1-4 ottobre Gogol’ nel cinema 6-14 ottobre Enzo G. Castellari, l’architetto dell’azione


Copia proveniente da Fondazione Luigi Micheletti



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Copia proveniente da Fondazione Luigi Micheletti
a seguire

Documento mensile n. 1 - Ambiente e personaggi (1951)

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia: Carlo Montuori; origine: Italia; produzione Marco Ferreri per Documento mensile; durata: 10’



Il film mostra la ricerca degli interpreti per un film (Ladri di biciclette). Documento Mensile fu il tentativo di un nuovo “genere” cinematografico. Esso, come una rivista di cultura, intendeva riunire in ogni numero appunti di critica, documentazioni, racconti brevi, notazioni poetiche. Si prevedeva la collaborazione non solo dei più noti registi, ma anche di insigni personalità della cultura italiana e straniera, che si fossero espressi col mezzo cinematografico in via del tutto eccezionale. Ebbe una vita breve, ne furono realizzati due numeri. Il breve film di De Sica è stato restaurato nell’ambito del “Philip Morris Progetto Cinema” ed è conservato presso la Cineteca Italiana.

Copia proveniente dalla Cineteca Italiana
mercoledì 28

ore 17.00

Le italiane e l’amore (1961)

Regia: Nelo Risi, Lorenza Mazzetti, Piero Nelli, Francesco Maselli, Giulio Questi, Gianfranco Mingozzi, Marco Ferreri, Carlo Musso, Giulio Macchi, Gian Vittorio Baldi, Piero Nelli, Florestano Vancini; origine: Italia/Francia; produzione: Magic Film, S.N. Pathé Cinéma; 109’



«Dalle lettere al direttore dei settimanali femminili la scrittrice Gabriella Parca trasse un libro che dimostrò come negli anni Sessanta, in pieno boom economico, la condizione femminile fosse ancora, per la maggior parte della popolazione italiana, ferma a vecchi pregiudizi» (Farinotti). «Ispirato al libro Le italiane si confessano di Gabriella Parca e supervisionato da Cesare Zavattini, è un film-inchiesta in 11 episodi con attori non professionisti sulla situazione della donna di fronte all’amore. I vari temi sono enunciati più che approfonditi; troppo dissonante la varietà di stili, toni, approcci. Gli episodi più riusciti: La tarantolata (G. Mingozzi), L’infedeltà coniugale-Gli adulteri (M. Ferreri), La separazione legale (F. Vancini)» (Morandini).
ore 19.00

Incontro con Virgilio Tosi


a seguire

Un quarto d’Italia (1961)

Regia: Virgilio Tosi; soggetto e sceneggiatura: Egisto Cappellini, V. Tosi, Lucio Battistrada; fotografia: Libio Bartoli; musica: Fausto Ferri; montaggio: Enzo Alfonsi; origine: Italia; produzione: Urbinum Cineproduzione; durata: 75’



Con i 2.500 miliardi di capitali amministrati, le casse di risparmio italiane rappresentano un quarto di risparmio nazionale. Questo film vuole essere una testimonianza, per quanto parziale, di questa presenza attiva delle casse di risparmio in tutti i settori della vita nazionale.
ore 20.40

I misteri di Roma (1963)

Regia: Libero Bizzarri, Mario Carbone, Angelo D’Alessandro, Lino Del Fra, Luigi Di Gianni, Giuseppe Ferrara, Ansano Giannarelli, Giulio Macchi, Lorenza Mazzetti, Enzo Muzii, Piero Nelli, Paolo Nuzzi, Dino B. Partesano, Massimo Mida, Giovanni Vento, Gianni Bisiach; soggetto e supervisione alla regia: Cesare Zavattini; collaborazione al commento: Braccio Agnoletti, Mino Argentieri, Ivano Cipriani, Callisto Cosulich, Giorgio Krimer, Luigi De Marchi, Luciano Malaspina, Lino Miccichè; origine: Italia; produzione: produzione: SPA Cinematografica; durata: 98’



«Documentario-inchiesta sulla capitale, ideato e coordinato da Zavattini; come il precedente Le italiane e l’amore, anche se in questo caso l’apporto dei singoli registi non è riconoscibile. dall’alba alla notte, si alternano bassifondi e (più raramente) quartieri alti: prostitute, papponi, spogliarelliste, barboni, operai e impiegati sfruttati, preti, consiglieri comunali missini, neofascisti. Zavattini voleva ricostruire l’anima di una città, dalle fogne alle borgate [...]. Esce [...] il quadro di una società già incattivita, nella quale prima di tutto conta il denaro. E la polemica è aperta (come negli episodi dei contraccettivi distribuiti nelle borgate, o nelle dichiarazioni di voto estorte alle prostitute, tutte di destra)» (Mereghetti).
giovedì 29

ore 17.00

Incontro con Marcello Gatti


a seguire

Ein Arbeitstag (1964)

Regia: Piero Nelli; ideazione: Cesare Zavattini; soggetto e sceneggiatura: P. Nelli, Enzo Muzii; dialoghi: Horst Monnich; origine: Germania; produzione: BASF - Badische Aniline und Soda Fabrik; durata: 59’



È un film che appartiene alla categoria del “cinema industriale”, ambientato nella fabbrica tedesca BASF presso Ludwigshafen Am Rhein, nel cuore di uno dei più grandi poli chimici del mondo. L’idea del film, suggerita da Cesare Zavattini, è quella di una simbolica giornata di lavoro, nella quale s’intrecciano le storie di due operai: il primo giorno di lavoro in fabbrica di un giovane operaio e l’ultimo di uno anziano. Il film è interpretato dalle stesse persone che hanno vissuto l’esperienza raccontata

Copia proveniente da Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
ore 18.20

Con il cuore fermo, Sicilia (1965)

Regia: Gianfranco Mingozzi; sceneggiatura: G. Mingozzi; testo: Leonardo Sciascia; consulenza: Cesare Zavattini; musica: Egisto Macchi; montaggio: Domenico Gorgolini; origine: Italia; produzione: Clodio Cinematografica; durata: 30’



«Le immagini sconvolgenti di una realtà sottosviluppata si organizzano in una sorta di poema visuale, molto denso, senza deviazione, senza concessioni naturalistiche. Il film è diviso in tre parti, distinte come i tre canti di un poema: la terra, la zolfara, la mafia. […] Interviste, commento (di Leonardo Sciascia), foto fisse (una insostenibile sequenza di “morti di mafia”) sono integrati da Mingozzi in un’opera che è più di un documentario di denuncia, malgrado la sua forza in questo campo: una riflessione “di un cuore fermo”, un poema civico che ci scopre una Sicilia senza folclore, quella di una disperazione quotidiana di una società arcaica e chiusa» (Fofi). «Non so da cosa nascesse questo amore per il sud, probabilmente dai tanti viaggi fatti, nei quali mi sono sempre sentito a mio agio, al contrario che al nord. Il sud mi si è subito aperto come un libro appassionante e ancora poco letto, e poi c’erano i contenuti, i drammi, il divario tra nord e sud. Ogni volta che ci tornavo, era come se io stesso mi sentissi colpevole di questo divario» (Mingozzi). Leone d’oro al Festival di Venezia (sezione documentari).
a seguire

L’ultimo pugno di terra (1966)

Regia: Fiorenzo Serra; testo: Giuseppe Pisanu, Emilio Lussu, Giuseppe Dessì; fotografia: F. Serra, Mario Vulpiani; musica: Franco Potenza ; montaggio: F. Serra; origine: Italia; durata: 97’



Nato da un progetto della Regione intenzionata a produrre un film che testimoniasse gli effetti “miracolosi” del piano di Rinascita in Sardegna, fu concepito, invece, dal regista come una pellicola che mostrava la nostra isola ancora “ferma nel tempo”, intaccata appena dagli inevitabili mutamenti in corso, e faceva il punto su problematiche sociali che erano ancora drammaticamente aperte nell’isola. Le riprese durarono quasi due anni. Il titolo è ripreso da una leggenda sull’origine della Sardegna, secondo la quale, dopo aver creato terre ferme e mari, a Dio era restato un pugno di terra, che gettò nel Mediterraneo e lo calpestò. Gli argomenti trattati, suddivisi in macrosequenze e ognuna con il proprio titolo, sono I pastori, quasi una preistoria; Cabras: un feudo d’acqua; Carbonia, una storia moderna; Alle radici dell’isola; Nell’attesa del domani. Serra, considerato uno dei migliori documentaristi della Sardegna, affronta quindi la materia utilizzando il linguaggio filmico per raccogliere immagini tra la documentazione sociale e lo studio antropologico ed etnografico. Il film ebbe anche la supervisione di Cesare Zavattini, che nel suo Straparole (1967) dedicò un piccolo paragrafo alla sequenza della “danza degli agnelli”, scrivendo come in quelle immagini, le pecore «si spostano tutte insieme di colpo da un punto del prato a un altro, leggere, leggerissime, come avessero aria sotto i piedi, richiamano i mutamenti repentini dei voli degli uccelli». Il progetto originale aveva l’ambizione di una diffusione nelle sale cinematografiche di un lungometraggio documentario. Ma la committenza regionale accolse negativamente il film, in quanto privo del carattere di propaganda che avrebbe dovuto avere, ma che anzi risultava molto critico nei confronti della realtà sarda. Questa reazione negativa danneggiò la diffusione del film, malgrado un premio al Festival dei popoli; da esso furono poi estratti alcuni film documentari.

Il film è stato restaurato dalla Cineteca sarda - Società Umanitaria presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata di Bologna.

Copia proveniente da Cineteca Sarda - Società Umanitaria
a seguire

Documento n. 1 – Conoscere per fare: campi di sterminio-Hiroshima (1972)

A cura di Cesare Zavattini; testo e commento: Danilo Dolci; origine: Italia; produzione: Unitelefilm per Comitato permanente per la difesa antifascista dell’ordine repubblicano; durata: 18’



Interamente composto da documenti filmici di archivio, il film si propone di offrire un materiale di riflessione affinché si conosca e si ricordi sempre uno degli aspetti più drammatici e angosciosi del mondo contemporaneo: il genocidio di massa. Il documentario ripropone quindi due aspetti spaventosi di questo fenomeno: i campi di sterminio nazisti, ben 11.500 in tutta l’Europa, in cui trovarono la morte oltre 10 milioni di uomini, donne e bambini di tutti i paesi, di tutte le razze, religioni e ideologie; la distruzione atomica che in due giorni dell’agosto 1945 distrusse le città di Hiroshima e Nagasaki e annientò in un attimo centinaia di migliaia di abitanti, lasciando un’eredità atroce e devastante per i corpi degli esseri umani.

Copia proveniente da Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
a seguire

Io e... – Zavattini e... il “campo di grano con corvi” di Van Gogh (1972)

Regia: Luciano Emmer; origine: Italia; produzione: Rai; durata: 14’

Io e... – Zavattini e... il “campo di grano con corvi” di Van Gogh appartiene a una serie di cortometraggi dedicati a un personaggio illustre e al suo rapporto con luoghi e opere o artisti celebri. Il programma era costituito da 14 episodi Rai, di cui 7 firmati da Emmer.
a seguire

Le statue non parlano più (1980)

Regia: Stefano Masi, Stephen Natanson; origine: Italia; produzione: CSC; durata: 30’



«L’opera di restauro dei beni architettonici di Roma non deve essere disgiunta dalla riduzione delle cause inquinanti e dalla ristrutturazione degli spazi urbani. Il documentario è il saggio di diploma del biennio 1979-80. Nei titoli di testa: “effetti speciali Dino Galiano, modellini De Angelis; si ringraziano il prof. Giulio Carlo Argan, ex sindaco di Roma, che ha seguito la realizzazione del film, la soprintendenza archeologica di Roma, l’Istituto Centrale per il Restauro, la Direzione dei Musei Capitolini, Cesare Zavattini, Roberto Perpignani» (Marco Grossi).
ore 22.00

La veritàaaa (1983)

Regia: Cesare Zavattini; soggetto e sceneggiatura: C. Zavattini; fotografia: Arturo Zavattini; scenografia: Romano Coddetta; musica: Z. [C. Zavattini]; montaggio: Gino Bartolini; interpreti: C. Zavattini, Pietro Barreca, Vittorio Amandola, Pietro Zardini, Giovanni Albanese, Domenico Albergo; origine: Italia; produzione: Realizzazioni Indipendenti Autori Cinematografici - R.E.I.A.C. Film, Rai; durata: 60’



«Scritto, diretto e interpretato da Zavattini, prodotto dalla divisione “ricerche e studi” della Rai-Tv insieme alla Reiac, La veritàaaa [...] è un apologo di un’ora molto “sui generis”, dettato da un gusto provocatore e sarcastico, lo stesso che ha dato a Zavattini la fama di “enfant terrible ”, ma oggi percorso da una passione anche civile di entusiasmante vitalità. [...] Il film si apre con un’invocazione, “Uomo, vieni fuori”, che subito lo colloca fra i “minima moralia” del cinema contemporaneo, inteso a restituire all’umanità il senso della propria intelligenza, da gran tempo smarrita per il cattivo uso che è stato fatto del pensiero. Siamo in un manicomio. Ribattezzatosi Antonio, Zavattini sproloquia sull’uomo occasione perduta, e si compiace delle belle frasi ad effetto che gli procurano l’applauso dei matti come lui. Salta un muro alto tre metri, e si aggira per le strade di Roma nel suo camicione bianco. [...] Dire che La veritàaaa sia di lucidità cartesiana sarebbe magnanimo, ma dire che è intelligente e spassoso dev’essere lecito. Esagitato, pirotecnico e irriverente come un ragazzaccio, profeta da comizio, vecchio arrabbiato e candido fanciullo, col suo faccione straordinario che lo rivela attore senza uguali, Zavattini ci ha dato un paradosso di grazia neo-illuminista in abito surreale. Fatto con poco (sui duecento milioni), e girato in studio con attori improvvisati, semmai un po’ troppo lungo, ma dal quale emerge con violenza il bisogno di riacquistare fiducia nell’uomo. Voltaire diceva che la parola è stata data all’uomo per nascondere il pensiero. Zavattini invece si augura che cessi ogni sorta di mistificazione, la doppia amministrazione del pensare e del fare; il predicare bene e il razzolare malissimo. Rompiscatole come ogni utopista, Zavattini vuole trasformare in energia umanitaria il muscolo del cervello, senza farci entrare per nulla la bontà. Importa poco che nel suo film s’intreccino illuminazioni messianiche e lunari freddure. Importa che Zavattini non si rassegni alla vecchiaia dei conformisti, e fra tutte le follie di questo mondo conservi la pazzia della ragione» (Grazzini).
venerdì 30

(In)visibile italiano: Nino Zanchin, il fascino dell’esotico

Professione aiuto regista: quanti grandi personaggi del cinema italiano (Rinaldo Ricci, Mario Maffei, Maurizio Mein, Franco Cirino, Tony Brandt, Roberto Pariante), autentici testimoni della storia del nostro cinema, hanno legato il loro nome alle fortune autoriali di altri? Rimanendo, però, depositari, oltre che di significative esperienze, dei segreti di un mestiere attorno al quale ruota la vita di un intero set. Nino Zanchin ha legato il suo nome, in particolare, al cinema di Pietro Germi, con il quale ha collaborato in opere fondamentali come Il ferroviere, L’uomo di paglia e Un maledetto imbroglio. È stato al fianco di Jules Dassin nella travagliata lavorazione de La legge e ha poi affiancato grandi “mestieranti” come Carlo Ludovico Bragaglia, Sergio Corbucci, Camillo Mastrocinque, Duccio Tessari, Lucio Fulci, Sergio Sollima e autori come Florestano Vancini (La banda Casaroli) e Luigi Comencini (La bugiarda). Esperienze che ha fatto valere nel passaggio alla regia, in una breve stagione a cavallo degli anni Settanta, che merita oggi di essere riesaminata per varie ragioni. Per la formula realizzativa, coproduzioni internazionali orchestrate da abili produttori come Salvatore Alabiso (La lunga sfida) e Alberto Grimaldi (Rebus), quindi grandi cast e ambientazioni esotiche, che costituiscono il marchio di fabbrica di Zanchin regista. Si muove dal Marocco alla Tunisia, passando per il Libano, con uno sguardo sempre attento alla realtà locale – politica, religiosa e sociale –, uno sguardo partecipe, per nulla “occidentalizzato”, ben lontano dagli sguardi pruriginosi dei mondo-movies. Zanchin racconta storie con mestiere (quello appreso da grandi registi e trasformato in una lezione vitale) e senso della narrazione, non disdegnando, anche quando abbraccia trasversalmente i generi, di soffermarsi su aspetti meno accattivanti per lo spettatore medio. Con il risultato di non sfondare al botteghino, condannandosi quindi alla fine della carriera di regista, ma anche di consegnarci film che rimangono e spiccano, nel cinema del periodo, per una loro irriducibile, esotica (e non solo) originalità. Vedere Perché (noto anche come I figli chiedono perché) che non potrà non suscitare profonde riflessioni, in tempi in cui l’integrazione è diventata un’utopia.


ore 17.00

Perché (1972)

Regia: Nino Zanchin; soggetto e sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico, N. Zanchin, Bendicò [Silvia d’Amico Bendicò]; fotografia: Eliseo Caponera; musica: Ennio Morricone; montaggio: Attilio Vincioni; interpreti: Susanna Melandri, Habib Namouchi, Rosemarie Dexter, Umberto Orsini, Mohamed Bosif, Henda Bellgho; origine: Italia; produzione: Istituto Luce; durata: 103’



Una bambina ebrea, figlia di un ricco ingegnere, diventa amica di un bambino arabo, che le fa scoprire un mondo diverso dal suo, più affascinante di quello a cui è abituata. I due bambini si sposano e decidono di andare a vivere in una casa sulla spiaggia, ma le notizie di una guerra imminente spingono il padre a lasciare il paese. La bambina si ribelle. Film di grande attualità che «ha tutte le carte in regola per ottenere consensi anche da un pubblico adulto. […] Raccontato con i moduli della favola, ma inserito nel contempo in una realtà politica e sociale di vita attualità, il film sviluppa due temi ben precisi: l’uguaglianza delle razze e la possibilità di un loro incontro sul piano dei sentimenti più genuini» (L. S., «Il Popolo»). Bellissima l’ambientazione tunisina. Da segnalare la presenza di Tarek Ben Ammar, assistente alla regia.

ore 19.00

La lunga sfida (1967)

Regia: Robert Andrews [Nino Zanchin]; soggetto e sceneggiatura: Fernando Di Leo, N. Zanchin, Alberto Cavallone; fotografia: Franco Delli Colli; scenografia: Saverio D’Eugenio; musica: Marcello Giombini; montaggio: Daniele Alabiso; interpreti: Giorgio Ardisson, Luigi Pistilli, Kattrin Schaake, Charaibi Ben Bensalem, Sieghardt Rupp, Marco Stefanelli; origine: Italia/Germania; produzione: Tritone Filmindustria, Rapid Film; durata: 89’



«Memore degli insegnamenti del suo maestro, Pietro Germi (di cui Zanchin era stato aiuto regista in Il ferroviere, L’uomo di paglia e Un maledetto imbroglio), Robert Andrews, alias Nino Zanchin, inscena una vorticosa lotta all’ultimo colpo fra due bande di contrabbandieri di droga e come in In nome della legge emerge a sorpresa il ritratto di un criminale dal cuore d’oro. In un Marocco non meno aspro e polveroso della Sicilia rappresentata da Germi, l’europeo Paynes (uno straordinario Luigi Pistilli) si scontra contro il reietto locale Blal (Charaibi Ben Bensalem), tentando con ogni mezzo di far uscire dai confini del paese 100 chili di hascisc. Blal, che non solo gestisce il traffico di droga, ma fissa il prezzo sull’intero mercato interno, si oppone utilizzando i medesimi metodi di Paynes. Una lunga sfida, come recita il titolo, in mezzo alla quale si viene a trovare («tra l’incudine e il martello») un ingegnere dell’Unione forestale, Bruno Pasquet (Giorgio Ardisson), che ha il privilegio con la sua jeep di passare i posti di blocco senza essere perquisito dalla polizia. […] Colpi di scena, omicidi, scambi di persona: la sceneggiatura di Di Leo, Cavallone e dello stesso Zanchin non si fa mancare nulla tenendo gli spettatori (pochi per la verità, all’epoca) con il fiato sospeso. Di Leo fa le prove per il suo cinema d’azione a venire, giocando sulle gradazioni fra bene e male e riproponendo certi cliché del western all’italiana, allora in voga. Meno individuabile l’apporto di Cavallone, se non per l’esotismo (di erotismo nemmeno l’ombra) in cui è avvolta l’intera vicenda, mentre Zanchin […] esordisce alla regia dimostrando grande mestiere e soprattutto la giusta sensibilità per coniugare il cinismo dell’intera vicenda con la delicatezza necessaria per rappresentare il mondo dell’infanzia» (Napoleone Wilson, «Nocturno», 2007).
ore 21.00

Rebus (1968)

Regia: Nino Zanchin; soggetto: Piero Catella; sceneggiatura: Sergio Donati, José G. Maesso, Mario Rossi, Leonardo Martin, Manfred R. Köhler; fotografia: Cecilio Paniagua; scenografia: Giantito Burchiellaro; costumi: Francesca Serano; interpreti: Laurence Harvey, Ann Margret, Pepe Calvo, Ivan Desny, Camilla Horn, Alberto De Mendoza; origine: Italia/Spagna/Germania; produzione: P.E.A., Tecisa Film, Rapid Film; durata: 80’



Jeff Miller, un croupier con il vizio della bottiglia, viene ingaggiato al Casinò di Beirut, dove il suo predecessore ha fatto una brutta fine. Ben presto si rende conto che le cose non girano per il verso giusto: una potente organizzazione ha architettato un piano per sbancare il casinò. Miller fa di tutto pur di smascherarla… Quando, come cantava Rino Gaetano: «chi parte per Beirut e ha in tasca un miliardo», bella vita, belle donne (la splendida Ann Margret), in un pellicola che riecheggia i coevi film spionistici e offre a Zanchin l’occasione per l’ennesima variazione sul tema dell’esotismo. Trama serratissima e complicatissima, sostenuta da un grande cast, dove spicca, oltre al protagonista Laurence Harvey, la brava Camilla Horn, che ci regala una folgorante battuta: «La mia faccia non mi assomiglia», dietro la quale si cela la soluzione del rebus.
sabato 31

Eccentrico italiano: il cinema secondo Adriano Celentano

Primo appuntamento di una serie di omaggi al cinema italiano visionario, bizzarro, transestetico, folle. Come per (In)visibile italiano, si cercherà di far riemergere dal buio opere ingiustamente misconosciute, ingiustamente dimenticate, a volte frettolosamente giudicate con pregiudizi ormai datati. Ma ancor più di (In)visibile italiano cercherà di essere trasversale superando la vetusta barriera tra cinema d’autore e cinema di genere. Filtro selettivo per questo nuovo appuntamento è appunto la natura eccentrica, visionaria, sperimentale dell’opera, che pone spesso lo spettatore di fronte a una riflessione che non trova risposta, ovvero: «A che cosa sto assistendo?!». Si è deciso di cominciare proprio con Adriano Celentano tra i personaggi eccentrici più celebri e che nei film da lui scritti, diretti e montati ha dato prova di una visione gioiosamente folle del cinema, che coniuga volentieri l’avanguardia insieme allo sberleffo, la comicità surreale con le estasi mistiche (il cine-monstrum megalomane Joan Lui - Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì, il bizzarro Geppo il folle), l’autobiografismo delirante con visioni pop degne di un Tinto Brass (Yuppi du). A proposito di quest’ultimo film la versione è quella originale e non quella recentemente “ritoccata” dal Molleggiato. Piaccia o non piaccia i film diretti da Adriano Celentano rappresentano un unicum inimitabile, un labirinto visionario dove il basso si mescola con l’alto per dare infine origine a una visione del mondo profetica e per nulla banale. Basti pensare che Yuppi du, selezionato al Festival di Cannes, era anche un musical che attaccava le ingiustizie sociali e denunciava con netto anticipo le morti bianche e i veleni tossici del Petrolchimico di Marghera.


ore 16.45

Joan Lui - Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì (1985)

Regia: Adriano Celentano; soggetto e sceneggiatura: A. Celentano; fotografia: Alfio Contini; scenografia: Lorenzo Baraldi; costumi: Elena Mannini; musica: Pinuccio Pirazzoli, Ronald Jackson; montaggio: A. Celentano; interpreti: A. Celentano, Claudia Mori, Marthe Keller, Federica Moro, Edwin Marian, Gianfabio Bosco; origine: Italia/Germania Occidentale; produzione: C.G. Silver Film, Alexandra Film, Extra Filmproduktion; durata: 146’



«Trash-cult-kolossal e totale disastro per Adriano Celentano, piccolo Kubrick dell’impresa alla sua ultima opera da regista. Un film sul ritorno di Cristo, interpretato da Celentano stesso, ai giorni nostri. [...] Celentano voleva fare Joan Lui da anni, ma i Cecchi Gori prendevano tempo. [...] Già in fase di riprese scoppia l’inferno. Le decine di ballerine e ballerini chiamati dall’America per il primo musical italiano stanno settimane senza far nulla a Roma e pesano sul budget. Il Maestro non riesce a controllare il proprio film, che deve essere in sala in tutta Italia il 25 dicembre, giorno della nascita del vero Lui. Per abbreviare i tempi di montaggio i produttori, alla fine, tolgono di mano i rulli del premontato a Celentano e li fanno stampare in stabilimenti diversi. Tre elicotteri e quattro aerei portano in tutta Italia le pizze del film a poche ore dal primo spettacolo. Joan Lui esce in una versione di quasi tre ore [...]. È un disastro, i critici ci sguazzano, il pubblico fugge. Celentano chiede in tutti i modi di poter rimontare il film. I Cecchi Gori hanno preparato una versione più corta, due ore circa, a insaputa del Maestro e stanno già facendo il cambiamento delle pizze in sala. [...] Scoperta la sòla grazie a una soffiata di un fan, Celentano chiede il sequestro immediato del film e dieci miliardi di danni ai Cecchi Gori per avergli rovinato l’opera d’arte e la reputazione. [...] Grazie all’interesse di Felice Laudadio è stato riproposto a Milano nell’agosto 1996 in edizione integrale. Forse era davvero un capolavoro» (Giusti).
ore 19.30

Geppo il folle (1978)

Regia: Adriano Celentano; soggetto e sceneggiatura: A. Celentano; fotografia: Alfio Contini; scenografia: Enrico Tovaglieri; costumi: Elena Mannini; musica: A. Celentano, Anthony Rutheford Mimms; montaggio: A. Celentano; interpreti: A. Celentano, Claudia Mori, Miki Del Prete, Jennifer [Chantal Benoit], Pietro Brambilla, Marco Columbro; origine: Italia; produzione: Clan Celentano Produzioni Musicali e Cinematografiche; durata: 115’



«È un gran peccato che in Italia siano stati aboliti i titoli nobiliari: Adriano Celentano sarebbe almeno baronetto come i Beatles, e a furore di popolo. Riesce infatti difficile prevedere che il pubblico, soprattutto giovanile e d’udito forte, non faccia festa a questo film matto come il protagonista, con cui lo stesso Celentano s’identifica, e dove antichi e recenti modelli di cinema (dal film-rivista al disco-musical), fusi con umoristica sciatteria, concorrono nella frenesia del rock a uno spettacolo, assolutamente intollerabile ai dispeptici, che rompe la monotonia di quelli solitamente inflittici dagli italiani sugli schermi. Nessuno dice che Geppo il folle è un capo d’opera. Si dice soltanto, e non è affatto poco a questi scuri di luna, che talvolta è un tale delirio di immagini e frastuoni da elettrizzare anche i nonnini. D’un autosarcasmo che compensa l’irritazione per l’esibizionismo di Celentano, e tanto scombiccherato da rispecchiare allegramente la nostra schizofrenia. Chi è Geppo? Un cantante milanese spavaldo e megalomane, che si considera il più forte del mondo, pari soltanto a Barbra Streisand, adorato dalle folle e servito come un re. Appunto volendo andare in America a cantare con la Streisand, prende lezioni d’inglese da una Gilda che per ora lo smusa e lo sfotte, a differenza di quante, appena lo vedono, svengono d’amore. Ma Gilda non è la sola a non lasciarsi incantare [...]. Il filo vago del racconto, e l’eventuale autocritica cui Celentano si abbandona giocando col proprio mito [...], sono meno interessanti della struttura dissociata del film, di quel cocktail di goliardia, scemenza e talento che evoca un surrealismo da balera ma anche certe memorie del cinema d’avanguardia (una mucca in salotto, una caffettiera semovente...). Cui corrisponde uno stile – persino il montaggio è molleggiato – che sublima il pasticcio nell’estasi manicomiale, con zoommate a ritmo di musica, obiettivi deformanti, inquadrature sbilenche» (Grazzini).
ore 21.30

Yuppi Du (1974)

Regia: Adriano Celentano; soggetto: Alberto Silvestri; sceneggiatura: A. Celentano, Micky Del Prete, A. Silvestri; scenografia: Giantito Burchiellaro; costumi: Elena Mannini; musica: A. Celentano; montaggio: A. Celentano; interpreti: A. Celentano, Claudia Mori, Charlotte Rampling, Lino Toffolo, Gino Santercole, Memo Dittongo; origine: Italia; produzione: Clan Celentano Films; durata: 132’



«Adriano Celentano, divo della canzone, è da oggi un autore di cinema. Sono forse il primo a stupirsene, ma è così. È un autore “serio”, da accogliere con soddisfazione, senza troppe riserve, Yuppi Du lo laurea, lo consacra. Non è un film perfetto, intendiamoci, ma è un film ricco, composito, estroso, con un senso felicissimo dello spettacolo, sia musicale sia teatrale; e con molte intuizioni cinematografiche, linguistiche, tecniche. Sovrabbondante di riferimenti e di citazioni, se vogliamo, ma anche personale, specie nella misura in cui il ricordo di altri autori e di altri generi si sposa con la concezione unitaria di una “rappresentazione” che, nonostante la varietà di ispirazioni, diventa spettacolo a sé. Cosa è Yuppi Du? Il primo musical della storia del cinema italiano? Anche, ma sarebbe troppo facile ridurlo a questo. Certo, qua e là si canta e si balla, ma di sfondo, quando all’improvviso l’azione finisce in palcoscenico o quando un personaggio vi si inserisce più logicamente con il canto che non con le parole; sono, però, solo momenti, passaggi; il musical, semmai (anzi la musica, quella pop), è l’anima segreta del film, il suo retroterra umano e culturale; da cui scaturiscono la lettera, il tono e il gusto del racconto e, subito dopo, i modi della sua “messa in scena”. Cosa è questo racconto? [...] Un uomo, credendo che la moglie sia morta suicida, ne sposa un’altra. Ma la finta suicida, non volendo più vivere con lui perché era povero, era invece andata via con un ricco; tornata di sfuggita, l’amore fra i due divampa di nuovo [...]. Le pagine migliori? Le nozze di lusso con l’intrusione in chiesa di quella singolare corte dei miracoli alla Bunuel in mezzo alla quale vive il protagonista, il racconto tutto Arrabal della violenza patita da una delle donne del gruppo, la morte dell’operaio nel cantiere, con echi di Brecht, il duetto d’amore fra il protagonista e la prima moglie sulla Torre de Mori in Piazza San Marco che si regge in equilibrio fra il musical americano del’60 e una sua segreta parodia latina; senza dimenticare quella cornice veneziana di sfondo, fatiscente, corrosa, vista insolitamente fra le erbe, i campi, i giardini, ora tutta dal vero (con gli occhi di Tinto Brass), ora con sapore malizioso di palcoscenico, “luogo deputato” per un balletto o una scena madre» (Rondi).
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