Dottrina sociale della chiesa



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Le malattie dei pastori. Nel 1877 decise di comprare una casa e un vigneto nell’agro romano in via Boccea, da destinare al riposo dei suoi figli spirituali. Attorno vivevano famiglie di pastori, molto sovente colpite da malattie della pelle per il mestiere che facevano. I suoi figli spirituali, invece di riposarsi, cominciarono a curare le malattie dei pastori. Oggi, per la costante e progressiva attività dei “Concezionisti” (come vengono chiamati gli appartenenti alla sua Congregazione) sorge l’Istituto Dermopatico dell’Immacolata, uno dei più insigni centri del mondo per la cura delle malattie della pelle.

Un giorno del 1882, all’Ospedale di Santo Spirito, ricevette la visita di un frate certosino, suo compaesano, che gli presentò quattro ragazzetti. Erano suoi nipoti, ed erano diventati improvvisamente orfani di entrambi i geitori. Il frate non sapeva dove collocarli. Luigi Maria Monti li prese con sé, sentendo rinascere l’antica tenerezza verso i ragazzi abbandonati che aveva provato nell’opera fondata da Ludovico Pavoni.



Ritornano gli orfani. Nel 1883 si teneva il Capitolo generale dei Figli dell’Immacolata Concezione. Egli chiese e ottenne dai suoi figli che la Congregazione assumesse anche questa seconda finalità apostolica: l’accoglienza degli orfani di padre e di madre, perché trovassero nelle loro comunità una seconda famiglia.

Nel 1886, tornato in Lombardia, ‘padre’ Monti aprì a Saronno la prima casa per gli orfani. Essa è oggi la sede centrale di tutta la sua opera.

Luigi Maria Monti andò incontro a Dio il 1° ottobre 1900. Nei decenni che seguirono, i suoi figli spirituali realizzarono opere per i malati e gli orfani in Italia e in tutto il mondo: dalla cura dei lebbrosi in Camerun alle scuole di lavoro per gli orfani in India.


Leonardo Murialdo, santo (1828-1900) Fondatore dei Giuseppini (3 pp)
Votacci sui compiti. Il ricco e nobile banchiere torinese Murialdo ebbe nove figli. Il penultimo di essi, Leonardo, a soli 8 anni fu mandato a Savona, nella celebre scuola degli Scolopi, in faccia allo splendido mare ligure.

L’aria di mare gli fece bene. Ma la compagnia di alcuni compagni maliziosi, quando giunsero gli anni difficili dell’adolescenza, lo fecero entrare in crisi. Dai 14 ai 15 anni cominciarono ad arrivare votacci sulle pagine dei compiti. La mamma, che credeva di averlo collocato in un luogo sicuro per la sua crescita cristiana, ricevette lettere allarmanti dalla direzione della scuola. Nelle sue ‘Memorie’, Leonardo scriverà: “Voi mi avete ricolmato, o mio Dio, di beni naturali e spirituali. E io vi abbandonai tanto presto. Presso i quindici anni io ero già peccatore e gran peccatore”.

A 15 anni la mamma lo esortò a tornare a Torino. La fine delle ‘cattive compagnie’ e l’affetto sereno di sua madre lo rimisero sulla buona strada.

Un giorno, mentre pregava la Madonna nella bella chiesa di S.Dalmazzo, sentì prepotente la chiamata del Signore a diventare sacerdote.

Ottenne la laurea in teologia presso la Regia Università di Torino, e fu ordinato sacerdote nel 1851.

Fianco a fianco con don Bosco. Dedicò i primi 14 anni del suo sacerdozio interamente all’apostolato tra la gioventù povera e abbandonata della sua Torino. In particolare, dal 1857 (aveva 29 anni) al 1865 collaborò con Don Bosco accettando la direzione dell’Oratorio di S.Luigi presso la stazione ferroviaria di Porta Nuova.

In quegli anni una manciata di santi (don Cafasso, don Borel, don Bosco, la marchesa Barolo, don Cocchi) operava in Torino tra i giovani lavoratori poverissimi, che l’esperienza delle prime fabbriche portava all’abbandono della fede. Per aiutare più concretamente i giovani del suo Oratorio (che in certe domeniche raggiungeva il numero di 500) don Leonardo tirò su uno stanzone, lo divise in due, e lo fece servire da aula scolastica per un centinaio di ragazzi. Ad essi forniva i libri, e molte volte anche il necessario per mangiare e vestirsi.

La città, governata da Camillo Cavour, vedeva crescere in maniera esplosiva la sua popolazione, specialmente nei quartieri popolari. Dai 137 mila abitanti del 1848 ai 220 mila del 1864. Occorrevano iniziative nuove, diverse, per non perdere cristianamente il mondo operaio.

A esplorare in Francia. Nel 1865 don Leonardo lanciò il progetto di una ‘Unione di operai cattolici’, e cominciò a un più ampio movimento associativo. A Torino si sapeva che il Francia (dove la rivoluzione industriale era arrivata in pieno) diverse personalità cattoliche lavoravano con iniziative diverse nel mondo operaio. Con il consenso e l’appoggio degli altri ‘operatori sociali’, don Leonardo nel 1866 partì per Parigi, e per un anno fu ospite del celebre Seminario di San Sulpizio. “Entrò in contatto con le maggiori figure del cattolicesimo sociale francese, dal De Melun, al Mermillod, al Maignen, ricevendone stimoli e suggestioni importanti per il suo progetto di associazionismo operaio. Passò quindi in Inghilterra, dove fu ospite del torinese Faà di Bruno. Fu molto attento a quanto avveniva di nuovo nel cattolicesimo europeo”(B.Gariglio).

Nell’anno passato nel Seminario parigino non fu soltanto ‘osservatore’ dei fenomeni sociali. Egli si mise alla scuola spirituale del santo rettore, padre Icard. Sotto la sua direzione spirituale sviluppò “un senso vivo del primato della vita di fede e di adorazione, un tono di distacco, un’austerità che però era temperata dalla dolcezza appresa alla scuola di Don Bosco” (D.Barsotti).

Ritornato dall’Inghilterra nel novembre 1866, fu quasi costretto ad assumere la direzione dell’opera degli Artigianelli, nata dalla vulcanica attività di don Cocchi ‘per accoglierei fanciulli poveri e abbandonati’, diretta in quel momento da padre Berizzi, e carica di debiti. Nell’opera erano sorti laboratori interni, diventati vere scuole professionali.

Don Leonardo aveva aiutato finanziariamente l’opera, ma non se la sentiva di assumere la direzione di quella complessa comunità di maestri e di giovani, e insieme farsi carico del pesantissimo mutuo che la direzione aveva contratto per la costruzione del fabbricato e l’acquisto delle macchine per i laboratori. “Accettare quell’impegno voleva dire gettare via il proprio patrimonio, e compromettere il buon nome della sua famiglia”(G.Pettinati).

Provvisorio’ per 34 anni. Padre Berizzi, per farlo accettare, gli assicurò che avrebbe cercato un altro direttore. Lui doveva ricoprire la carica solo provvisoriamente. Don Leonardo finì per accettare, ma quel provvisoriamente durò 34 anni, cioè tutta la sua vita.

Da questo momento l’attività di don Leonardo, anche se mescolata nella vita di tutti i giorni, si svolge su due fronti distinti: la conduzione paterna della sua opera con la progressiva nascita della sua Congregazione, e la sua azione nel più vasto campo sociale con la nascita delle ‘Unioni operaie’ e del giornale ‘La Voce dell’Operaio’.

Accettata ‘provvisoriamente’ la nuova carica, don Murialdo abbandonò il palazzo della sua famiglia e visse tra i 180 artigianelli. Fece vita comune con loro e con i maestri. Già don Berizzi aveva costituito una ‘sezione di allievi-maestri’ scegliendoli tra i giovani migliori. Il Murialdo scrisse per loro e per i fratelli laici che insegnavano nei laboratori un regolamento, e li raccolse tutti nella ‘Compagnia di San Giuseppe’. Non era una Congregazione di consacrati, ma la preparava.

L’idea di diventare il fondatore di una Congregazione lo spaventava. Prima di decidersi pregò a lungo, pellegrinò ai santuari della Consolata, di Lourdes, di La Salette. Chiese il consiglio del suo ‘direttore spirituale’ di San Sulpizio. Padre Icard nel 1871 venne a fargli visita. Vide l’opera degli Artigianelli, parlò con lui e con i suoi collaboratori, e alla fine concluse che la Congregazione si doveva fondare. “Io fondatore di una Congregazione? – esclamò don Leonardo -.Ma per questo il Signore ha sempre scelto dei santi!” Padre Icard sorrise e rispose: “Ecco una buona occasione per diventarlo!”

Il 19 marzo 1873, vinta ogni esitazione, don Murialdo fece i primi voti religiosi. Nasceva la Pia Società di San Giuseppe. Non era molto numerosa: i sacerdoti erano solo tre. E don Murialdo non desiderava che si allargasse molto. Pensava che la sua azione dovesse limitarsi all’opera degli Artigianelli.

Ma i disegni del Signore erano diversi. I ‘Giuseppini’, durante la sua vita, allargarono il loro ministero a una Casa-Famiglia in Torino, alle scuole di Venezia, Oderzo (Treviso), Vicenza, Bassano del Grappa, Rovereto, Correggio, Reggio Emilia, Zara e Carpi. Don Murialdo parlava poco della sua opera. La sua parola d’ordine era Fare e tacere.



Arriva la Rerum Novarum. Sul piano sociale la sua azione fu molto efficace. Nel 1871 riuscì a realizzare l’idea di una Unione di Operai cattolici. In dieci anni essa creò nella sola Torino 25 sezioni con 5 mila iscritti, ed estese la sua attività a molte opere assistenziali: la Cassa di Mutuo soccorso (1871), il Collocamento operaio (1876), la Biblioteca circolante (1878), i Magazzini Alimentari (1882), la Cassa Pensioni e Previdenza per vecchi inabili e infortunati sul lavoro (1888), scuole feriali e festive, il ‘Giardino festivo’ (dopolavoro festivo con cappella, bar e giochi di società). Sollecitò e guidò varie petizioni al Governo Italiano per la tutela del lavoro dei minori, perché venisse proibito per loro il lavoro notturno e limitato quello diurno.

Dopo la pubblicazione della Rerum Novarum di Leone XIII nel 1891, intensificò la sua azione sociale. Le Unioni Operaie si diffusero in Piemonte e in Liguria. Ispirò la nascita del primo Segretariato del popolo in Torino (1995) dove gli operai venivano aiutati nei problemi del lavoro.

Dal 1883 pubblicò La Voce dell’Operaio, che oggi continua come Voce del Popolo. Fu il primo periodico cattolico italiano rivolto a un pubblico operaio.

Negli ultimi anni della sua vita non diminuì la sua attività religiosa e sociale, ma si sentì oppresso dal debito enorme che faceva rischiare la bancarotta all’Opera degli Artigianelli. Don Murialdo fu visto alle porte delle chiese, insieme ai suoi artigianelli, tendere la mano per chiedere l’elemosina.

Solo nel 1897 la generosissima eredità del conte Roero di Guarene saldò il debito. Tre anni dopo potè morire in pace.

Maria Domenica Mazzarello, santa (1837-1881) Confondatrice delle Figlie di M.Ausiliatrice (3 pagine)
Il tifo sulla colline. Nel 1860, tra i calori dell’estate, sulle colline di Mornese esplose il tifo e la paura. Il tifo si comunica da una persona all’altra come l’influenza, e a quei tempi era una malattia sovente mortale. Le famiglie colpite erano abbandonate da tutti, quelle sane sbarravano le porte.

In una famiglia, che porta il cognome Mazzarello, sono colpiti tutti. Qualcuno sta morendo. Don Pestarino, un prete che dà una mano al parroco del paese, va da una famiglia di parenti, anch’essa di cognome Mazzarello. Vi abita una giovane cristiana di 23 anni, primogenita di dieci figli. Le chiede di andare a dare una mano nella casa dei malati. Maria Domenica (questo il suo nome) esita, si consulta con suo padre, poi accetta. Nella casa torna l’ordine e la pulizia, cibo caldo e medicine sono pronti alle ore stabilite. Ma quando la salute sembra tornata per tutti, il tifo si abbatte su Maria Domenica. In pochi giorni è in fin di vita. Al medico, che la sta imbottendo di medicine, dice: “Basta così. Ora ho solo più bisogno che Dio venga a prendermi”.

Ma la sua strada, nei disegni di Dio, è ancora lunga.

La grave malattia ha rotto qualcosa nel suo fisico robusto. Non se la sente più di tornare a lavorare nei campi. Da cinque anni Maria Domenica fa parte della ‘Pia Unione delle Figlie di Maria SS. Immacolata’, un gruppo di giovani cristiane che prega insieme e fa apostolato nella parrocchia. Tra quelle giovani Maria ha un’amica con cui non ha segreti. Si chiama Petronilla. Maria le confida che ha deciso di mettersi alla scuola del sarto del paese, per fare la sarta ma anche per insegnare il mestiere alle ragazze del paese. “Mi piacerebbe che venissi anche tu. Staremmo insieme, vivremmo come in una famiglia”.

Passa un anno, e Maria e Petronilla hanno impiantato un piccolo laboratorio di sartoria ai margini del paese. Una decina di bambine vanno a imparare a cucire. Ma ecco una novità che sconvolge tutto. Nell’inverno 1863 bussa alla porta un venditore ambulante, rimasto vedovo con due bambine, otto e sei anni. Chiede che le tengano con loro di giorno e di notte, perché deve andare in giro col suo carretto. Le bambine sono lì, quattro occhi spauriti. Petronilla prende per mano la prima, Maria prende in braccio la seconda. Accendono un gran fuoco nel camino.

Così, senza nessun piano prestabilito, il primo laboratorio di sartoria si trasforma in casetta per bambine povere. Appena nel paese si diffonde la voce, vengono in molti a portare un fascio di legna, un paio di coperte, mezzi sacco di farina per far polenta. Portano anche altre bambine che hanno bisogno di una casa. E arrivano anche alcune amiche, che vengono a condividere la loro missione materna.



Quando il campanile batte le ore. E cominciano quei piccoli gesti che diverranno col tempo componenti robuste dello ‘spirito di Mornese’. Prima di cominciare il lavoro si recita insieme un’Ave Maria. Quanto il campanile batte le ore, Maria dice: “Un’ora di meno su questa terra, un’ora di più vicino al paradiso”. Ed esorta le sue bambine a offrire il lavoro al Signore: “Ogni punto, un atto di amor di Dio”. Anche alla domenica, Maria e le sue amiche vogliono far del bene a tutte le ragazze del paese. Nasce così un oratorio festivo, con le ragazzine che giocano spensierate, vanno insieme alla Messa, nel pomeriggio fanno liete passeggiate.

Sull’orientamento della minuscola opera, e specialmente su Maria Domenica, sulla sua maturazione cristiana, è decisiva la presenza di don Domenico Pestarino, per ventisette anni suo confessore e direttore spirituale.

Il modesto laboratorio-ospizio acquista col passare del tempo proporzioni sempre più vaste. Questo è dovuto specialmente all’arrivo a Mornese di don Bosco. Egli a Torino sta fondando la Congregazione Salesiana, e ha accettato tra i suoi membri lo stesso don Pestarino.

“Fin al primo incontro (con don Bosco) – scrive P.Cavaglià – Maria Domenica avvertì una sintonia spirituale e pedagogica. In quello stesso anno il gruppo di Maria Domenica iniziò a gravitare sempre più intorno alla figura del santo dei giovani. Questi, rilevata la consistenza spirituale e pedagogica del piccolo gruppo di educatrici, lo scelse per dare origine a un Istituto religioso impegnato nell’educazione femminile.

“Il 15 agosto 1872, le prime quindici giovani, che il fondatore volle chiamare ‘figlie di Maria Ausiliatrice’, emisero i voti religiosi. Alla fondazione e al primo consolidamento del nuovo Istituto, Maria Domenica diede il suo apporto discreto, ma singolare ed efficace, contribuendo alla formazione delle prime educatrici, e caratterizzando in modo personale la spiritualità e la metodologia educativa adottata… Il ‘sistema preventivo’ praticato da don Bosco era già stato per anni compreso e vissuto da Maria Domenica nel suo quotidiano rapporto con le ragazze, tanto da divenire per lei connaturale.

“Operando come superiora generale nella prima casa dell’Istituto a Mornese e poi a Nizza Monferrato, dove nel 1879 venne trasferita la casa-madre, Maria Domenica lasciò un’impronta spirituale e pedagogica decisiva. Aveva incontrato le ragazze nella rassegnazione di piccoli orizzonti culturali e le aveva sospinte a scelte audaci fino a varcare i confini della nazione, realizzando così l’ideale missionario. Suor Maria Domenica , infatti, nei primi anni dell’Istituto, vide partire numerose sue figlie per la Francia, l’Uruguay e l’Argentina dove, a ritmo continuo, venivano fondate istituzioni educative”.



La bimba con piedi, calze e scarpe incollate. Il fatto di essere superiora generale non fece mai perdere a suor Maria Domenica il senso delle proporzioni. Continuò ad assistere le ragazzine più piccole in camerata, con occhio amoroso e attento. Una bimba a cui i geloni avevano incollato insieme piedi, calze e scarpe, s’infilò nel letto con scarpe e tutto. Madre Mazzarello se ne accorse. Non disse niente. Scese in cucina e tornò con un catino di acqua tiepida, garza e cotone. Portò tutto silenziosamente accanto al letto della bambina, e le sussurrò: “Adesso metteremo a posto i tuoi piedini. Non aver paura, non ti farò male”.

Nel gennaio 1881 le suore cominciarono a notare che la salute della Madre stava declinando, anche se aveva soltanto 44 anni. Qualcuna le sussurrò che doveva badare di più alla salute, ma lei sorridendo rispose: “E’ meglio per tutte che me ne vada. Così faranno superiora una più abile di me”.

Il crollo avvenne mentre stava accompagnando un gruppo di missionarie in partenza per l’America del Sud. Una pleurite grave con febbre alta la inchiodò al letto per quaranta giorni.

Tornò alla casa madre pallida e sfinita. Ringraziò delle premure dicendo: “In questo mondo, qualunque cosa avvenga, non dobbiamo né rallegrarci né rattristarci troppo. Siano nelle mani di Dio, che è nostro padre, e dobbiamo essere sempre pronte a fare la sua volontà”.

La fine si annunciò ai primi giorni di maggio. Volle ancora parlare con le sue suore. Disse: “Vogliatevi bene. Tenetevi sempre unite. Avete abbandonato il mondo. Non fabbricateneve un altro qui dentro. Pensate al perché siete entrate in Congregazione”. Stava male, ma non volle rattristare nessuno. Si sforzò addirittura di cantare.

Dio le venne incontro all’alba del 14 maggio 1881. Riuscì a mormorare: “Arrivederci in cielo”. Aveva 44 anni.

Sulla spiritualità di questa giovane suora, vissuta in un ambiente non culturalmente ricco, consumata dalla povertà e dal lavoro, sono state fatte profonde riflessioni. Riporto poche righe: “Quella di Maria Domenica Mazzarello non è la spiritualità della ‘monaca di casa’, sia pure impegnata in opera parrocchiali, ma quella di chi ha fatto dell’educazione cristiana della donna una scelta di vita. Per lei vivere è fare del bene alle giovani. Si tratta di una spiritualità semplice, teoricamente non elaborata, ma vissuta e insegnata in modo vitale e pratico. Essa è fondate sui princìpi cristiani condensati nel catechismo”(P.Cavaglià)

Beato Giovanni Piamarta (1841-1913), fondatore della Congegazione della Sacra Famiglia di Nazareth (testo in 3 pagine)
Fare il materassaio a nove anni. A 9 anni gli morì la madre, e il nonno materno lo avviò al mestiere di materassaio. Fu un’infanzia dura la sua, e un’adolescenza difficile. Per sue fortuna incontrò un prete dalla fede profonda, don Pancrazio Pezzana, che in lui non vide solo gli atteggiamenti sgarbati, ma un’anima preziosa da salvare, e delle ottime doti per metterlo allo studio.

Don Pezzana se lo fece amico, gli fece scuola, e scoprendo sotto la scorza dura un cuore puro e cristallino, gli propose di entrare in Seminario.

Fu duro masticare grammatiche, ma aveva i denti buoni e la volontà più buona ancora. E il 24 dicembre 1865 Giovanni Piamarta fu ordinato sacerdote.

Nella chiesa di S.Alessandro, in Brescia, divenne parroco don Pancrazio Pezzana, che nel 1870 lo chiese al Vescovo come direttore dell’oratorio.

“Furono i tredici anni più radiosi del suo apostolato – scrive Alberto Nodari -. La sua attività era dedicata soprattutto alla gioventù, cogliendo risultati mirabili. Dai suoi ragazzi seppe farsi amare come un fratello e rispettare e venerare come un padre”. Uno studioso della sua vita però aggiunge: “Durante quel periodo prese coscienza della situazione di disagio materiale e spirituale in cui venivano a trovarsi numerosi giovani impegnati nelle prime fabbriche della nascente industria bresciana. Sradicati dal loro ambiente paesano e agricolo, inseriti nel mondo del lavoro senza una preparazione professionale e un aiuto morale, essi erano facile preda dello sfruttamento, e le loro convinzioni religiose entravano in una gravissima crisi”. La sensibilità umana e l’impegno sacerdotale portò don Giovanni Piamarta a pensare di far qualcosa di concreto non solo per i giovani del suo oratorio, ma per tutti i giovani bresciani che affrontavano il mondo del lavoro: un Istituto Artigianelli con scuole che li preparassero ad affrontare la nuova situazione.

Viveva a Brescia un intelligente prelato, mons. Pietro Capretti. A lui si rivolgevano i giovani sacerdoti per avere consiglio nelle loro difficoltà. Ascoltò più volte don Giovanni, e gli parve che il suo progetto fosse molto valido.

Ma nel 1885 il Vescovo chiamò don Piamarta e gli affidò una difficile parrocchia della ‘bassa bresciana’, Pavone Mella. Era una zona trascurata da molto tempo. La gente era ostile ai preti e alla Chiesa. Rifiutava di mandare i bambini al catechismo e viveva in maniera molto poco cristiana. Per quattro anni don Piamarta spese tutte le sue energie per quella popolazione. Ma umanamente parlando furono quattro anni di fallimenti. A questo punto intervenne mons. Capretti. Si recò dal Vescovo, gli espose le difficoltà in continua crescita della gioventù operaia, e gli illustrò il progetto di don Piamarta. Era il caso di lasciare a Pavone Mella quel giovane prete che stava per essere sommerso dallo scoraggiamento, o era meglio richiamarlo a lavorare nel ‘suo’ campo?

Eccellenza, no!” Brescia aveva già conosciuto una istituzione di difesa e di educazione nel settore di giovani lavoratori: quella di Ludovico Pavoni. Ma i dolorosi avvenimenti della guerra l’avevano mutilata. Il Vescovo accettò che don Piamarta ritentasse l’esperienza con il suo Istituto Artigianelli. Mons. Capretti, di famiglia ricca, comprò sul colle di S.Giulia un terreno con alcune case. L’Istituto Artigianelli fu aperto lì, con la celebrazione della santa Messa, il 3 dicembre 1886. Don Piamarta ne divenne il direttore.

Nonostante la generosità di mons. Capretti, le difficoltà economiche si fecero presto sentire. I ragazzi erano tanti e poveri. Occorreva fornirli di tutto, dal cibo ai libri, e occorreva dare stipendi ai maestri. Il Vescovo analizzò con don Giovanni la situazione, la valutò poco sicura, e gli propose di chiudere. Don Piamarta ascoltò con animo sereno le parole del suo Vescovo, ma poi con forza disse: “Eccellenza, no. L’opera è necessaria ai giovani. Io me ne prendo tutta la responsabilità, e ho fiducia che Dio ci aiuterà. Io morirò qui dove sono, in mezzo ai miei ragazzi”. Il Vescovo fu colpito da quella forte fiducia, e concluse: “Dio ti ascolti e ti assista”.

Da quel momento don Piamarta non fu soltanto il direttore, ma il responsabile unico dell’opera. Ogni rischio di fallimento ricadeva solo su di lui. Egli divenne veramente ‘padre’ dei suoi ragazzi e di quell’opera che a Brescia ancor oggi viene chiamata ‘Artigianelli’.

Negli anni che seguirono, Dio ascoltò veramente quel prete e i suoi ragazzi. Dal 1888 il moto ascendente dell’Istituto non si fermò più, e rese un vero servizio ai giovani del mondo operaio bresciano. Sul colle di S.Giulia i fabbricati si moltiplicarono e poterono accogliere un numero sempre maggiore di laboratori. La preparazione degli insegnanti e la perfezione delle macchine potè rendere sempre migliore l’educazione e l’istruzione degli allievi.

Intanto un nuovo problema si affacciava nel mondo del lavoro. Le industrie della città inducevano sempre più i giovani contadini ad abbandonare i campi. La campagna, coltivata con metodi antiquati e da contadini sempre più vecchi, era ormai in piena crisi. Le famiglie contadine impoverivano sempre più. Don Piamarta, che era stato parroco nella ‘bassa’, sentiva il problema in tutta la sua urgenza. Insieme a un altro sacerdote, Giovanni Bonsignori, pensò a una Scuola Pratica di Agraria per insegnare ai giovani non a fuggire dalla terra, ma a coltivarla con metodi razionali e scientifici.



Un podere con case e stalle. Nel febbraio 1885 don Piamarta comprò a Remedello Sopra un podere di 140 ettari, con case e stalle. Nel novembre dello stesso anno don Bonsignori vi cominciò la Scuola Pratica di Agraria. Al Congresso degli Studi Sociali tenuto a Padova nel 1896 (la Rerum Novarum era stata pubblicata da appena cinque anni) l’iniziativa fu presentata e ammirata dagli specialisti e dal gran pubblico.

Attorno a don Piamarta, intanto, si è creata una comunità di persone che ne condividono gli ideali e lo stile di vita. A questo punto, dopo aver pregato ed essersi consigliato, egli pensa seriamente ad assicurare ad essa una continuità, perché gli uomini passano, ma il bene bisogna continuare a farlo. Pensa a una famiglia religiosa nuova, “una famiglia composta di sacerdoti e laici che attendono alla educazione e all’istruzione professionale dei ragazzi”. Una vera comunità religiosa, nella quale tutti i membri cerchino di seguire seriamente la strada del Vangelo vivendo tutta la sostanza della vita religiosa, ma senza voti. Non una Congregazione ma una Pia Società.

Il 25 maggio 1902 la Pia Società della Sacra Famiglia di Nazareth ottiene la prima approvazione del Vescovo di Brescia. Il 23 dicembre 1908 riceve l’approvazione definitiva.

Tre anni dopo, don Piamarta completa la realizzazione del suo progetto: insieme a madre Elisa Baldo dà inizio alla “Pia Società delle Ausiliatrici”. Sono le sorelle che condividono l’impegno sociale e pastorale di don Piamarta, e partecipano al servizio dei giovani. Prendono il nome di Povere Serve della Sacra Famiglia di Nazareth.

L’11 gennaio 1910, a 69 anni, don Piamarta fu paralizzato da un primo ictus.

Appena con difficoltà si riprese, si preoccupò di concludere ogni pratica e di definire ogni progetto sospeso. Voleva essere pronto all’incontro del suo Signore, al quale avrebbe reso conto dei talenti da Lui ricevuti.

Un secondo ictus lo raggiunse a Remedello. Si spense il 25 aprile 1913.

Il 15 maggio 1939, la ‘Pia Società’ viene mutata dalla Santa Sede in ‘Congregazione’. I confratelli che fino allora erano legati solo da una promessa, emettono i voti di povertà, castità e obbedienza.

Il 12 ottobre 1997, in piazza S.Pietro, Giovanni Paolo II proclamò Giovanni Piamarta ‘beato’. In quel giorno furono pure proclamate le radici della sua spiritualità:

Da una profonda vita di unione con Dio gli derivarono una carità senza confini verso tutte le miserie del mondo. Per alleviarle fu tenace nel volere le sue realizzazioni. Fu un apostolo incomparabile nel formare persone di ogni genere, ma soprattutto quei giovani che furono tutta la ragione della sua vita. E la sua fu educazione essenziale, sobria ma salda, che partiva dalle virtù umane – soprattutto sincerità e parsimonia – per portare le anime sulla via del sacrificio e della fortezza, a saper gustare le cose di Dio”.



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