Dottrina sociale della chiesa


Trasformare un rozzo sasso in un letto



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Trasformare un rozzo sasso in un letto. A Somasca, u paese sul confine tra Venezia e il ducato di Milano, divenne per lui e i suoi compagni il luogo di pace. Qui trascorse gli ultimi mesi della sua vita dedicandosi al lavoro nei campi con gli orfani e i contadini, alla evangelizzazione della gente, alla penitenza flagellandosi e dormendo sopra un sasso rozzamente ridotto a forma di letto, e alla contemplazione nella solitudine di una grotta.

Contratta una pestilenza mente assisteva si colpiti dal male, morì in pochi giorni nella notte tra il 7 e l’8 febbraio 1537. “Pareva che avesse il paradiso in mano per la sicurezza sua; faceva diverse esportazioni ai suoi e sempre con la faccia così allegra e ridente che innamorava e inebriava dell’amore di Cristo chiunque lo guardava”. La sua preghiera preferita era: “Dolcissimo Gesù, non vogliate essermi giudice ma salvatore”. Clemente XIII lo dichiarò Santo, e Pio XI patrono universale degli orfani e della gioventù abbandonata. (A.Lucca)



Angela Merici, santa (1487-1540) Fondatrice delle Orsoline(testo in 2 pagine).
Due sorelle, un cuore solo. Mamma e papà, poveri contadini di Desenzano sul Garda, morirono quando lei aveva 15 anni. Le lasciarono poche cose, ma le regalarono una ricchezza che nessuno le avrebbe mai rapito: una fede cristiana solida e appagante. Angela fece un solo cuore con la sua sorella maggiore, e insieme vissero lavorando e pregando. Un fratello della mamma, molto ricco, le portò nella sua casa a Salò. Furono meno assillate dal lavoro, e dedicarono tutto il tempo libero alla preghiera. Andavano a dormire presto alla sera, per potersi svegliare e pregare mente ancora brillavano le stelle e l’aurora dipingeva di rosa l’orizzonte.

Ma quand’ebbe diciott’anni, Angela vide morire anche la sorella, e quando ne compì venti la morte si portò via anche lo zio. Che cosa voleva Dio da lei, in quel mondo che le sembrava sempre più pagano? La risposta la ebbe in una notte del 1497 (quando lei aveva 23 anni): come Giacobbe nella Bibbia vide una grande scala luminosa che congiungeva la terra al cielo. Sulla scala saliva verso l’alto una turba di ragazze, ciascuna accompagnata da un angelo. Una di esse era una sua cara amica morta di recente, che si volse a lei e le disse: “Tu devi fondare una comunità in cui cresceranno gli angeli che accompagneranno le ragazze verso Dio”.

Angela non credette molto a questo sogno. Era iscritta al Terz’Ordine di san Francesco, e cercò d’imitare il Santo vivendo in strettissima povertà. Ma cominciò anche a guardarsi intorno. Scoprì le case delle famiglie poverissime, le filande dove entravano ragazzine giovanissime per guadagnarsi il pane. Penetrò in quelle case, entrò in quelle filande. Portava un piccolo aiuto e una grande fede. Diceva a tutti: “Dio è qui!”. Non sapeva cosa volesse dire ‘educare le ragazze’, perché fino a quel tempo nessuno si era preoccupato di farlo. Lei faceva quello che la sua mamma aveva fatto con lei: voleva bene, aiutava, insegnava a conoscere Gesù. E siccome aveva da sola imparato a leggere e anche un poco a scrivere, lo insegnava a chi le chiedeva di imparare.

La vedova di Brescia. Aveva 40 anni quando una benestante vedova di Brescia, Caterina Patengola, la pregò di andare ad abitare nella sua casa. Si sentiva sola perché aveva perduto i figli in guerra (quelle frequenti guerre che si combattevano per i diritti dell’imperatore, dei principi, dei papi, e che i poveri pagavano per tutti). Pregavano insieme, e insieme cominciarono a radunare nella vasta casa bambine e ragazze povere. Le nutrivano, spiegavano loro il catechismo, insegnavano a leggere e a scrivere, facevano loro imparare un lavoro, le portavano con sé a curare i malati.

Si cominciò a parlar bene di loro nei paesi intorno. I Gonzaga di Mantova invitarono Angela a far qualcosa di simile nelle loro terre. Francesco II Sforza la invitò diverse volte a Milano, si consigliò a lungo con lei fino a chiamarla ‘sua madre spirituale’. La pregò di portare la sua opera nella sua città.



Pellegrina in Terra Santa. A 48 anni, Angela Merici pellegrinò in Terra Santa accompagnando un suo parente. Pellegrinò anche a Roma, per acquistare la grande indulgenza del Giubileo. A Roma papa Clemente VII la volle incontrare, e la esortò a rimanere negli Stati della Chiesa a iniziare un’opera di educazione per le ragazze. Nessun’altra donna prima di lei, infatti, si era occupata dell’educazione della gioventù femminile.

Ma negli Stati della Chiesa stava arrivando le guerra, e Angela tornò alla sua Brescia. Anche lì però giunse la guerra condotta dall’imperatore Carlo V. Angela dovette salvare se stessa e le sue giovani dalla soldataglia. Intensificò preghiere e penitenze per ottenere da Dio la pace.

In quel tempo così turbinoso, in cui ognuno sembrava pensare solo a salvar la propria vita, chi avrebbe pensato che stava per nascere una nuova famiglia religiosa, destinata a fare un bene grande? Molte giovani e donne del popolo avevano chiesto di vivere con lei. Angela però aveva preferito lasciarle nella vita di tutti i giorni, perché ciascuna si impegnasse dove viveva a istruire le giovani senza istruzione, a visitare e curare i malati, a soccorrere i poveri.

Ma a farle cambiare parere intervennero due fattori decisivi. Serafino di Bologna, suo confessore e direttore spirituale, le diede l’ordine di istituire una vera famiglia religiosa per l’educazione della ragazze. Obbedendo, Angela scelse dodici giovani, con cui iniziò a vivere non proprio insieme, ma radunandosi ogni tanto per decidere le preghiere e le opere di bene da fare insieme. Due anni dopo –racconta Angela- vide la martire sant’Orsola, che a nome di Dio la rimproverò della sua lentezza nel realizzare la sua famiglia spirituale, e la esortò a unirla più strettamente dandole il nome di Orsoline.

Angela Merici aveva ormai 61 anni quando radunò per la prima volta la sua famiglia religiosa. La radunò in un’ampia casa situata sulla piazza della Cattedrale, prestatale da una vedova cristiana. Era il 25 novembre 1835. Arrivarono molte postulanti. Angela però continuò a chiedere alle sue religiose solo un minimo di vita comune per pregare insieme (né voti, né abito). Chiese invece sempre un costante contatto con il prossimo bisognoso.

Ad esse diede una regola molto semplice e il nome di Compagnia di S.Orsola.

Lasciò anche dei Ricordi e un Testamento spirituale che racchiudono la sua eredità spirituale. Andò incontro a Dio il 27 gennaio 1540.
Antonio M. Zaccaria, santo(1502-1539) Fondatore dei Barnabiti(2 pagine)
Il mantello di seta. Sua madre, ricca e nobile, aveva appena 18 anni quando gli diede la vita. Il padre era morto durante la gravidanza, e lei addensò sul suo figliolino tutte le tenerezze e le cure. Lo crebbe innocente, pio, amante dei poveri. Fu orgogliosa di lui quando, uscendo dalla Messa, videro una mamma col suo bambino che tremavano dal freddo, non avevano con sé denari, e Antonio Maria d’impulso li ricoprì col suo prezioso mantello di seta.

Venne presto la guerra. Cremona fu invasa dai soldati del re di Francia. Ma Antonio Maria, anche tra i rumori di guerra, compì i suoi studi superiori: filosofia a Pavia, dottorato in medicina a Padova a 22 anni. La vita degli studenti era libertina: vino e donne. Antonio Maria invece condusse vita da monaco: Comunione ogni domenica, voto di verginità, rinuncia a tutti i suoi beni materiali a favore della madre.

Entrato nel Collego dei Medici di Cremona, cominciò a curare i malati. Ma si accorse subito che prima dei corpi occorreva curare le anime. Vino e vizio rovinavano tante vite. La miseria distruggeva famiglie dove il padre lavorava poco e beveva molto, dove i figli intristivano senza lavoro né istruzione.

Antonio Maria studiò teologia e a 26 anni fu ordinato sacerdote. Nella chiesa di S.Vitale, vicina a casa sua, cominciò a radunare fanciulli e a far loro catechismo, innamorandoli di Gesù. Famiglie nobili gli affidavano i figli, ed egli apriva le loro menti a una fede soda con omelie semplici e dialoghi vivaci.

S.Vitale fu presto insufficiente a contenere i fedeli che volevano ascoltarlo, confessarsi da lui. Anche gli ospedali e le carceri chiedevano il suo ministero sacerdotale.

Troppi preti scandalizzavano. Quando fu ordinato sacerdote (1528) mancavano ancora 17 anni all’apertura del Concilio di Trento, che avrebbe rinnovato la Chiesa e la vita dei preti. “In quegli anni, troppi infelici sacerdoti e religiosi scandalizzavano il popolo con ignoranza, lusso, e vizio” (G. Pettinati).

Antonio Maria pensò di combattere quel male raccogliendo in una fondazione sacerdoti umili, penitenti e operosi. Aspettava l’occasione per cominciare.

L’occasione arrivò quando la contessa Ludovica Torelli, vedova, decisa a dedicare i suoi beni all’educazione delle fanciulle abbandonate, lo invitò a Milano a iniziare la sua fondazione. Era il 1530. Antonio Maria aveva 28 anni.

In Milano la parola di Dio veniva predicata solo in quaresima. Il catechismo non si faceva mai. Esisteva tuttavia l’ “Oratorio dell’Eterna Sapienza”, che promuoveva la vita cristiana tra sacerdoti e laici. Anima dell’Oratorio erano due giovani milanesi di famiglia nobile: Bartolomeo Ferrari e Giacomo Morigia. Essi invitarono Antonio Maria a parlare in una riunione dell’ Oratorio. Egli accettò, ed espose con entusiasmo il suo progetto. Con parole di fuoco accennò ai mali della cristianità, e disse quanto bene sarebbe venuto alla Chiesa da un’unione di sacerdoti stretti da voti religiosi e totalmente dedicati all’educazione della gioventù e alla rinascita della fede nella società.

Ferrari e Moriggia furono i primi ad aderire alla sua iniziativa. Antonio Maria fu il fondatore e loro i confondatori di quello che chiamarono “Ordine dei Chierici Regolari di San Paolo”.

Il loro centro fu la casa dove la contessa Torrielli aveva già raccolto molte ragazze desiderose di crescere nell’istruzione e nell’educazione. In quei giorni decisivi, Antonio Maria scrisse al suo direttore spirituale: “Intercedete presso Dio perchè possa svestirmi delle mie imperfezioni, della pusillanimità e dell’orgoglio”.

Iniziarono una vita di rigorosa povertà e di totale servizio cristiano. I loro primi obiettivi furono: l’educazione delle giovani, la predicazione, l’assistenza ai malati e ai carcerati. Molti chiedevano di entrare nell’Ordine. Ma solo dopo l’approvazione del papa Clemente VII poterono ricevere nuovi confratelli e legarsi alla Chiesa con i primi voti pubblici. Era il 18 febbraio 1533.

La crescita dei membri obbligò a trasferire il centro dell’Ordine in una casa affittata accanto alla chiesa di S.Caterina. Lì Antonio Maria parlò sovente ai nuovi arrivati, tracciando le regole fondamentali dell’Ordine e ponendo a fondamento di tutto una grande devozione a Gesù crocifisso e a san Paolo.



I padri e le madri di famiglia. Nella stessa chiesa parlò molte volte ai padri e alle madri di famiglia per ammaestrarli sui loro doveri. Tra essi costituì una specie di Terz’Ordine, che impegnò nell’insegnamento del catechismo ai ragazzi abbandonati, ai malati e ai carcerati.

Fu lui a iniziare la pratica delle Quarantore, un condensato di preghiera e di predicazione per chi voleva ricominciare a vivere la fede.

Nel 1586 (aveva 34 anni) suggerì che Superiore dell’Ordine fosse eletto padre Moriggia. Egli da quel giorno si dedicò a due imprese delicatissime: la selezione di quanti chiedevano di entrare nell’Ordine, e la trasformazione della casa della baronessa Torelli in monastero. Qui egli, tra le ragazze che si erano riunite per ‘ricevere un’educazione’, accompagnò la nascita delle Angeliche di San Paolo. Fu il monastero di cui san Carlo Borromeo, negli anni successivi, si sarebbe servito per riformare tutti i monasteri della grande archidiocesi.

Ma Antonio Maria non potè vedere questi splendidi frutti. Dio lo chiamò a sé il 5 luglio 1539, a soli 37 anni. Otto anni dopo, il suo Ordine pose il suo centro nella chiesa di san Barnaba, ricavandone il nome sotto il quale oggi è conosciuto: i Barnabiti.




Giuseppe Calasanzio, santo (1557-1648) Fondatore degli Scolopi (2 pagine).
Peralta, regno di Aragona. Di antica famiglia nobile, suo padre sognava per lui una gloriosa carriera militare. Giuseppe invece (nato a Peralta del Sal, nel regno di Aragona) chiese con rispetto di poter studiare diritto e filosofia alla celebre università di Lerida. E si dimostrò uno studente saggio. I compagni di università lo elessero ‘principe’ per la sua condotta pia, penitente e innocente.

Al termine dei corsi, sempre con il rispetto dovuto a suo padre, gli chiese il permesso di studiare teologia a Valenza, per diventare sacerdote.

A Valenza abitò in una famiglia di conoscenti. Viveva accanto a lui una splendida ragazza, figlia di quella famiglia. L’entusiasmo festoso dei vent’anni la fece innamorare perdutamente di Giuseppe, studente calmo e bello. Anche Giuseppe aveva vent’anni, e capì che doveva scegliere: o fidanzarsi con quella cara amica che lo adorava, o afferrarsi saldamente al suo ideale: diventare sacerdote. Dopo aver pregato a lungo, decise per il sacerdozio. Sebbene gli costasse molto, lasciò Valenza e andò a terminare i suoi studi teologici ad Alcalà.

Giuseppe fu ordinato sacerdote a 25 anni dal vescovo di Urgel. Era tanta la stima che lo circondava, che lo stesso Vescovo lo scelse come teologo, giudice e visitatore (occorreva persuadere i parroci a mettere in pratica le disposizioni del Concilio di Trento terminato ormai da vent’anni, ma che trovava forti opposizioni). Ovunque la sua azione discreta ma decisa persuase i parroci a rinnovare la predicazione, a ridare alle chiese pulizia e bellezza, a celebrare la Messa e i Sacramenti col massimo decoro. Tutto questo fece rifiorire la vita cristiana. Subito dopo il Vescovo lo nominò suo Vicario generale.



Chiamato dal Cardinale. Ma anche a Roma era giunta la fama di questo sacerdote santo e attivo, e il cardinale Colonna nel 1592 lo chiamò a far parte della sua famiglia. Aveva 34 anni quando partì dalla Spagna. A Roma, mentre si dedicava all’educazione di un nipote del Cardinale, Giuseppe si guardava intorno e scopriva la povertà materiale e spirituale della gente.

Dopo essere stato pellegrino ad Assisi, sulla tomba di san Francesco, cominciò la sua battaglia cristiana su due fronti: soccorrere i poveri e i malati nelle case e negli ospizi; rianimare l’insegnamento del catechismo ai ragazzi e al popolo.

Camminava un giorno in una piazza e pregava recitando il salmo 10 (“A te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei il sostegno…”) quando gli passò davanti una turba vociante di ragazzi laceri e sporchi. In quel momento, Giuseppe capì che Dio lo chiamava a fondare scuole gratuite, elementari, che tirassero via dalla strada e dall’ignoranza i figli del popolo. Fu il primo a pensarle e a realizzarle. Le chiamò fin dal primo momento Scuole Pie.

Dopo aver cercato invano l’aiuto della autorità municipali, dei Domenicani e dei Gesuiti, iniziò da solo, in due povere stanze vicine alla sacrestia di S. Dorotea in Trastevere. Era la fine del 1597. Quando si seppe che un prete spagnolo aveva aperto per i ragazzini scuole gratuite, giornaliere, senza distinzioni tra ricchi e poveri, le famiglie popolane gli mandarono con entusiasmo i loro figli. Bisognò trovare locali sempre più ampi.

Nel 1612, quando le Scuole Pie si trasferirono presso la chiesa di S.Pantaleo, gli scolari erano 900. Gli insegnanti non erano granchè: Giuseppe non aveva molto soldi per stipendiarli. Ma il suo metodo, adottato in ogni Scuola Pia, dava ugualmente buoni frutti. Innanzitutto si insegnava in italiano, non più in latino. Si insegnavano i primi rudimenti del leggere e dello scrivere, non poesie e discorsi. L’istruzione non era soffocata dall’insegnamento religioso: non si imparavano solo preghiere, ma anche le parole del mercato, della cucina, del negozio, dei mestieri. Le classi non erano affollate. Gli orari erano puntuali. Periodicamente si davano esami. Si fornivano a tutti: mensa, libri, assistenza nel fare i compiti dopo la scuola.

Arrestato, imprigionato, deposto. Dopo aver fatto osservare attentamente le sue scuole, il papa Clemente VIII gli fornì aiuti economici generosi.

Intanto arrivarono i primi collaboratori stabili: dietro don Dragonetti, siciliano, furono quattordici i preti-maestri che arrivarono decisi a dare una mano a Giuseppe Calasanzio. Nel 1617 papa Paolo V approvò la nuova famiglia religiosa con il nome di Congregazione Paolina delle Scuole Pie.

Negli anni che seguirono, la Scuole Pie si diffusero rapidamente in Italia e nell’Europa del Nord. Nuovi Papi trasformarono la Congregazione in Ordine religioso con voti solenni, invitarono il fondatore a scriverne le Regole, diedero ai membri l’abito religioso, cambiarono addirittura il nome in Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie. Ma alla gente interessavano le ultime due parole, Scuole Pie, e li chiamò sempre Scolopi.

Da vecchio, Giuseppe Calasanzio ebbe molte opposizioni (le opere di Dio ne hanno sempre tante). Fu accusato presso i Papi della cose più assurde, fu addirittura arrestato, imprigionato, deposto dalla carica di Superiore. Sopportò tutto con pazienza e spirito di penitenza. Mentre moriva, a 90 anni, si fece leggere la passione del Signore.

Oggi egli è santo, ed è stato proclamato ‘patrono di tutte le scuole cattoliche’.

Vincenzo De Paoli, santo (1581-1660) fondatore delle Figlie della Carità e dei Preti della Missione (il testo deve stare in 3 pagine. Se trasborda, si taglierà).
Sono un guardiano di porci”. “Non sono che un guardiano di porci e il figlio di un povero contadino”, diceva da vecchio quando qualcuno cercava di baciargli la mano. Gli occhi gli brillavano tra mille rughe. Aveva un temperamento forte, e il realismo solido e scaltro dei contadini. I suoi genitori furono Giovanni de Paul (che noi abbiamo cambiato in ‘de Paoli’) e Bertranda de Moras, proprietari di una casupola e di alcuni campi a Pouy, in Francia.

Da ragazzo fece il pastore. Coperto di una pelle di montone, alto sui trampoli che si usavano nella sua regione paludosa, conduceva al pascolo vacche e maiali. Quando ritornava da mulino, dove aveva portato a macinare il grano, gli accadeva di incontrare degli invalidi che vivevano di elemosina. Apriva il sacco e regalava manciate di farina. Suo padre lo lasciava fare. Non che fosse un ragazzo diverso dagli altri, Vincenzo. Era ambizioso e testone la sua parte, ma davanti ai miserabili sentiva sempre una specie di pena.

A 15 anni fu messo a studiare dai francescani di Dax. “Ricordo che lì commisi il primo peccato mortale – ricordava Vincenzo. – Mentre ero nell’aula di studio mi fu detto che era venuto a trovarmi mio padre. Era un contadino mal vestito e zoppicava, e io mi vergognai di lui e rifiutai di andargli a parlare”.

Vincenzo fu ordinato sacerdote che non aveva ancora vent’anni, e riuscì a recarsi a Roma per terminare i suoi studi teologici. Prima di ripartire per la Francia riuscì a incontrare il Papa Paolo V e a parlargli. A quel pretino dall’aspetto insignificante (in quel tempo in cui le spie venivano a sapere ogni cosa) il Papa affidò un messaggio confidenziale per il re di Francia Enrico IV.

Fu quella l’occasione per entrare nella Corte. Il re fu contento della riservatezza del messaggero, e lo ricompensò con il titolo di ‘elemosiniere della regina’. Era un titolo senza significato, che serviva solo a ricevere uno stipendio. Ma Vincenzo lo prese sul serio. Come ‘elemosiniere’ si presentò alla regina Margherita, e le chiese di portare il suo aiuto ai malati dell’Ospedale della Carità. Vincenzo sapeva che là erano ricoverati i malati più miserabili, in stanze sporche e in letti puzzolenti. Ma la realtà che vide superò di gran lunga la sua immaginazione. I malati si picchiavano per disputarsi lo scarso cibo. Fu il primo impatto violento con la miseria che dilagava nella Francia.

Quando san Vincenzo si vergognò. Vincenzo si vergognò di vivere nel lusso della Corte, e chiese di essere mandato tra i contadini poveri.

Nell’autunno del 1613 fu nominato parroco di Chatillon, cittadina circondata da grandi pascoli e stagni. La vita cristiana era nel più totale abbandono. Si sentì stringere il cuore davanti alla chiesa: era stata trasformata in una stalla. Ma ciò che lo rattristò di più fu la miseria della gente. Pochi benestanti, molte famiglie nello squallore. Bambini che morivano nella fame e nel sudiciume.

Vincenzo passò subito ai fatti. Organizzò una ‘cooperativa della carità’ che non solo aiutava i bisognosi, ma tentava di farli uscire per sempre dalla miseria: insegnava nuove maniere di coltivare la terra, di difendere i raccolti.

Cappellano di seimila galeotti. Dopo cinque anni, Vincenzo è richiamato a Parigi come ‘educatore dei figli del generale Gondi’. Accetta perché il generale è il sovrintendente alle navi ‘galere’, e le ‘galere’ in quel momento sono una delle più grosse vergogne della Francia.

Queste navi da guerra, che difendono le coste del Mediterraneo dai corsari, sono lunghe e stette, e sono spinte a volte dalle vele, a volte dalla sola forza dei remi. Ai remi sono incatenati i ‘galeotti’, cioè i condannati all’ergastolo. Le galere hanno bisogno di seimila galeotti. Se non ci sono sufficienti ergastolani, vengono incatenati ai remi i prigionieri di guerra musulmani e anche altri imprigionati per delitti non gravi. I galeotti sono ammassati nelle prigioni di Marsiglia e di Tolone. Da quando salgono sulle navi vivono sporchi e tormentati dagli insetti, a dorso nudo anche sotto le intemperie, sotto la frusta dei sorveglianti. Vivono in stato di disperazione, e se muoiono sono gettati in mare.

Vincenzo va a visitare la prigione di Marsiglia e ne esce sulle furie. Discute indignato con il suo ‘generale’, poi avvicina principi e ministri, parla, supplica, minaccia perfino. Non riuscendo a capire perché si preoccupi tanto dei galeotti, gli aumentano lo stipendio, gli danno il titolo di ‘cappellano di tutte le galere’. Ma lui non sa che farsene. Vuole un trattamento più umano per quei poveretti, e in parte riesce ad ottenerlo. Esige che quelli non condannati all’ergastolo siano immediatamente liberati, e lo accontentano. Ma poi non gli concedono più nulla.

La situazione della gente, nella città e nelle campagne, era miserabile. Le continue guerre devastavano le campagne, portando carestia e pestilenza. Per le vie di Parigi si incontravano turbe di artigiani disoccupati, vecchi, vedove, vagabondi, ragazzi cenciosi. Dovunque si aggiravano bande di rapinatori disposti a tutto per sopravvivere. Le autorità si dichiaravano impotenti.



Da solo contro la miseria. Vincenzo, invece, voleva che quella miseria dilagante finisse. Da solo poteva ben poco. Decise di radunare gruppi di sacerdoti che viaggiassero per la campagna come in terra di missione, a risollevare i poveri: persuaderli che vivendo ognuno nel proprio egoismo non sarebbero mai usciti dalla miseria. Occorreva tornare a pregare, a volersi bene, ad aiutarsi a vicenda, a lavorare i campi rispettando il raccolto degli altri, a ricominciare con testarda volontà dopo ogni disastro. I primi ad accettare il suo invito furono una decina di preti della Piccardia, con buoni risultati. Seguirono molti altri sacerdoti, e la ‘missione’ si estese a tutta la Francia. Furono chiamati ‘i preti della Missione’.

Contemporaneamente alla campagna occorreva pensare a Parigi e alle città. Vincenzo radunò il fior fiore delle nobili dame, e le mise al corrente della miseria che regnava nei quartieri poveri e negli ospedali. Molte di esse non avevano mai visto un ospedale. Seguendo Vincenzo videro quei luoghi dannati dove mancavano le norme più elementari di igiene: i malati erano coricati a due o tre per letto, la fame e la sporcizia uccidevano più della malattie. Esse si unirono come ‘Dame della Carità’, e s’impegnarono per il nutrimento dei malati. Ma non se la sentirono di lavare i panni sporchi, lavare i pavimenti, pulire i servizi igienici.

Allora Vincenzo si rivolse alle ragazze di campagna. La prima che accettò fu Margherita Naseau, una semplice e mite contadina. Fu la prima ‘Figlia della Carità’. Venne a Parigi e si dedicò ai poveri dal mattino alla sera. “Tutti le voleva bene – scrisse Vincenzo – perché in lei non c’era niente che non fosse bontà”. La sua vita fu breve. Morì non ancora trentenne “per aver fatto dormire con lei una povera ragazza malata di peste, che da sola aveva paura”. Ma subito dopo Margherita arrivarono tante altre ragazze di campagna, desiderose di servire i poveri. Vincenzo mise a capo si questa nuova famiglia la signora Luisa di Marillac, che oggi veneriamo come santa. Vincenzo parlò loro chiaro e tondo: “Non voglio che diventiate suore, ma che rimaniate donne cristiane che vivono insieme per servire i poveri. Avrete come divisa la veste delle donne popolane, come convento le case dei malati, per cappella la chiesa parrocchiale, per monastero le strade della città, per penitenza il servizio dei poveri, per velo la modestia dei vostri occhi e il timor di Dio”. Le ‘Figlie della Carità’ si svilupparono in paniera prodigiosa, come i pani e i pesci tra le mani di Gesù.

I bambini abbandonati alle porte delle chiese. Una piaga faceva sanguinare il cuore di Vincenzo: i bambini abbandonati. Ogni anno, a Parigi, venivano abbandonati alle porte delle chiese centinaia di bambini. Morivano. “Da 50 anni – scriveva Vincenzo –non ne è rimasto in vita neppure uno”. Dopo una vivacissima discussione, le Dame della Carità accettarono di aprire ‘L’opera dei trovatelli’ che ne salvò moltissimi.

Quand’ebbe 78 anni, Vincenzo vide come un miracolo tornare in Francia la pace. Guerra, carestia, pestilenza erano finite. Subito dopo la salute di Vincenzo crollò. Morì su una seggiola accanto al fuoco, perché sentiva tanto freddo. Aveva quasi 80 anni. Era il 27 settembre 1660.



Giovanni Battista de La Salle, santo (1651-1719) fondatore dei Fratelli delle Scuole Cristiane ( il testo deve stare in tre pagine, se trasborda sarà tagliato)
Il barbone morto nella stalla. Si era presentato un povero al palazzo della nobildonna De Maillefer di Rouen, ma era stato scacciato dalla sdegnata padrona di casa. I cocchiere di palazzo, avendone pietà, lo fece riposare nella stalla dove però il povero stremato dagli stenti, morì. La padrone, informata dell' accaduto, indispettita e furiosa, gettò al cocchiere una tovaglia: “Avvolgetelo con questa e portatelo via!” Così fu fatto. Ma rientrando in sala da pranzo, Madame de Maillefer trovò la stessa tovaglia accuratamente piegata, accanto al suo posto. Spaventata e turbata si confidò al padre Barrè, suo direttore spirituale. “Respingendo quel povero, Voi avete respinto Gesù – fu la risposta –. La vostra ricchezza vi rende responsabile davanti alla povertà del prossimo”. Barrè ricordò le molte occasioni in cui avevano parlato della misera condizione di tanti bambini e bambine, ridotti allo sbando e all’emarginazione in Rouen. Jeanne Maillefer accolse la proposta e vennero aperte scuole, chiamate ‘Scuole del Bambino Gesù’, per le fanciulle povere della città.

Il progetto si diffonde. Madame de Maillefer, originaria di Reims, visto il bene operato dalle scuole aperte in Rouen, volle trasferire l’iniziativa anche alla sua città natale e, sempre con l’aiuto di padre Barrè, riuscì a promuovere l’attività dell’Abbè Roland che istituiva anche in Reims le ‘Scuole del Bambino Gesù’. I tempi erano durissimi, e per proseguire l’opera, l’Abbè Roland è costretto anche ad elemosinare ed aggravare il proprio stato di salute, morendo, a soli 35 anni, per un’improvvisa emorragia. Ha appena potuto assistere alla prima Messa si un carissimo amico, il canonico Giovanni Battista de la Salle, nipote della Maillefer, lasciandogli, per testamento, la direzione delle proprie scuole. Sollecitato personalmente dalla zia e dall’entusiasmo di due giovani collaboratori giunti da Rouen, il de la Salle si pone con energia nell’opera lasciatagli da Roland. All’Arcivescovo e agli amministratori della città egli traccia un quadro realistico: “I genitori, costretti a lavorare a giornata, lasciando i i propri figli in stato di abbandono. Padri e madri sono costretti a lavorare fuori casa, per poter sopravvivere e provvedere alla famiglia. Figli e figlie vivono in strada, inclinandosi così alla delinquenza ed all’immoralità. A questa drammatica situazione si può ovviare istituendo scuole gratuite ove i ragazzi possano vivere tutto il giorno accanto a maestri dediti alla loro educazione, imparando a leggere, scrivere, far di conto e rispettare la famiglia, la società e la Religione. Rifiutare ciò significa rendersi corresponsabili della loro rovina”.
La firma di un nobile. Chi sottoscrive quella lettera non è solo un giovane prete, ma è il primogenito di Louis de la Salle, nobile magistrato alla Corte di Giustizia della città. A soli 16 anni (dieci prima della propria ordinazione sacerdotale) ha ricevuto in eredità il titolo di Canonico della Cattedrale, ha compiuto studi accademici brillanti all’Università parigina della Sorbona e compiuto la propria formazione nel Seminario di Saint Sulpice. Le autorità non possono non prendere in considerazione le sue parole, ed assicurano provvedimenti idonei mentre, diffondendosi la voce, lo stesso re Luigi XIV, con un decreto del 17 febbraio 1679, prende sotto la sua protezione le scuole cristiane del Canonico de la Salle. Molti approvano e sostengono l’opera del de la Salle, ma c’è anche la categoria dei maestri cosidetti scrivani, disponibili ad insegnare a pagamento, che non sopporta la concorrenza delle scuole gratuite.

Il 15 aprile delo stesso anno, il de la Salle inizia la sua opera, ed in soli sei mesi vengono aperte cinque scuole per i ragazzi. La difficoltà dell’azione educativa nei confronti di giovani fortemente traviati, pone a dura prova le capacità dei collaboratori del de la Salle. Su suggerimento di padre Barrè prende, nel 1680, la straordinaria decisione di accoglierli in casa sua, il Palazzo de la Cloche, per poterli formare direttamente alla pratica educativa e alla condivisione dell’ideale. Inizia a vivere con loro, perfeziona la loro istruzione, diventa il loro animatore e il loro sostegno.

La famiglia del de la Salle però non vede di buon occhio questa iniziativa: la rozzezza di questi maestri turba i ritmi della vita e le abitudini di casa. Jean-Baptiste allora, per non suscitare tensioni, il 24 giugno 1682 lascia per sempre la propria casa e si trasferisce in una povera abitazione nella Parrocchia di Saint Remi. Ancor oggi, questo giorno viene ricordato dai Fratelli delle Scuole Cristiane come quello della loro nascita.

Mentre i dintorni di Reims sono nuovamente travolti dalla guerra, a Saint-Remi una ventina di giovani maestri vivono con il de la Salle un primo stile di vita religiosa: preghiera, formazione, dedizione alla scuola intesa come missione di salvezza tra i giovani. Alcuni tra questi maestri vengono inviati a fondare altre scuole nelle città limitrofe. E finalmente, nel 1684, la loro famiglia diventa una vera comunità religiosa, emettendo i primi voti di obbedienza.

Quattro anni dopo il de la Salle con tre Fratelli assume la direzione della scuola parrocchiale gratuita di Saint Sulpice: 200 ragazzi indisciplinati che fino a quel momento hanno diviso la giornata tra la filanda e qualche ora di scuola vissuta in un unico salone rumoroso e disordinato. Il de la Salle divide i giovani per età in tre classi, badando al loro grado di intelligenza, diminuendo drasticamente le ore da trascorrere in filanda e proponendo una vita del tutto diversa, organizzata, finalizzata ad apprendere scrittura, lettura e calcolo, per giungere alla dimensione di ‘buon cristiano ed onesto cittadino’, e sapere farsi strada nella vita con nuova dignità. La santa Messa, l’istruzione religiosa, lo studio, il gioco, il modo di vivere insieme con serenità ed interesse, l’abolizione delle punizioni corporali a tutto vantaggio della prevenzione, più che delle repressioni delle mancanze, costituisce la nuova formula educativa, capace di ‘toccare il cuore’ dei giovani e trasformarli.

L’ostilità dei maestri scrivani dura 14 anni. Si scatena la guerra dei maestri scrivani. Durerà quattordici anni, e porterà al La Salle amarezze senza fine. Essi non solo si rendono complici di azioni criminali come l’incendio di alcune scuole, ma insinuano nel cuore dei collaboratori del de la Salle il sospetto che, se le cose andassero male, a loro sarebbe spettata la miseria, diversamente dal loro Superiore, nobile e ricco. Il de la Salle si accorge di ciò, e per risposta, in occasione di una violenta carestia, distribuisce alle famiglie più povere dei suoi allievi tutti i propri beni. La sua scelta radicale impèroime nuovo emntuisiasmo nei suoi discepoli. Nel 1692 si stabilisce nel villaggio di Vaugirard vicino a Parigi e per un decennio si dedica alla formazione dei novizi della sua famiglia religiosa, mentre la Francia è devastata dalla guerra, dalla pestilenza e dalla carestia. In questo periodo, pone mano ad opere importanti: Le Regole comuni fissano la fisionomia spirituale dei Fratelli delle Scuole Cristiane. La Norma delle scuole determina il metodo educativo dei Fratelli. In essa la figura del maestro-educatore che si dedica al ragazzo-persona segnerà la rivoluzione totale nella scuole di Francia e di Europa. Le Meditazioni per il tempo del Ritiro spirituale e in occasione delle domeniche e delle festività, fanno interiorizzare ai Fratelli la missione dell’educatore, apostolo e ‘ministro’ di Dio nell’opera della salvezza dei giovani.

Segni della Provvidenza per il bene della gioventù. Le scuole dei Fratelli si estendono a tutta la Francia. A Parigi, il de la Salle istituisce la prima scuola professionale per operai e giovani che non hanno potuto frequentare scuole regolari. Nella cittadina di Saint-Yon (dove morirà) crea persino una scuole di arti e mestieri per giovani che la polizia gli porta dalle carceri.

I Fratelli sono tutti laici consacrati e, secondo la tradizione che si vuole far risalire allo stesso Fondatore, ancor oggi si conservano tali. Nel 1716, radunati i Fratelli, li pregò di scegliere un Superiore tra di loro, impedenmdo così lòa clericalizzazione della nuova congregazione. Asl nuovo Superiore, Fratel Barthèlemy, il de la Salle si sottomise umilmente.

Muore santamente il 7 aprile 1719, e santo sarà proclamato nell’anno 1900. Dal 1950 è venerato e invocato quale patrono di tutti gli insegnanti ed educatori cattolici. (Fratel Franco Savoldi)


Maddalena Gabriella di Canossa, santa (1774-1835) Fondatrice delle

Canossiane ( il testo deve stare in due pagine)



In cinque nel castello. La marchesa Maddalena Gabriella unì in sé due dei più nobili cognomi: i marchesi di Canossa da parte del padre, i conti ungheresi Szluha da parte della madre. Non ebbe però mai il tesoro che ha ogni poverissimo bambino: il sorriso del papà e le coccole della mamma. Lei infatti a cinque anni perse il padre che morì, e a sette la madre che se ne andò sposando un altro uomo. Maddalena Gabriella, il fratello e le sue tre sorelle rimasero nel grande palazzo di Verona, praticamente orfani, affidati a uno zio tutore. Una istitutrice francese si dedicava alle sorelline. un sacerdote dotto e di provata virtù al fratello.

A 15 anni fu assalita prima da una febbre maligna, poi dal vaiolo che lasciava il volto deturpato da cicatrici. Pregava, indifferente a vivere o a morire. Allo zio-tutore che si preoccupava delle cicatrici del vaiolo, disse: “Non abbiate timore: se guarisco non dovrò piacere a nessuno, perché mi farò monaca”.

Guarì e lesse le regole delle Carmelitane. Nei giorni in cui la sorella maggiore festeggiava il fidanzamento, Maddalena Gabriella (17 anni) andò a provare la vita delle Carmelitane. Dopo pochi mesi capì che non era la sua strada. Le piaceva pregare il Signore insieme alle consorelle, ma poi voleva andare a servire i suoi fratelli più miseri.

Tornò a casa. Lo zio-tutore le affidò la direzione del castello e delle proprietà. Seria e matura, essa modificò molti atteggiamenti consueti nelle case nobiliari. Tra padroni e domestici non dovevano esserci gesti di superiorità. Poche parole e molti fatti. Onestà e sincerità. Materno interesse per ogni necessità. E alla sera, tutti uniti nella recita del Rosario. C’è già tutto lo spirito che Maddalena porterà nella fondazione delle Figlie della Carità, chiamate Canossiane.



A tu per tu con Napoleone. 1797. Maddalena comincia a frequentare l’ospedale, ad interessarsi dei malati e degli orfani che alcuni morenti lasciano. Nel 1802 (ha 28 anni) raccoglie tre orfane. Ne prende cura. L’anno seguente compra un alloggio presso San Zeno e allarga il numero delle ragazze in necessità, che cominciano a frequentare la scuola e a lavorare. Con le sue mani monda i capelli delle ragazzine dai pidocchi. A chi si meraviglia di questa sua attività ‘poco nobile’, risponde vivace: “Perché sono nata marchesa, non posso aver l’onore di servire Gesù nei suoi poveri?”.

Napoleone in quegli anni fa periodicamente guerra all’Austria. Quando passa da Verona è ospite nel castello dei Canossa. Prova grande stima per Maddalena Gabriella. Egli che ha incamerato tutti i beni della Chiesa, le fa assegnare il monastero di S. Giuseppe. A chi non è d’accordo, dice: “Questa donna è utile allo Stato”.

Col passare degli anni, Maddalena si orienta a fondare una Congregazione di ‘serve dei poveri’. Le chiamerà ‘Figlie della Carità’. Le sorelle e i parenti, che brillano per la loro nobiltà, ne sono costernati. Ma lei il 1° aprile 1808 va a vivere, con le ragazze e le maestre della sua famiglia religiosa, nel monastero di San Giuseppe. Nomina ‘direttrice’ della famiglia Leopoldina Naudet. Con cinque maestre va a raccogliere le ragazze più povere e sporche, perché vengano istruite e imparino un lavoro onesto. Un prete le fa notare che sullo scialle ha dei pidocchi. Lei risponde sorridendo: “Sono le nostre perle”.

Da te si fermeranno le carrozze, da me le carrette”. Nel 1810 i fratelli Cavanis hanno fondato a Venezia le Scuole di Carità per ragazzi, e la chiamano (lei ha 36 anni) a dirigere una Scuola di Carità per ragazze. Maddalena ci va, e fa ciò che ha già fatto a Verona: forma le maestre e con amore materno si prende cura delle ragazze. A Venezia con le maestre cominciò a portare la divisa delle ‘Figlie della Carità’: abito marrone, scialle nero, cuffia nera in testa, medaglia dell’Addolorata al collo. In sogno vede la Madonna indicarle tre campi per l’attività delle sue Figlie: una chiesa, un ospedale, una scuola.

Nel 1812 Maddalena scrisse le Regole delle ‘Figlie’. Nel 1816 ottenne da Pio VII il ‘Breve di lode’, e nel 1828 da Leone XII l’approvazione. Ora la sua opera poteva correre per tutte le regioni dell’Italia. Maddalena però non ebbe mai fretta né smaniava di avere molte ‘vocazioni’. Era molto severa nella scelta. Diceva: “Sarebbe una carità crudele tenere una figlia che mostra malcontento. La nostra vocazione domanda temperamenti quieti e teste solidissime”.

Leopoldina Naudet la lascia per dedicarsi all’istruzione delle fanciulle nobili. Maddalena sorridendo le dice: “Va bene così. Da te si fermeranno le carrozze, da me le carrette”.

Maddalena apre case a Milano, Bergamo, Trento e inizia le pratiche per molte altre. A Bergamo dà avvio al Seminario di Formazione delle ‘maestre di campagna’. Erano ragazze provenienti dai villaggi, dove sarebbero poi tornate per insegnare nelle scuole elementari, collaborare con i parroci nell’insegnamento del catechismo e assistere i malati.

I Padri Canossiani. Il 23 maggio 1831 Maddalena, con don Francesco Luzzo, apre a S.Lucia in Venezia il primo Oratorio dei Figli della Carità. Ha così inizio il ramo maschile da lei voluto per la formazione dei ragazzi poveri.

Viaggiò moltissimo per essere vicina alle sue Figlie, e fino all’ultimo continuò a dettare Pensieri per loro. “Non insuperbiamoci del bene che operiamo. Siamo quattro donnicciole senza lustro, senza lettere. Siamo le ultime venute nella casa del Signore. Siamo ‘serve dei poveri’ in attesa di meritarci il nome di ‘serve di Dio’ ”.

Morì recitando l’Ave Maria. Aveva 61 anni. Era il 10 aprile 1835.

Gaspare L. Bertoni, Santo (1777-1853) Fondatore degli Stimmatini (3 pp)
A 23 anni ricevette il dono più grande e la sofferenza più acuta. Il dono fu l’ordinazione sacerdotale. La sofferenza fu la separazione consensuale e irreparabile di suo papà e di sua mamma. Il padre, di famiglia nobile e molto ricca, era incapace ad amministrare e stava dilapidando il patrimonio. La mamma era sprofondata nella tristezza dopo che il vaiolo le aveva portato via l’unica sua bimba, Metilde, tre anni e mezzo, vivace come un uccellino e bella come un fiore. Da quella tristezza non sarebbe guarita mai più (forse fu una profonda depressione). Gaspare fu sempre accanto a sua madre, Brunora Ravelli, con infinita delicatezza. La vide sfiorire rapidamente, divenne anche il suo confessore, e le diede gli ultimi Sacramenti poco prima che si spegnesse.

Quand’era ancora ragazzo, Gaspare vedeva per le strade della sua Verona altri ragazzi molto diversi da lui: abbandonati a se stessi, smunti e malaticci. Vivevano in bande per darsi forza a mendicare e a rubare. La scuola (che lui frequentava) era un privilegio delle famiglie benestanti che potevano pagarsi un insegnante. Quei ragazzi erano uno degli effetti perversi delle interminabili guerre tra i francesi di Napoleone e gli austriaci dell’Imperatore, che riempivano gli ospedali di feriti, devastavano le campagne, paralizzavano i commerci distribuendo miseria a tutti.

Seminarista, Gaspare prestava servizio negli ospedali, faceva catechismo nella parrocchia di S.Paolo. Quando gli venne affidato un gruppo consistente di preadolescenti da preparare alla prima Confessione, pensò di rompere la giornata monotona con allegre iniziative: li portava nei prati a fare clamorose partite, organizzava con loro belle passeggiate ai vari santuari della città, li portava anche a vedere i feriti di guerra negli ospedali con qualche dono e un po’ d’allegria. Aveva cominciato ad essere ciò che sarebbe stato per tutta la vita: missionario tra i ragazzi.

Ordinato Sacerdote nel 1800, l’anno dopo assistette all’avvenimento più strano possibile: la sua Verona fu spezzata da Napoleone e dagli Austriaci in due città nemiche. L’Adige, che percorreva la città da nord a sud, divenne il confine di Stato: mezza città (36 mila abitanti) era dei francesi, l’altra mezza (20 mila abitanti) degli austriaci. Attraversare un ponte sull’Adige voleva dire attraversare la frontiera, ‘andare all’estero’, con tutte le conseguenze immaginabili.

Don Gaspare continuò a fare il ‘missionario tra i giovani’ di S.Paolo. Durante la settimana, seguito da una decina di ragazzi, faceva processione tra le botteghe degli artigiani. Elemosinava un posto per uno di loro. Dopo giorni di giro riusciva a collocarli quasi tutti. La settimana dopo si ricominciava.

Alla domenica si riunivano e giocavano nell’archivio parrocchiale, nella biblioteca. Quando la sorella del parroco non ne potè più, li radunò a casa sua, poco lontano. Nasceva così il primo ‘oratorio’ di Verona: Messa, catechismo e tanta allegria. Per far sapere ai veronesi che i suoi ragazzi non erano ignorantelli, inventò le ‘mostre di arti e mestieri’. I suoi apprendisti gli portavano un bel paio di scarpe realizzato da loro, un bel vestito, una serratura di fattura nuova, il telaio ben disegnato di una finestra, e lui li esponeva ai veronesi, ottenendo per i suoi ragazzi nuovi posti di lavoro.

Si cominciò a guardare l’oratorio di S.Paolo con ammirazione, e i parroci vennero a domandare a don Gaspare di trapiantarlo anche nelle loro parrocchie. Arrivarono anche i parroci della campagna intorno. Don Gaspare aveva tra i suoi ragazzi più in gamba un gruppo di ‘aggregati’ che lo aiutava, e ne fece il manipolo di pronto intervento che chiamò ‘Coorte Mariana’.

L’inizio di un nuovo oratorio avveniva così: dalla chiesa parrocchiale usciva in processione marziale la ‘Coorte Mariana’ che percorreva cantando e pregando le vie della parrocchia, invitando i giovani del quartiere o del paese. Quando la processione ben ingrossata rientrava in chiesa, don Gaspare prendeva la parola dal pulpito ed esortava a seguire Gesù sotto la protezione di Maria.

La bella impresa degli Oratori ebbe una brusca frenata nel maggio 1807, quando un decreto di Napoleone proibì “confraternite, congregazioni, compagnie e tutte le società religiose laicali”.

La lunga parentesi lontano dai giovani. Il tempo che ebbe libero dalla sempre più limitata attività oratoriana, don Gaspare (30 anni) lo impiegò negli ospedali, tra feriti e malati. Scriveva il 6 marzo 1809: “Il mondo presente è un grande ospedale di infermi: tutti si lamentano e nessuno guarisce sebbene sia pronta la medicina. Questa è la preghiera, che non si fa o si fa male”.

Nel 1810 Napoleone soppresse anche tutti gli ordini religiosi maschili e femminili. Fu un colpo gravissimo per la Chiesa. Tra gli stessi preti c’era divisione tra chi si schierava con il Papa (esiliato) e chi aderiva a Napoleone. Più di uno pensava a far carriera e ad accumulare denaro. Il Vescovo dovette proibire ai preti di “andare in maschera, frequentare teatri, commedie e balli”.

Il Seminario era ridotto male. C’erano 143 interni e 25 esterni. Gli studenti di teologia (vicini al sacerdozio) erano 60. Padre Bresciani avrebbe scritto: “Non si poteva dire che quello era un seminario, ma piuttosto un miscuglio di corruzione e di disordine”.

Nel maggio del 1810 il Vescovo chiamò don Gaspare, e gli affidò la direzione spirituale del Seminario. Era un’obbedienza molto pesante, ma don Gaspare (33 anni) chinò il capo e obbedì. Iniziò con la predicazione degli Esercizi Spirituali. Fece allontanare dal Vescovo alcuni preti frivoli e mondani. Ogni domenica faceva di buon mattino una meditazione ai seminaristi, preparandosi con una notte di preghiera. Lungo la settimana li seguiva uno per uno. Non risparmiò fatiche nel lavoro di ricostruzione di quelle anime, avviandole ad una vita di preghiera e di austerità. Cinque anni dopo lo storico Sommacampagna poteva scrivere: “Il Seminario è un monastero di monaci più che di giovani ecclesiastici”.

Attorno a don Gaspare si era formato poco a poco un gruppo di suoi ‘figli spirituali’, che vivevano accanto a lui e lo aiutavano in ogni attività pastorale. Così, nel tempo in cui tutti gli ordini e le congregazioni erano soppressi, intorno a questo prete santo nasceva nel silenzio una nuova famiglia religiosa. Dio semina e fa crescere dove vuole e quando vuole, nonostante i progetti e i divieti dei piccoli uomini che si credono grandi.

Finisce la lunga parentesi. Dopo la disastrosa campagna di Russia e la sconfitta di Lipsia, nel marzo 1814 Napoleone abdicò. La lunga parentesi della lontananza dai ragazzi (1807-1814) per don Gaspare era terminata. Egli fece risorgere gli Oratori mariani e si gettò nuovamente nell’attività di ‘missionario tra i giovani’. La diffusione degli Oratori fu rapida. “Non vi è chiesa della nostra città – scrive un anno dopo – o parrocchiale o sussidiaria che non abbia aperto un Oratorio ai propri giovani”.

I locali e la chiesa delle Stimmate erano stati requisiti dall’autorità nel 1808.

Il 4 novembre 1816, dopo essere stati usati da un laico cristiano per una scuola destinata ai ragazzi poveri, furono donati a don Gaspare “per dar vita a una congregazione di preti”. In quel freddissimo inverno, in quei locali scrostati, nacque tutto: la comunità di religiosi di don Gaspare; l’opera sociale in cui la comunità si impegnò: una scuola per i ragazzi poveri della città; l’Oratorio che affiancò la scuola. Nacque anche il nome dei religiosi di don Gaspare: la gente li chiamò ‘i preti delle Stimmate’.

La vita era austerissima e si svolgeva sotto gli occhi di Dio. Per conservarla così, mentre un tumore dolorosissimo l’abbatteva, don Gaspare scrisse le Regole della sua famiglia.

Dal suo letto di dolore (dove subì diverse operazioni chirurgiche senza anestetico, perchè a quei tempi non esisteva) don Gaspare divenne ikl consigliere spirituale della città. Andavano da lui a confidarsi Vescovi, sacerdoti, gente del popolo e della nobiltà. Andarono a chiedere il suo consiglio anche tre fondatori di nuova famiglie religiose: Antonio Rosmini, Nicola Mazza, Teodora Campostini. Lo scrittore tedesco L.Schior, dopo esser vissuto qualche tempo a Verona, scrisse: “Don Gaspare Bertoni, un venerando vegliardo, è l’oracolo della città”.

Purificato da lunghissime sofferenze, don Gaspare andò incontro a Dio il 12 giugno 1853.



Ludovico Pavoni, venerabile (1784-1849) Fondatore della Congregazione dei Figli dell’Immacolata, detti Pavoniani. (testo in 3 pagine)
23 anni e un libro. Aveva 23 anni il sacerdote Ludovico Tommaso Maria Pavoni, quando iniziò a leggere il libro Influenze morali di Pietro Schedoni. (Era l’estate del 1807). Quelle pagine avrebbero rovesciato la sua vita.

L’autore, nelle prime pagine, si poneva la domanda: perché i giovani delle famiglie povere si abbandonano facilmente alla vita indisciplinata e viziosa? La risposta limpida che egli dava nelle pagine seguenti era questa: perché non esistono scuole dove si dia loro gratuitamente una buona istruzione e s’insegni un buon mestiere. I nobili, diceva l’autore, dovevano usare le loro ricchezze per aprire scuole gratuite per i figli dei poveri. Dove aumentava il numero delle scuole, diminuiva il numero delle bettole.

I tre nomi che il prete Pavoni portava erano il segno della sua nobiltà. Suo padre era il nobile Alessandro Pavoni, con ricco palazzo in Brescia, vasti possedimenti e una bella abitazione di campagna ad Alfianello (Brescia). Sua madre, Lelia, era dell’illustre famiglia Poncarali, con palazzo in via Magenta.

Con l’arrivo della Rivoluzione Francese in Italia, portata dal generale Napoleone Bonaparte, la nobiltà aveva perso molti dei suoi privilegi, tra cui il diritto di dare il Sindaco e il Capo Amministrativo alla città. Ma nonostante lo sbandieramento entusiasta dell’ uguaglianza, i poveri erano rimasti poveri, e i ricchi avevano consolidato la loro ricchezza. La fiorentissima vita industriale della città di Brescia comprendeva 53 filatoi, 10 cartiere, 1228 mulini, 2895 telai, 268 fucine per la lavorazione del ferro, 23 fucine per canne da fucile, 42 tintorie… La massa dei lavoratori aveva orari massacranti: 14, a volte 16 ore di lavoro al giorno. I salari fissati dai padroni erano così miseri che per sopravvivere nei filatoi e nelle officine dovevano lavorare i padri, la madri e i figli, anche se ancora bambini. Le colate del ferro liquefatto negli altiforni faceva respirare aria rovente. La lanuggine sospesa nell’aria delle filande intasava specialmente i deboli polmoni dei bambini. Lo strepito dei telai e della macchine intontiva e ubriacava. Una quantità impressionante di bambini moriva senza aver mai saputo cosa volesse dire giocare.



Andò a verificare. Ludovico, ragazzo intelligente e sensibile, sentiva le discussioni dei ‘rivoluzionari’ (a cui apparteneva suo fratello Giovanni) sui privilegi da abbattere, sulla giustizia da realizzare. Ma il grande privilegio della ricchezza non veniva mai messo in discussione, e di giustizia realizzata ne vedeva molto poca in giro. Ludovico volle verificare di persona la situazione. Depose gli abiti eleganti ed entrò nelle officine degli operai, provò quei mestieri, cercò di parlare con i lavoratori. Cominciava a capire, provandola sulla sua pelle, la fatica che abbrutisce. Vedeva con i suoi occhi i giovanissimi, ubriachi di lavoro, seguire gli atteggiamenti degli adulti corrotti e spezzanti di ogni onestà. Sentiva che per un cristiano la situazione era intollerabile. Bisognava assolutamente affrontare la miseria dovunque fosse, e vincerla. Ma non sapeva cosa fare.

Decise di diventare prete. Senza stemma nobiliare, senza eredi a cui trasmettere palazzi e ricchezze, avrebbe distribuito la sua parte di eredità a tante famiglie misere. Questo non sarebbe bastato, ma Dio gli avrebbe indicato la strada per proseguire nella realizzazione di una vera giustizia.

Disse la prima Messa il 21 febbraio 1807, e pochi mesi dopo lesse il libro dello Schedoni. Gli parve di aver trovato la strada per affrontare in maniera più efficace il problema della povertà sociale: creare scuole dove dare gratuitamente ai giovani poveri una buona istruzione e insegnar loro un buon mestiere. Sarebbe stata la strada per la quale Ludovico Pavoni avrebbe camminato per tutta la vita.

Prima che le fabbriche li ingoiassero. Cominciò dando una mano al prete Guzzetti, che radunava in quattro punti della città chiamati ‘oratori’ i ragazzetti miseri, e cercava di insegnare loro a pregare e a leggere prima che le fabbriche ingoiassero molti di loro. Nel 1808 don Ludovico aprì un ‘oratorio’ suo, alla chiesa di S.Orsola. Raccolse i ragazzini più rozzi, scalzi, dal fisico stentato.

Ma nel 1810 Napoleone emanò un decreto che soppresse tutti gli ordini religiosi, tranne quelli delle suore che si dedicano all’educazione delle ragazze. 100 case religiose e scuole, su 107, dovettero chiudere. Il nuovo vescovo di Brescia, mons.Nava, guardava con simpatia l’oratorio di don Ludovico, e temeva che un giorno o l’altro, per una decisione dell’autorità politica, dovesse anch’esso chiudere. Chiamò don Ludovico e lo nominò ‘segretario del Vescovo’. Avrebbe così potuto continuare la sua opera in favore dei ragazzi miseri, ma avrebbe avuto un incarico che lo avrebbe difeso da ogni provvedimento politico.

E’ il vescovo stesso ad esortarlo: “Va’, sono tempi brutti. Chiama gli inesperti, raduna i bisognosi, salvali”. All’oratorio di don Ludovico si raduna ormai una vera turba di ragazzi cenciosi e affamati. Oltrechè della preghiera e del cibo, don Ludovico comincia a interessarsi del loro lavoro. Poiché non può aprire una scuola, porta i più svegli e i più bisognosi presso suoi amici, perché diano loro da lavorare senza fiaccarli.

Alcuni anni dopo le cose sono profondamente mutate. Napoleone è stato sconfitto e confinato nella sperduta isola di Sant’Elena. A Brescia muore il prete Guzzetti, lasciando allo sbando i tanti ragazzi del suo oratorio presso la chiesa di S.Barnaba. Mons.Nava nel febbraio del 1818 chiama don Ludovico e gli dice: “Da questo momento non sei più il mio segretario, ma il Rettore di S.Barnaba. Perché abbia uno stipendio da spendere per i tuoi ragazzi poveri, ti nomino anche Canonico”.



La strada non è una buona maestra. L’oratorio di S.Barnaba prende nuova vita. Accanto alla chiesa, don Ludovico compra tre stanzoni per ospitare i ragazzi orfani, che alla sera non sanno dove andare a dormire. I primi suoi piccoli ospiti sono sette. Poi ne arrivano altri, tanti altri. Non tutti sono ‘bravi ragazzi’. Alcuni bestemmiano, litigano, sono disobbedienti e testardi. Don Ludovico ricorda ai suoi aiutanti (che formano ormai con lui una famiglia religiosa): “Vengono dalla strada, e la strada non è mai una buona maestra. Tocca a noi farli buoni”. Al mattino, dopo che hanno pregato con lui, li accompagna da padroni onesti, che insegnano un mestiere senza sfruttarli.

Nel 1821 don Ludovico fa un decisivo passo avanti: apre per i suoi ragazzi una scuola e tre laboratori per i mestieri di fabbro, falegname e calzolaio. Tre anni dopo riesce ad aprire il laboratorio che più ha desiderato: la tipografia.

Nel 1831 don Ludovico scrive il ‘Regolamento’ del suo istituto. Perché le sue opere non abbandonino i poveri per rivolgersi ai benestanti (cosa purtroppo frequente negli istituti religiosi) fissa le tre categorie di ragazzi che potranno essere accettati nelle sue opere: gli orfani, i figli di madre vedova, i giovani ‘veramente abbandonati dai loro genitori’. Le colonne del suo sistema educativo saranno: la Religione, l’amore, l’educazione della volontà. In quegli anni nelle scuole si usa tranquillamente il bastone e la sferza. Don Ludovico esige per i ragazzi rispetto e amore.

La piaga antica dei sordomuti. Nelle valli bresciane esiste una piaga antica: quella dei sordomuti. Nel 1840, nel paese di Seiano, don Ludovico prepara la sua prima scuola per loro. Come sempre si fa muratore. Nelle pause medita sul Vangelo. E’ il nutrimento del suo spirito, gli dà la forza per continuare a lavorare per Gesù che soffre la fame e l’ignoranza nei suoi giovani.

Il 12 giugno 1847 giunge l’approvazione del Papa per la “Religiosa Congregazione dei Figli di Maria Immacolata”. Don Ludovico e i suoi diventano ‘religiosi’, cioè consacrati a Dio.



Le 10 giornate di Brescia. Ma all’orizzonte c’è di nuovo la guerra: la prima guerra d’indipendenza italiana per due anni porterà distruzioni e lutti nell’Italia del nord. Il 24 marzo 1849, mentre a Brescia stanno per iniziare le ‘10 giornate’ che copriranno la città di gloria e di rovine, don Ludovico mette in salvo i suoi ragazzi. Li fa uscire in piena notte, sotto una pioggia diluviante, nemmeno un’ora prima che gli Austriaci inizino il bombardamento sulla città.

In quella notte tremenda, don Ludovico riesce a salvare i suoi ragazzi, parte nella casa di sua sorella Paolina, parte nella casa di Seiano.

Ma lui non ce la fa. Una broncopolmonite se lo porta via il 1° aprile. E’ la domenica delle Palme, mancano sette giorni alla Pasqua.


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