


In quei tempi i Veienti erano gli avversari di Roma meglio esercitati nelle armi che tutti gli altri popoli d’Italia. Essi avevano sempre dato che fare ai Romani, e Veio loro capitale aveva il primato sopra la stessa Roma per grandezza, ricchezza e potenza.

I Romani perciò gelosi risolvettero di assalirli e andarono a cingere di assedio la stessa città di Veio. Accanite e feroci erano ambe le parti: gli uni per assalire, gli altri per difendersi. L’assedio durò ben dieci anni con esito incerto. Le sortite degli assediati, i frequenti attacchi dei contadini avevano diradato a segno le file degli assedianti, che già erano in procinto di ritirarsI.

In questo estremo fu nominato dittatore Camillo, e a lui venne affidata la difficile impresa di quell’assedio. Questo coraggioso generale, dopo aver più volte tentato invano l’assalto della città, fece scavare una via sotterranea, la quale conduceva nella fortezza. In simile guisa, prima che i Veienti se ne avvedessero, i Romani riuscirono a penetrare entro alle mura nemiche. Dato un generale assalto, Veio cadde in potere dei nemici i quali ne riportarono ricco bottino, e per questa gloriosa conquista Camillo fu condotto a Roma in trionfo.

Ma quanto mai è fugace la gloria del mondo! Sovente accade che coloro i quali oggi gridano evviva, domani gridino morte. Ciò avvenne a Camillo. Alcuni malevoli, mossi da invidia per gli onori da quel prode conseguiti, lo accusarono quasi che ambisse di farsi re, e lo costrinsero ad andarsene in esilio. Ma i Romani non tardarono a pentirsi della loro ingiustizia verso di Camillo, quando si videro i Galli alle porte della loro città.

Vi ho già parlato di una invasione di Galli, che ai tempi di Tarquinio il Vecchio vennero a stabilirsi in varie parti d’Italia. Un grande nUmero di quelli detti Seno-Galli si stabilirono vicino agli Umbri, dove costrussero una città che da essi fu appellata Sinigallia. Costoro, guidati da Brenno loro re, invasero varie parti d’Italia, e penetrati nell’Etruria andarono ad assediare la città di Chiusi alleata di Roma.

Erano i Galli uomini di alta statura, coraggiosi oltre ogni credere, e d’indole brutale e feroce. I cittadini, spaventati da quei formidabili conquistatori, dimandarono soccorso ai loro alleati. Il Senato spedì tre ambasciatori per invitare i Galli a rispettare gli amici di Roma. Le accoglienze di Brenno furono piene di cortesia; egli loro domandò per quale cagione si fossero condotti a lui: «Noi, gli risposero, siamo venuti per sapere in che cosa i Chiusini hanno offeso il re dei Galli; poiché in Italia non si muove guerra senza giusto motivo». E Brenno a loro: «Non sapete che il diritto dei valorosi sta nella spada? I Romani medesimi con qual diritto usurparono eglino molte città? Ma una ragion di guerra abbiamo pur noi. Il re di Chiusi negò di voler far parte ai Galli delle terre deserte, le quali i suoi, sudditi non possono coltivare».

I legati Romani accolsero freddamente le ardite parole del conquistatore, ed essendo seguita una battaglia tra i Galli e quelli di Chiusi, i legati non esitarono a prendervi parte, ed uno di loro uccise un Gallo spogliandolo delle sue armi. Queste indegne maniere di operare accesero Brenno di sdegno, il quale mandò a fame querela a Roma. I Romani giudicando aver nulla a temere da quei barbari non si degnarono nemmeno di rispondergli. Per la qual cosa montato Brenno in grande furore, risolvette di marciare coll’esercito contro Roma per fame terribile vendetta. I paesi pei quali passava tremavano di spavento. Giunto alle rive del fiume Allia incontrò l’esercito Romano spedito contro di lui. La battaglia fu accanitissima, ma funesta ai Romani; quarantamila dei quali restarono sul campo, gli altri furono messi in fuga. Allora Brenno senza alcuna resistenza con incredibile prestezza pervenne alle porte di Roma, che trovò quasi vuota di abitanti: perciocché all’avvicinarsi di quei formidabili nemici eransi i cittadini in massima parte dati alla fuga, ad eccezione di quelli i quali dalla vecchiezza o dalle infermità ne erano stati impediti.

I Galli, entrati trionfanti in città, trovarono i vecchi senatori, che imperturbabili sedevano sulle loro sedie d’avorio. Uno de’ Galli stese la mano e tirò la barba di uno di questi senatori di nome Papirio, il quale giudicando essere quello un affronto intollerabile gli diede tale un colpo col suo scettro di avorio sul capo, che lo uccise sull’istante. Questo fu cagione di una grande strage: Papirio fu ucciso pel primo; non si risparmiarono né donne, né vecchi, né fanciulli. Fu appiccato il fuoco alle case, le quali tutte rimasero incenerite, cosicché Roma divenne un mucchio di rovine.

I più prodi Romani eransi ritirati nella fortezza del Campidoglio, che fu tosto assediata dai Galli. Mentre Brenno incalzava l’assedio, intese che il valoroso Camillo, invitato dai suoi, veniva per salvare la patria e che con forte esercito era giunto alle porte di Roma. Allora i Galli stimarono bene fare la pace coi Romani, e costrettili a pagare loro una grossa somma di danaro, carichi di spoglie, abbandonarono la rovinata città e corsero a difendere le loro terre assalite dai Veneti, abitanti delle rive dell’Adriatico in vicinanza del sito ove più tardi sorse Venezia (*).[(*) In questo racconto ho seguito Polibio (a)].

Si racconta da altri che i Romani assediati in Campidoglio avevano patteggiato di dare mille libbre d’oro ai Galli, Affinché questi si ritirassero. Mentre si pesava l’oro, i Galli non solo usarono pesi falsificati, ma alle querele dei Romani aggiunsero l’insulto. Brenno pose in sulla bilancia anche la spada gridando: Guai ai vinti! Intanto sopraggiunto Camillo co’ suoi, interruppe l’alterco dicendo: «Col ferro e non coll’oro devono i Romani redimere la loro patria». Venuto quindi alle mani, costrinse l’esercito nemico ad allontanarsi da Roma.

Partiti i Galli, Camillo, dimenticando l’ingiuria fattagli da’ suoi concittadini col mandarlo in esilio, divenne padre del popolo soccorrendo gli uni, incoraggiando gli altri a risarcire i danni cagionati dai nemici. Già la città risorgeva dalle sue rovine, allora che un’orribile pestilenza, dopo avere desolati molti paesi dell’Italia, si dilatò fino a Roma. Grande numero di cittadini perirono di quella malattia e lo stesso Camillo colto da quel morbo, morì.

XVIII.
Guerre Sannitiche e le Forche caudine (34).

(Dall’anno 321 all’anno 280 avanti Cristo).

Avevano i Romani appena ristorata la città e riparati i mali dai nemici cagionati, quando insorsero nuove guerre e non meno delle antecedenti sanguinose.

Lunga e funesta fu quella che dovettero sostenere contro ai Sanniti. Ecco quale ne fu la cagione. I popoli della Campania avevano mandato ad implorare la protezione de’ Romani contro alle infestazioni dei Sanniti, ed il Senato di Roma ordinò a questi che cessassero dalle ostilità. Essi rifiutarono superbamente di accondiscendere, e la guerra fu dichiarata.

I due consoli Cornelio e Valerio Corvo (*) presero il comando dell’esercito.
[(*) Dicesi che Valerio fosse detto Corvo perché combattendo una volta con un Gallo di smisurata grandezza, un corvo calò sul capo di questo e col becco gli cavò gli occhi; laonde facilmente poté Valeria uccidere il suo rivale (a)].
Era questi il più valoroso ed il più esperto capitano del suo tempo. Per la qual cosa non ostante la particolare perizia dei Sanniti nelle armi, i Romani furono sempre condotti alla vittoria. Non eguale sorte toccò a Cornelio, giacché lasciatosi rinchiudere in alcuni stretti passi, stava per cadere nelle mani de’ nemici. Ma un altro capitano Romano, di nome Decio, accampatosi sopra una prossima collina, assalì i nemici con tanto impeto, che ne uccise trentamila.

Poco dopo questa vittoria l’esercito di Cornelio si ammutinò, e già si avanzava contro Roma, quando il Senato mandò loro incontro Valerio, che seppe colla sua affabilità placare gli animi dei ribelli ed allontanare così una guerra civile.

Terminata questa prima guerra coi Sanniti, se ne accese un’altra coi Latini. Siccome questo popolo nei costumi era molto somigliante ai Romani, così ad evitare la confusione che avrebbe potuto nascere nelle battaglie, fu dai Romani imposta la pena di morte a chi sarebbe uscito dalla file. Venuti a fronte i due eserciti, Mezio, capitano de’ Latini, si avanzò a sfidare un cavaliere romano a duello. I Romani per tema di castigo se ne stavano tutti taciturni, e niuno osava affrontarsi. Ma T. Manlio, figliuolo del console, pieno di giovanile ardire, spiccossi dalla sua schiera e venuto alle mani con Mezio lo uccise. SpogliatoIo quindi delle sue armi in mezzo agli applausi degli amici se ne venne al padre. Conosceva questi quale scandalo sarebbe nato nella milizia, qualora il figliuolo fosse andato impunito della sua disubbidienza; e perciò anteponendo la giustizia all’amore paterno, fattolo condurre in presenza di tutto l’esercito, gli fece troncare la testa. Dopo essergli stati resi gli onori funebri, si appiccò la pugna tra i due eserciti. Stava incerta la vittoria, quando gli auguri mandarono a dire, che per vincere era mestieri che il capitano dell’ala, che avrebbe incominciato a cedere, si fosse sacrificato agli Dei infernali. Non andò guari che l’ala sinistra dei Romani cominciò a piegare. Allora Decio, che ne aveva il comando, si lanciò colle sue armi in mezzo ai nemici sacrificandosi per la patria. I Romani a quella vista, ripreso coraggio, sbaragliarono i Latini e ne menarono tale strage, che appena la quarta parte campò da morte.

Vinti i Latini, si riaccese una seconda guerra coi Sanniti. Guidava l’esercito romano il console Postumio, uomo di grande valore. Egli teneva per certa la vittoria, ma questa volta avvenne il contrario; imperciocchè, colto da uno stratagemma, si lasciò condurre tra due montagne in un passo sì angusto, che riusciva impossibile ad un esercito muoversi e combattere. Postumio, avviluppato in quella gola fatale, si vide assalito da una grande quantità di nemici, che gli attraversavano la strada, mentre dall’alto delle rupi i Sanniti scagliavano frecce addosso ai Romani e facevano rotolare sopra di essi enormi massi.

Quei miseri non potendo più opporre al nemico alcuna resistenza, sfiniti dalla fatica e dalla fame, si videro costretti a chiedere per grazia la vita. Ponzio, capitano dei Sanniti, fu generoso di concederla a condizione che i Romani consegnassero le armi, e passando sotto al giogo giurassero di non più combattere contro ai Sanniti ed ai loro alleati: condizioni umiliantissime, cui tuttavia Postumio stimò bene di sottoporsi per conservare quell’esercito alla repubblica. Egli primo di tutti, spogliatosi del manto consolare e delle armi, passò sotto il giogo alla presenza dei Sanniti.

Cosiffatto avvenimento è conosciuto sotto il nome di forche caudine da Caudio (ora Ariola) città situata tra Capua e Benevento nell’Italia meridionale, vicino al quale luogo i Romani furono sottoposti a quella ignominia. È questa l’unica volta che i soldati romani siano stati costretti a passare sotto al giogo: e ne furono sì pieni di vergogna, che camminarono in silenzio verso di Roma, né vollero entrarvi se non di notte, andando ciascuno a nascondersi nella propria casa.

Mentre i Sanniti stavano tranquilli sulla parola data dai Romani, questi violando la promessa misero in piedi un numeroso esercito, e li assalirono all’impensata. Si opposero essi arditamente agl’iniqui assalitori, ma questa volta toccò loro la peggio; in due battaglie campali perdettero ben 60.000 soldati Ponzio loro capitano con sette mila dei suoi fu pure condannata passare sotto il giogo.

Stanchi i Sanniti di tante sanguinose battaglie, si sottomisero finalmente ai Romani. Anche gli Etruschi ed i Galli, detti Circumpadani perché abitavano intorno al Po, si piegarono alla potenza romana.

Dai fatti ora narrati, cari amici, non vorrei che imparaste ad esempio de’ Romani a non mantenere la fede data, quando vi tomi a conto di fare il contrario; anzi aborrite la mala fede, perciocché l’uomo onesto, quando in cose giuste impegna la parola, deve a qualunque costo mantenerla.


XIX.
Pirro e Fabrizio (35).

(Dall’anno 280 all’anno 263 avanti Cristo).


Un fatto in apparenza di poco rilievo produsse funestissime conseguenze ai Tarantini, popoli che abitavano la parte più meridionale dell’Italia. Ciò avvenne per un insulto fatto dai cittadini di Taranto ad alcune navi romane rifugiatesi nel loro porto. Furono mandati da Roma ambasciatori a chiedere soddisfazione e questi stessi vennero gravemente oltraggiati. Per la qual cosa i Romani risolsero di far valere le loro ragioni colle armi. I Tarantini conoscendosi incapaci di combattere con un popolo, il cui nome faceva ormai tremare tutta Italia, ricorsero ad un principe straniero di nome Pirro, re di Epiro, paese della Grecia. Giovane intrepido e vago di gloria, erasi già segnalato con molte vittorie; ed era sommamente ansioso di misurare le sue forze con quelle de’ Romani. Postosi alla testa di un formidabile esercito venne in Italia ed unitosi ai Tarantini andò a scontrare i nemici sulle rive del fiume Liri, oggidì Garigliano.

Guidava l’esercito romano un console chiamato Levino, capitano valoroso, il quale assalì con tale impeto i nemici, che ben sette volte ruppe le loro file; ma sette volte fu dagli Epiroti respinto, cosicché dubbiosa rimaneva la vittoria, quando Pirro fece avanzare un gran numero di elefanti. che seco aveva condotti. Questi animali sostenevano sopra la loro schiena certe piccole torri di legno, dall’alto delle quali alcuni soldati scagliavano frecce sui nemici. Gli elefanti poi che restavano feriti, mandavano urla spaventevoli, correvano furiosi atterrando e calpestando gli uomini e i cavalli che loro si facevano incontro.

I Romani, i quali non avevano mai veduti elefanti, ne furono così spaventati, che si diedero a precipitosa fuga; e lo stesso Levino dovette la propria salvezza alla celerità del suo cavallo.

Quindici mila Romani caddero morti, ottomila furono fatti prigionieri. Ma anche Pirro ebbe a deplorare grave perdita. Egli stesso rimase ferito, tredici mila de’ suoi furono mietuti dalle spade nemiche. Alla vista di tanti morti e di tanti feriti dicesi che Pirro esclamasse: Se ottengo un’altra vittoria simile a questa, io sono perduto. Egli si mostrò valoroso in battaglia, e seppe usare nobilmente della vittoria. Fece curare i feriti e seppellire i morti; lodò il coraggio dei Romani, e mirando que’ prodi estinti ma tutti colpiti davanti, indizio che non avevano mai voltate le spalle al nemico, andava esclamando: Mi sarebbe facile conquistare tutto il mondo, se io fossi re dei Romani.

Questo principe si affezionò tanto ai Romani, che sebbene vincitore mandò Cinea suo ministro con doni magnifici per offerir loro una pace onorevole. I Romani non potevano acquietarsi di quella battaglia perduta, e incoraggiati dal senatore Fabrizio rifiutarono i regali e le proposte di Pirro, dicendo che avrebbero trattato di pace quando egli avesse sgombrata l’Italia.

Caio Fabrizio era povero, ma commendevolissimo per probità, frugalità e valore. I Romani specchiavansi in lui come in un modello di virtù. Si cibava di soli legumi e dei frutti di un orticello che egli coltivava colle proprie mani. Per la grande sua prudenza fu inviato a Pirro a fine di riscattare gli ottomila Romani rimastigli prigionieri.

Pirro, che aveva più volte udito a parlare di lui, provò vivo piacere in vederlo, e si studiò di farselo amico con doni e con promesse. Ma egli da magnanimo francamente rispose: «Se mi riputate uomo onesto, perché tentate di corrompermi?». «Se mi credete capace di tradire i miei doveri, che volete fare di me?». Il re pieno di stupore, volendo mettere ad esperimento il coraggio di Fabrizio, gli fece venire vicino un elefante che minacciava di percuoterlo, e pose in opera altri artifizi per atterrirlo. Ma egli senza muoversi, né punto sbigottirsi, sorridendo disse al re: «Questi terrori possono sopra di me né più né meno dei regali, che ieri mi offeriste». Attonito Pirro a tanta nobiltà e a tanta fermezza d’animo, appagò i desiderii di lui, e gli diede i prigionieri da condursi a Roma senza riscatto.

Intanto i Romani, ristorate le loro perdite, crearono console il valoroso Fabrizio, il quale di buon grado si pose alla testa di un nuovo esercito per tentare con ogni sforzo di respingere Pirro. I due eserciti stavano a fronte l’uno dell’altro presso Benevento; gli apparati erano formidabili di ambe le parti, quando il medico di Pirro, scostatosi di soppiatto dal campo, si presentò al console e gli promise di avvelenare il suo padrone, se gli dava una generosa ricompensa.

La proposizione di quel traditore mosse a sdegno l’intemerato Fabrizio, il quale scrisse immediatamente una lettera a Pirro per avvisarlo di non fidarsi di quell’uomo malvagio e conchiudeva: «Punisci questo traditore, e da questo fatto impara quali siano i tuoi amici e quali i nemici». Il re si accertò del fatto, e scoperta la verità, nell’eccesso dello stupore: «Ammirabile Fabrizio, esclamò, è più facile far cangiare direzione al sole, che deviar te dalla via dell’onore». Volendo poi in qualche maniera compensare la generosità di Fabrizio, gli mandò tutti i soldati che poco prima aveva fatti prigionieri.

Finalmente si venne a battaglia campale, e questa volta la vittoria fu dei Romani. Essi a poco a poco eransi assuefatti alla vista degli elefanti, anzi, trovato modo di ferirli e rivolgerli contro agli stessi Epiroti, piombarono con tale impeto sui nemici, che ventitré mila ne uccisero sul campo, e gli stessi alloggiamenti caddero nelle loro mani.

Pirro, forzato dai Romani ad abbandonare l’Italia, passò prima in Sicilia; ma poco dopo alcune turbolenze il richiamarono in Epiro. Morì in Argo, colpito da una tegola lasciatagli cadere sul capo da una vecchia, di cui stava per uccidere il figliuolo. Da ciò si vede che talvolta Iddio si serve dei più deboli strumenti per punire eziandio i grandi del mondo. Dicesi che Pirro prima di lasciare la Sicilia abbia con dolore esclamato: «Che bel campo lasciamo ai Romani ed ai Cartaginesi!».

Questa guerra fruttò ai Romani il dominio sopra quasi tutta l’Italia meridionale, e la fama del loro valore cominciò a dilatarsi presso alle nazioni straniere.

Roma poi non avrebbe certamente potuto conservare il frutto di tante vittorie, se la politica del Senato non avesse saputo inventare un mezzo per tenere a freno i popoli vinti. Questo mezzo fu il sistema che i Romani seguivano nel fondare le loro colonie. Ogni volta che essi acquistavano nuove terre, ne distribuivano una parte alla plebe più bisognosa di Roma ed ai soldati veterani. In questo modo liberavano Roma dai pericoli, cui suole essere condotta una città da un popolo numeroso e stretto dalla miseria, e nello stesso tempo raffrenavano i vinti e ne impedivano le ribellioni.


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