Ufficio dei Referenti per la Formazione Decentrata del Distretto di Brescia Settore Diritto Europeo


La risposta italiana al problema:la responsabilità disciplinare del giudice



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2.4.4. La risposta italiana al problema:la responsabilità disciplinare del giudice.

Già prima della sentenza Traghetti del Mediterraneo il legislatore nazionale ha deciso di procedere ad una radicale modifica dell’ordinamento giudiziario realizzata, per quel che qui interessa, attraverso la tipizzazione degli illeciti disciplinari.

Nel fissare i criteri di ordine generale aveva previsto che dovesse integrare l’illecito “….3) la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile; il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile”, poi aggiungendo che “… fermo quanto previsto dai numeri 3), 7) e 9), non può dar luogo a responsabilità disciplinare l'attività di interpretazione di norme di diritto in conformità all'articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale”- art.2 comma 6 l.150/2005-.

La disposizione appena ricordata132 è stata trasfusa senza rilevanti modifiche nel decreto legislativo di attuazione – art.2 comma 2 d.lgs.23 febbraio 2006 n.109 -.

Orbene, secondo l’interpretazione offerta a caldo di tali previsioni dovrebbe ritenersi che incorre in sanzione disciplinare il giudice che, nell’interpretare il diritto, non si attiene ai canoni di cui all’art.12 disp.att. c.c., a tenore del quale “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello stato”133.

 Si tratta di una previsione normativa antistorica che pretende di attribuire, all’interno del percorso interpretativo del giudice, un ruolo primario all’interpretazione letterale della norma, perdendo di vista i consolidati risultati raggiunti dalla giurisprudenza costituzionale in tema di interpretazione costituzionalmente conforme, ma anche i rapporti intercorrenti fra diritto interno e diritto comunitario134 e fra diritto nazionale e norme promananti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo135.

Il rimedio disciplinare, secondo le normativa voluta dal legislatore delegante nell’anno 2005 ed attuata nel 2006, non sembra dunque rappresentare una risposta coerente al problema della responsabilità del giudice, esponendolo ingiustamente a profili di responsabilità in ambiti che, per converso, rappresentano l’in se dell’attività giurisdizionale e che, oggi più che mai, marginalizzano l’art.12 delle preleggi al codice civile.

Esso, d’altra parte, si pone in chiara linea di controtendenza proprio con i principi del diritto comunitario, improntati ad un tasso di effettività della tutela che il quadro disciplinare surricordato finirebbe inevitabilmente per ingessare, imponendo al giudice di fare applicazione della norma sulla base del suo significato letterale, tralasciando di considerare quel diritto vivente, ampiamente avallato dalla Corte costituzionale e dalle giurisdizioni sovranazionali, espressamente rivolto ad implementare le soglie di tutela dei diritti fondamentali.


2.4.5. L’alternativa proposta dalla Corte di giustizia: la responsabilità dello Stato per equivalente.

La sentenza Traghetti del Mediterraneo inciderà in modo rilevante sull’impianto della legge n.117/1988, anche se sono già state sottolineate le difficoltà che il legislatore dovrà affrontare per modificarne le linee portanti136.

Si è, infatti, già avuto occasione di sottolineare quanto rigida sia stata la lettura della disciplina interna da parte della Corte di Cassazione e quanto risulti difficile pervenire ad un giudizio di responsabilità dello Stato per atto del giudice137.

Si è già visto come l’area di risarcibilità rimanga riservata agli angusti confini della negligenza inescusabile individuati dal giudice di legittimità che finiscono con lo scriminare tout court l’attività interpretativa, oltre la quale non vi è possibilità di una revisione dell’operato del giudice nell’ottica peculiare che l’azione risarcitoria consente.

Anche se la Cassazione non lo afferma espressamente, essa muove dal convincimento che la saedes materiae dell’interpretazione sia dunque il processo nel quale la norma trova applicazione, non potendosi ipotizzare l’esistenza di un altro luogo, pur esso processuale, nel quale si torni a discutere dell’operato interpretativo del giudice138.

Tale prospettiva non sembra compatibile con l’ottica prescelta dal giudice di Lussemburgo, non certo interessata a colpire l’organo giurisdizionale interno, quanto a far sì che le conseguenze negative prodotte da un errato comportamento di quell’autorità non rimangano a carico del titolare di un diritto garantito a livello comunitario.

Sono ora le coordinate fissate dal giudice comunitario in tema di rapporti fra diritto comunitario e diritto interno ad evidenziare che i problemi sollevati dalla sentenza Traghetti del mediterraneo dovranno immediatamente trovare composizione all’interno del giudizio risarcitorio promosso dal soggetto che lamenta una lesione delle prerogative tutelate a livello comunitario ascrivibile alla giurisdizione nazionale di ultima istanza anche se si è formato un giudicato irrevocabile nell’ordinamento interno ad opera della giurisdizione di ultimo grado.

La sentenza Traghetti supera, forse definitivamente, il convincimento che “il processo” nel quale si discute della situazione giuridica soggettiva fatta valere dal suo titolare sia il luogo elettivo, esclusivo e definitivo nel quale acclarare la fondatezza della pretesa. Essa, tuttavia, continua a riservare ai singoli Stati il potere di disciplinare il processo teso all’accertamento della responsabilità, fissando i caratteri ineludibili per l’affermazione di responsabilità ma non le regole di quel processo, affidate esclusivamente allo Stato membro purchè questo rispetti i principi di equivalenza ed effettività.

La Corte, infatti, se per un verso sottolinea, ancora una volta, la centralità della funzione giurisdizionale, non manca di considerare che l’errore interpretativo che si risolve in un’ingiustificata lesione del diritto non può essere definitivamente posto a carico del soggetto attivo, dovendo lo Stato farsi carico della responsabilità di chi ha scorrettamente applicato il diritto, conculcando le prerogative del portatore di quell’interesse, quando, appunto, si accerti:a) che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli;b) che si tratti di violazione grave e manifesta e che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato;c) il danno subito dai soggetti lesi la violazione del diritto-v.p.51 sent.Kobler-.

E se sarà ancora una volta la sede giurisdizionale a dover acclarare siffatta responsabilità, essa prenderà le mosse proprio dall’operato giurisdizionale espresso all’interno del processo per valutare se ricorrono, alla stregua del decalogo fissato dalle sentenze Kobler e Traghetti del Mediterraneo, i presupposti del ristoro per equivalente della pretesa. Il tutto in un’ottica protesa a canoni di effettività della tutela e del primato del diritto comunitario su quello nazionale, attraverso i quali è possibile comprendere non solo il superamento del giudicato interno, ma anche l’attribuibilità della responsabilità allo Stato per un’attività di natura giurisdizionale, essendo pacifico per la giurisprudenza della Corte di giustizia la nozione unitaria di Stato.


2.4.6. Un cambiamento epocale del ruolo del giudice nazionale.

I principi ora ricordati sono destinati a modificare radicalmente il ruolo del giudice nazionale di ultima istanza che, troppo spesso arroccato sulla teoria dell’atto chiaro, non ha affatto favorito nella giurisdizione la cultura del rispetto dei diritti di matrice comunitaria.

Il riconoscimento di una sorta di responsabilità presunta dello Stato per i casi di mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e di manifesta violazione dei principi espressi dal giudice comunitario di ultima istanza è un dato certo ed inoppugnabile dopo la sentenza Traghetti del Mediterraneo ed impone, così, alle Corti supreme un atteggiamento nuovo e difficile.

Se si sceglie, infatti, l’ottica interna si potrà intravedere un apparente indebolimento del canone della certezza del diritto, correlato alla minata invulnerabilità assoluta del giudicato139, pere evocando lo spettro dell’attentato all’indipendenza ed all’autonomia della magistratura.

Ma il discorso è inevitabilmente più complesso.

Per un verso, infatti, la Corte di giustizia, anche recentemente, ha tenuto a ribadire il valore del giudicato.

Corte giust. 16 marzo 2006, causa C-234/04, Kapferer
e Schlank & Schick GmbH,
in parte superando le aperture espresse da Corte giust. 13 gennaio 2004, Kühne & Heitz NV c. Productschap voor Pluimvee en Eieren140, ha riconosciuto che il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne allo scopo di riesaminare ed annullare una decisione giurisdizionale passata in giudicato qualora risulti che questa viola il diritto comunitario141.

Per altro verso, però la stessa giurisprudenza di Lussemburgo ha da parecchio tempo imposto ai singoli Stati, in forza dell'art. 10 CE, l’obbligo di « adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l' esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal diritto comunitario »142, precisando nella stessa occasione che «tra questi obblighi si trova quello di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitario».

Ed infatti, proprio di recente, l’Avvocato Generale Geelhoed, nelle conclusioni presentate in causa C-C-119/05 Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato c.Lucchini Siderurgica spa, ove si discute degli effetti di un giudicato reso da un giudice italiano che, in spregio al diritto comunitario, avrebbe riconosciuto la legittimità di un aiuto di Stato, a fronte dell’efficacia giuridica di una precedente decisione della Commissione in cui siffatto aiuto era stato dichiarato incompatibile con il mercato comune, ha affermato, a chiare lettere, che “l’autorità di cosa giudicata di una sentenza che si fonda esclusivamente sull’interpretazione del diritto nazionale, e in cui il rilevante diritto comunitario è manifestamente disapplicato, non può costituire un ostacolo all’esercizio dei poteri conferiti alla Commissione dalle disposizioni rilevanti del diritto comunitario.”

In linea con tale principio, si è ritenuto che «il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale»143.

Secondo la Corte, ad eliminare la situazione antigiuridica prodotta dal mancato rispetto del diritto comunitario non deve necessariamente provvedere il legislatore nazionale- eliminando la norma contrastante con i principi sovranazionali-.

E’ il giudice nazionale a divenire il baricentro della tutela delle posizioni giuridiche soggettive. Il punto è che a questo giudice viene richiesta una specifica competenza nel fare corretta applicazione del diritto comunitario e dunque uno specifico obbligo di conoscenza del diritto scritto sopranazionale e,soprattutto, del diritto vivente della Corte di giustizia, dei meccanismi che caratterizzano il suo operato, delle modalità che devono essere prescelte nel fare applicazione del diritto comunitario e nell’interpretare il diritto interno alla luce del diritto sopranazionale, eventualmente sperimentando- quale facoltà per i giudice di merito e quale obbligo per il giudice di ultima istanza- lo strumento del rinvio pregiudiziale.

Chi in questo complesso e nuovo sistema intende individuare un attentato all’autonomia del giudice interno in ragione della riconosciuta responsabilità dello Stato per erronea interpretazione del diritto interno, non coglie il reale messaggio promanante dalla Corte di giustizia per come già si era cercato di decriptare commentando la sentenza Kobler.

La sentenza Traghetti del Mediterraneo conferma la tensione del giudice di Lussemburgo verso la tutela dei diritti di matrice eurounitaria e non si pone, a giudizio di chi scrive, in antitesi con l’autonoima ed indipendenza del giudice. Del resto, anche la Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto di condannare uno Stato che ha violato un diritto fondamentale allorché la violazione fosse derivata dal contenuto di una decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado144, in linea, peraltro, col principio al principio dell'unitarietà ed inscindibilità della responsabilità dello Stato per cui non rileva la circostanza che la violazione da cui ha avuto origine il danno sia imputabile al potere legislativo, giudiziario o esecutivo145.

Non potrà non cogliersi tra le righe della pronunzia in esame il riconoscimento di un’ulteriore chance di tutela per il titolare di un diritto che non ha ottenuto, per errore interpretativo del giudice, soddisfazione nell’ordinamento interno nella quale è, ancora una volta, la giurisdizione a giocare un ruolo decisivo.

Ancora una volta, la sentenza Traghetti sembra volere operare in prevenzione, intendendo esprimere lo standard di tutela che il giudice nazionale deve essere in grado di fornire al titolare di un diritto di matrice comunitaria.

Il nuovo statuto del giudice nazionale, soprattutto se di ultima istanza, impone al magistrato nazionale di accostarsi al diritto comunitario ed alla normativa interna che su esso incide con un atteggiamento nuovo rivolto, per un verso, a cogliere gli aspetti salienti della legislazione di settore e ad interpretarli in maniera conforme ai principi generali dell’ordinamento comunitario ed a quelli promananti dai regolamento o direttive che quel legislatore ha introdotto nel medesimo campo.

Per altro verso, in questa delicata attività che potrebbe condurlo, nel caso estremo, alla non applicazione della norma nazionale incompatibile in favore del dato comunitario, egli dovrà dare fondo, soprattutto nell’ambito dei rapporti orizzontali nei quali non è parte lo Stato od i soggetti ad esso equiparati dalla giurisprudenza comunitaria, a quella assai delicata e complessa attività di interpretazione conforme del diritto nazionale a quello comunitario.

Attività, questa, che potrà condurlo a fare applicazione di un diritto interno diverso dalla lettera che può prima facie appare proprio perché conformato al diritto comunitario. Il tutto in un processo assai simile a quello cui il giudice nazionale è tenuto alla stregua dei canoni dell’interpretazione costituzionalmente conforme.

Le difficoltà di un simile operare appaiono evidenti, solchè si consideri che la ricerca dei principi costituzionali è certamente più agevole rispetto a quella dei principi generali del diritto comunitario, non ancora pienamente avvertiti come principi di ordine interno dotati di analoga precettività per i giudice nazionale, soprattutto perché originati dalle basi costituzionali dei paesi membri e dai diritti umani contemplati dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950.

Ma il punto sul quale occorre ora insistere è quello della doverosità di tale modus operandi a carico del giudice nazionale, di guisa che la colpevole inosservanza di siffatto obbligo non potrà che ridondare negativamente sullo Stato, al quale sarà chiesto di farsi carico del non corretto operato del giudice interno.

Non di attentato all’indipendenza o all’autonomia della magistratura si discute, quanto di piena ed effettiva attuazione del diritto interno nell’ordinamento nazionale attraverso l’operato di una giurisdizione preparata ed attenta al nuovo diritto di matrice comunitaria, alla quale il sistema attribuisce un ruolo fondamentale ed unico.

In questa prospettiva si deve dunque leggere la responsabilità dello Stato per attività del giudice che non attenta all’indipendenza della magistratura ma, semmai, la pone di fronte a standard di professionalità sempre più elevati. Altrettanti attentati all’indipendenza e sovranità dello Stato si sarebbe dovuto intravedere, a voler essere coerenti, di fronte al riconoscimento stesso di una responsabilità dello Stato attività anche legislativa non conforme al diritto comunitario146

La Corte di giustizia, sempre preoccupata di difendere l’effettività dei diritti di matrice comunitaria ed il principio dell’effetto utile, nel prevedere la possibilità di ottenere una tutela per equivalente successiva alla definizione del processo deputato, in linea generale, ad espandere i diritti del cittadino, ha, con la responsabilità dello Stato per attività del giudice, voluto chiudere il cerchio, ammettendo che quel processo di interpretazione del diritto interno col diritto comunitario affidato al giudice possa avere malfunzionato e per questo costruendo un sistema di tutela ulteriore147.

Miope sarebbe pensare che i problemi prodotti dalla sentenza Traghetti del mediterraneo attengono solo alla fase legislativa interna.Essi, piuttosto, chiamano ancora una volta le giurisdizioni a nuove responsabilità.

Starà dunque alle giurisdizioni fare saggia e corretta applicazione dei dicta di Lussemburgo in tema di responsabilità dello Stato per equivalente, nella consapevolezza che le soluzioni adottate in quella materia potranno risultare utili se la giurisdizione non alzerà le barricate contro chi si farà promotore di un pieno dispiegarsi dei diritti, anche quando tali diritti dovessero risultare ingiustamente denegati proprio da quello stesso giudice che è al centro del sistema di tutela e che può commettere degli errori, soprattutto quando si trova a dover governare una congerie di norme di diversa matrice.

Riconoscere la responsabilità dello Stato per atto della giurisdizione, è un valore che la stessa magistratura deve avere la forza di garantire, rispettare ed applicare nei confronti del cittadino vulnerato nei propri diritti, proprio in nome di quei canoni di autonomia ed indipendenza che la magistratura non intende negoziare con alcuno.

Ora più che mai è giunto il momento di rendere effettivo il principio espresso dalle Sezioni Unite civili, che già nel 1999 –est.Carbone- riconoscevano come «il giudice della nomofilachia deve essere particolarmente attento per accertare, in sede di legittimità, l’esistenza o meno di una violazione dell’ordinamento comunitario che si concretizza in una vera e propria violazione di legge a tutti gli effetti»148.

E nello stesso contesto va ribadita l’importanza strategica del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia; strumento che, usando i termini espressi da un precedente della Cassazione del 1999, è stato , <>149.



2.5. L’ultimo tassello in tema di responsabilità dello Stato Giudice: Corte Giust. 24 novembre 2011, n.C-379/10, Commissione c. Italia .

Si giunge, così alla decisione, ai più nota, con la quale la Grande Sezione della Corte di Lussemburgo ha avuto modo di occuparsi nuovamente della legge n.117/1988.



Su due profili si è appuntata la sentenza che ha accertato l'inadempimento dell'Italia agli obblighi nascenti dalla disciplina in tema di responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell'Unione europea ascrivibile al giudice di ultima istanza.

A fondare la statuizione di inadempimento è stata, anzitutto, l'assenza di elementi dai quali potere inferire che lo Stato italiano, inteso nel suo complesso, avesse adottato dei passi significativi volti a rendere evidente l'adeguamento dell'Italia ai principi espressi dalla Corte di giustizia nel 2006.

In altri termini, è parso alla Corte assai strano che l'Italia non fosse riuscita a dare dimostrazione alcuna di avere adottato, vuoi a livello normativo, vuoi a livello giurisprudenziale, degli univoci indirizzi volti a dimostrare che ai principi codificati nella sentenza Traghetti del Mediterraneo fosse stata data attuazione.

Ancorché nulla abbia sul punto esplicitamente affermato, pare assai evidente che il giudice di Lussemburgo abbia mal digerito la condotta dell'Italia, rimasta silente rispetto alla sentenza del giugno 2006 anche quando era stata chiamata a misurarsi sulla portata della legge n.117/1988.

E proprio la "difesa" sul punto spiegata dal Governo italiano, volta a sostenere che i precedenti della Cassazione evocati dalla Commissione si riferivano a fattispecie non regolate dal diritto dell'Unione europea non poteva che risolversi in un boomerang, se solo si considera che non si poneva certo in discussione la non inferenza specifica delle decisioni rese dalla Cassazione e richiamate dalla Commissione a sostegno dell'azione di inadempimento a vicende concernenti il diritto dell'Unione, ma semmai la circostanza che l'assenza di orientamenti di diverso significato in tema di violazione del diritto dell'Unione da parte del giudice di ultima istanza - e comunque del legislatore- non poteva che determinare l'applicazione alle vicende coperte dall'ombrello eurounitario della legge n.117/1988 e del diritto vivente che sulla stessa si era andato formando, non ponendosi in discussione da parte dello Stato italiano la diretta applicabilità di quella legge anche al caso esaminato nel giudizio di inadempimento -cfr. p.27 sent. in commento-.

E' allora assai evidente che la prospettiva della Cassazione sul tema della responsabilità dello Stato per attività interpretativa del giudice è stata totalmente diversa da quella seguita dalla Corte di Giustizia.

Per giungere a tali conclusioni non può certo ritenersi che i precedenti evocati dalla Commissione potessero individuarsi come eccezioni rispetto a diverse precedenti prese di posizione.

Ed invero, Cass. 5 luglio 2007, n. 15227 e specificamente Cass.18 marzo 2008, n. 7272, nell'affermare che i presupposti previsti dall’art. 2, terzo comma, lett. a), della legge n. 117/88 sussistono «allorquando, nel corso dell’attività giurisdizionale, (...) si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo», si muovevano su binari già ampiamente tracciati da precedenti arresti della Cassazione.

La Corte di legittimità aveva già da tempo ritenuto che la disposizione del secondo comma dell'art.2 della legge n.117/1988 costituisce "clausola di chiusura" introdotta unitamente alla definizione dei casi costituenti colpa grave in ragione del «carattere fortemente valutativo dell'attività giudiziaria, la quale è connotata da scelte sovente basate su diversità di interpretazioni con conseguente possibilità di un'indiscriminata dilatazione del concetto di colpa grave»-cfr. Cass. n.12357/1999-. Esenzione di responsabilità che, secondo la Cassazione, era stata introdotta per tutelare l'autonomia della funzione giudiziaria e non poteva costituire fonte di responsabilità personale (pur se in sede di rivalsa -art.8- o disciplinare -art.9-) per il magistrato che l'ha compiuta- cfr. Cass. n.14860/2001-.

In definitiva, la Cassazione ha costantemente affermato che l'art.2 della legge 117/1988, nello stabilire i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni esclude che possa dare luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e delle prove. Dal coordinamento della concorrente individuazione dei casi di colpa grave operata dal comma 3 dell'art.2 l.ult.cit. con il comma 2 «discende che il momento della funzione giurisdizionale riguardante l'individuazione del contenuto di una determinata norma e l'accertamento del fatto, con i corollari dell'applicabilità o meno dell'uno all'altro, non può essere fonte di responsabilità, nemmeno sotto il profilo dell'opinabilità della soluzione adottata, dell'inadeguatezza del sostegno argomentativo, dell'assenza di una esplicita convincente confutazione di opposte tesi; anche in tali casi, infatti, l'affermazione della responsabilità dovrebbe passare attraverso una non consentita revisione di un giudizio interpretativo o valutativo.»-cfr. Cass. n.17259/2002-150.

Per tali ragioni, secondo la Cassazione, l'unica «fonte di responsabilità può essere invece l'omissione di giudizio, sempre che investa questioni decisive ...e sia ascrivibile a negligenza inescusabile»-cfr. Cass. ult. cit.-.

Si comprende, allora, il perché la c.d. clausola di salvaguardia contenuta nell'art.2 della legge n.117 del 1988 «non tollera riduttive letture perché giustificata dal carattere fortemente valutativo della attività giudiziaria e, come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza 19 gennaio 1989 n.18 , attuativa della garanzia costituzionale della indipendenza del giudice ( e del giudizio)»- cfr. Cass. n.17843/2002-.

Siffatta prospettiva non poteva essere sovrapposta a quella della Corte di giustizia che, pur consapevole della centralità dell'opera del giudice nazionale di ultima istanza, ha condiviso l'assunto della Commissione, volto ad escludere che il requisito della manifesta violazione del diritto dell'Unione codificato pretoriamente dalla Corte di Lussemburgo potesse rispecchiarsi nel diritto vivente della Cassazione reso palese dai principi sopra ricordati.

Evidente risulta, infatti, lo iato fra l'esonero di responsabilità come sopra precisato ed i contenuti della "violazione manifesta" di matrice eurounitaria, la quale va valutata alla luce del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere scusabile ovvero inescusabile dell’errore di diritto commesso ed andava presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia.

Il terreno sul quale si muove la Corte di Giustizia non poteva che essere lo stesso della sentenza Traghetti del Mediterraneo, nel quale aveva assunto un ruolo decisivo la portata letterale del secondo comma dell'art.2 rispetto ai contenuti linguistici utilizzati dai commi 1 e 3 della medesima disposizione.

In assenza di elementi concreti, che solo lo Stato italiano avrebbe potuto e dovuto prospettare e dimostrare, il giudizio negativo della Corte di Lussemburgo sulla clausola di salvaguardia appariva dunque già largamente ipotizzabile prima della decisione che si commenta.

Se, dunque, «lo Stato membro convenuto non ha fornito alcun elemento in grado di dimostrare validamente che… tale disposizione venga interpretata dalla giurisprudenza quale semplice limite posto alla sua responsabilità qualora la violazione risulti dall’interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e non quale esclusione di responsabilità», l'unica conseguenza possibile non poteva che essere il riconoscimento dell'inosservanza del diritto dell'Unione.

Inosservanza non meno palese rispetto all'ulteriore addebito mosso dalla Commissione europea, vieppiù rivolto a mettere in discussione l'effettività di tutela offerta al soggetto che prospetta una responsabilità dello Stato per violazione del diritto eurounitario da parte del giudice di ultima istanza. A cadere sotto la scure di Lussemburgo e' infatti l'interpretazione fornita dalla giurisprudenza italiana del concetto di colpa grave, ancora una volta idonea a depotenziare fino ad annullare le ipotesi di responsabilità.

Secondo la Commissione la nozione di «colpa grave», di cui all’art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/88, veniva interpretata dalla Corte di cassazione in termini coincidenti con il «carattere manifestamente aberrante dell’interpretazione» effettuata dal magistrato e non con la nozione di «violazione manifesta del diritto vigente» postulata dalla Corte ai fini del sorgere della responsabilità dello Stato.

A conforto di tale conclusione stava, ancora una volta, la giurisprudenza della Cassazione che, sul punto, aveva ricondotto la sussistenza della colpa grave ad ipotesi assolutamente residuali, determinando una limitazione della responsabilità dello Stato italiano, anche in casi diversi dall’interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e prove.

La Corte di Giustizia ha condiviso tale assunto, ritenendo che gli elementi forniti dalla Commissione erano sufficienti per fare ritenere che la condizione della «colpa grave», di cui all’art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/1988 viene interpretata dalla Corte di Cassazione in termini tali che finisce per imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di «violazione manifesta del diritto vigente» già sopra ricordata.

Se non era dunque in discussione la circostanza che il diritto nazionale può precisare i criteri relativi alla natura o al grado di una violazione da soddisfare affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato, non era parimenti opinabile che tali criteri non potevano, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente.

La difesa dello Stato, ancora una volta arroccata sulla "ininfluenza" della giurisprudenza della Cassazione rispetto alle ipotesi di violazione del diritto dell'Unione e sulla possibilità di fornire un'interpretazione conforme della normativa interna sul concetto di colpa grave a quella della Corte di Giustizia in tema di violazione manifesta non poteva, dunque, che soccombere. Proprio la circostanza che l'Italia non avesse fornito "nessuna giurisprudenza" capace di dimostrare che l’interpretazione dell’art. 2, commi 1 e 3, di tale legge accolta dai giudici italiani fosse conforme alla giurisprudenza della Corte ha determinato l'accoglimento del secondo addebito prospettato dalla Commissione.


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