Dottrina sociale della chiesa


Parte terza La Rivoluzione industriale e il prezzo umano del benessere



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Parte terza

La Rivoluzione industriale e il prezzo umano del benessere (tre pagine)
Cominciano ad esistere la ‘fabbrica’ e gli ‘operai’

Nel 1769, a Glasgow in Gran Bretagna, mister James Watt inventò la ‘macchina a vapore’. Essa sfruttava una nuova energia: quella del calore. Una sola macchina di Watt (potenza 100 cavalli-vapore) sviluppava una forza pari a quella che prima producevano 880 uomini. Una filanda , impiegando solo 750 lavoratori radunati sotto alcuni capannoni, produceva tanto filo quanto prima avrebbero potuto produrre 200 mila lavoratori.

Cominciarono così ad esistere la ‘fabbrica’ e gli ‘operai’. La produzione facilitata delle fabbriche abbassa di colpo il prezzo dei tessuti e ne sviluppa enormemente il mercato.

Negli stessi anni si verifica un fortissimo aumento nell’utilizzazione del ferro (per la produzione di macchine, telai, ferrovie) e nell’utilizzazione del carbone (che permette la propulsione delle macchine a vapore). Si costruiscono su larga sala ferrovie e battelli a vapore.

Per la contemporanea, progressiva vittoria della medicina e dell’igiene sulle più micidiali malattie come la peste e il vaiolo, la popolazione in Europa ha una crescita imponente: da 180 milioni nel 1800 a 260 milioni nel 1850.

La moltiplicazione veloce delle fabbriche (cioè l’industria) e l’abbassamento dei prezzi mette in crisi gli artigiani. In campagna arrivano le prime macchine a vapore, che rendono inutile il lavoro di tanti salariati. Una fiumana di gente emigra in città in cerca di lavoro. Le fabbriche acquistano una fisionomia precisa: centri dove un grande numero di lavoratori compiono lo stesso lavoro alle dipendenze di un padrone. Sorgono così in Inghilterra le città del carbone, le città del ferro, le città delle industrie tessili.

E’ la rivoluzione industriale. Nata in Inghilterra, passa rapidamente in Francia, Germania, Belgio, Olanda, Italia del Nord, Stati Uniti d’America. Essa è uno dei più grandi e radicali cambiamenti che si sono verificati nella storia dell’uomo. Essa “invase il globo, sconvolse l’esistenza e travolse le strutture di tutte le società umane esistenti nel giro di sette o otto generazioni (150/200 anni). La scoperta di Watt fu seguita da tutta una serie di invenzioni analoghe che permisero di sfruttare nuove energie: il petrolio, la dinamite, l’elettricità, l’atomo” (Carlo M. Cipolla).

I risultati industriali furono enormi, impensabili, tanto che si può affermare: nel 1850 il passato non è più passato, è morto. L’umanità si sviluppò in maniera esplosiva: 750 milioni di persone nel 1750, un miliardo e 200 milioni nel 1850, due miliardi e mezzo nel 1950, 6 miliardi nel 2003.

Il benessere che la rivoluzione industriale diffuse non era mai stato raggiunto prima. Totali e drastici cambiamenti si verificarono nelle abitudini, idee, credenze, istruzione, famiglia. Problemi enormi furono posti alle nuove generazioni: armi sempre più terribili, inquinamento, crescita incontrollata della popolazione terrestre…
Il costo umano del benessere

L’enorme progresso materiale ebbe però, specialmente nei primi cento anni, un pauroso costo umano: “Una piccolissimo numero di straricchi – dirà papa Leone XIII della Rerum Novarum - ha imposto uno stato di quasi schiavitù all’infinita moltitudine dei proletari”(RN 2). E’ il ‘buco nero’ della la ‘questione operaia’. Nelle città industriali si forma una classe nuova, quella dei proletari, che non ha altre ricchezze al di fuori delle proprie braccia e dei propri figli (=la prole). Le condizioni dei proletari sono spaventose.

Nel 1850 metà della popolazione inglese è ormai ammassata nei centri cittadini. Le ‘case’ degli operai sono tante volte cantine, in ognuna delle quali si ammassa tutta la famiglia, senza luce, fetide per l’umidità e gli scoli. Nelle fabbriche nessuna misura igienica, nessun regolamento, tranne quello imposto dal padrone che punta solo al massimo guadagno.
L’agonia dei fanciulli torturati

Il salario esiguo permette un nutrimento sufficiente solo alla persona che lavora. Devono quindi lavorare in fabbrica (se vogliono mangiare) anche le donne, i ragazzi, i bambini. Si consuma così nel silenzio quella che Bertrand Russel chiamerà ‘l’agonia dei fanciulli torturati’. La fatica, le malattie (specialmente la tubercolosi), l’impossibilità di dormire rendono la vita di questi piccoli sventurati molto breve. Il grande capitale, che avrebbe donato benessere e cultura all’Europa, si costruisce con il sangue dei fanciulli. Le pagine con cui B.Russel documenta questo vero genocidio (nell’opera Storia delle idee del secolo XIX) sono sconvolgenti. Riassumo: “I bambini, a Londra, venivano ‘affittati’ a centinaia nei rioni popolari. Portati alla stazione venivano stipati nei vagoni e spediti a lavorare nelle filande del Lancashire. Molti di essi camminavano appena. Il lavoro durava dalle 5 del mattino alle 9 di sera. Il lavoro della tessitura lo facevano le macchine. E per badare a una macchina non occorreva un uomo, bastava un bambino. Cadevano dal sonno, dalla stanchezza nella solitudine delle fabbriche buie. Le malattie stroncavano i piccoli lavoratori”.

In Francia, Belgio, Germania intorno al 1850 si consuma lo stesso genocidio. Una statistica rivela che a Nantes (in Francia) 66 bambini su 100 muoiono prima dei 5 anni. La durata media della vita di un operaio è di 17-19 anni.

Nell’Italia del Nord (dove l’industria tessile comincia nel 1817 e quella meccanica nel 1846) le condizioni sono identiche. Sulla vita negli stabilimenti tessili della Lombardia, R. Morando scrive: “Nei filatoi di seta, grandi stabilimenti che occupavano da 100 a 200 individui, si verificava il massimo impiego dei fanciulli. Le mansioni cui venivano adibiti era di tale indole macchinale da ridurre in breve tempo all’ebetismo quei poveri esseri. Il lavoro si protraeva d’inverno per 13 ore, e nell’estate per 15 o 16… Gli ambienti umidi e malsani, il levarsi di gran mattino, il lungo permanere in posizioni incomode, provocavano con la massima frequenza indurimenti ghiandolari, scrofola, rachitismo e tumori freddi. Oltre 15 mila fanciulli, in Lombardia, consumavano così il fiore della vita”.

In questi decenni, prima e dopo la Rerum Novarum e l’enunciazione della Dottrina sociale della Chiesa (di cui parleremo nella parte seguente), sorge una numerosissima schiera di cristiani che danno battaglia al capitalismo disumano. Da Giovanni Bosco a Luigi Orione, da Leonardo Murialdo a Eugenia Ravasco la storia del lavoro umano è punteggiata da silenziosi ‘salvatori’ che chiedono allo Stato di intervenire, e intanto in nome di Dio cercano di strappare i giovani dalle fabbriche, danno loro apprendimento e istruzione, li aiutano a diventare onesti cittadini e buoni cristiani.

E quando lo sviluppo delle comunicazioni permette agli Europei di scoprire che le condizioni disumane della vita e del lavoro si estendono a immense zone geografiche che vengono chiamate sbrigativamente ‘terzo mondo’, la battaglia per la vita e la giustizia sociale in quelle terre viene combattuta da nuovi silenziosi ‘salvatori’. Essi sono i missionari sacerdoti e religiosi, e i tanti cristiani laici volontari, coperti dal silenzio dei nostri giornali e delle nostre televisioni, ma benedetti dai poveri della terra e dal Dio del Cielo.

Presento in questa terza parte le figure di una ventina di questi ‘salvatori di giovani’ attraverso la scuola e il lavoro

DON BOSCO, santo (1815-1888) fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA) ( il testo deve stare in 4 pagine)
Un sogno a nove anni. Giovanni Bosco nel 1824 aveva appena nove anni, era orfano di padre, e in una notte fece un sogno misterioso. Lo raccontò lui stesso nelle sue Memorie.

Gli sembrò di vedere una turba di ragaz­zi che giocavano e bestemmiavano. Si era lanciato nel mezzo, e a schiaf­fi e pugni aveva cercato di farli ta­cere. Ma un uomo venerando dal volto luminoso gli aveva detto: “Non con le percosse, ma con la mansuetudine e la carità dovrai acquistarti questi tuoi amici. Parla loro della bruttezza del peccato e spiega la preziosità dell'amicizia con il Signore”.

Confuso e spaventato, Giovan­ni gli aveva domandato chi fosse. E si sentì rispondere: “Io sono il Figlio di Colei che tua mamma ti insegnò a salutare tre volte al giorno. Il mio nome do­mandalo a mia Madre".

Accanto a lui, in quel momen­to, Giovanni vide una Donna maestosa, rivestita di un manto splendente. Ella fece un ge­sto, e tutti quei ragazzi si mutaro­no in un gregge di capretti, cani, gatti, orsi, animali feroci. Un altro gesto, e tutti quegli animali si cambiarono in agnelli mansueti, che correvano e saltellavano intor­no a quell'Uomo e a quella Donna. Giovanni era tutto confuso, ma la Donna gli disse: “Ecco il tuo campo. Ecco do­ve dovrai lavorare. Renditi umile, forte e robusto. E il cambiamento che hai visto succedere in questi ani­mali, tu lo farai per i miei figli”.

Insieme a sua madre Margherita, Giovanni pensò a lungo a quel so­gno, e sembrò a tutti e due che Dio lo chiamasse a diventare sacerdote, e a dedicare la vita ai ragazzi sbandati, senza affetto, avviati per una cattiva strada.

Aiutato da sua madre, Giovan­ni affrontò fatiche e sacrifici incre­dibili per diventare prete. Subito dopo si stabilì a Torino per «dedi­care la vita ai ragazzi poveri e ab­bandonati».

Fin dalle prime domeniche an­dò per la città, per farsi un'idea del­le condizioni dei ragazzi. Ne rima­se sconvolto. Le periferie erano zo­ne di miseria e di desolazione. Gio­vani vagavano per le strade, disoc­cupati, intristiti, pronti a qualunque avventura pur di guadagnare qual­che soldo.

Un mercato dove si vendono ragazzi. Accanto al mercato generale della città, a Porta Palazzo, scoprì un luogo dove «si vendevano i ragazzi»: i padroni passavano, e sceglievano tra i tanti quelli che potevano servire alla lo­ro fabbrica, ai loro cantieri, con salati bassissimi.

L'impressione più sconvolgen­te don Bosco la provò entrando nel­le prigioni. Nelle sue Memorie scris­se: « Vedere un numero grande di ragazzi tra i 12 e i 18 anni, sani, ro­busti, intelligenti, vederli là oziosi, tormentati dalle cimici e dai pidoc­chi, senza pane e senza una parola buona, mi fece inorridire».

Nelle sue Memorie don Bosco continua: «Molti di quei giovani, quando riacquistavano la libertà, erano decisi a vivere in maniera di­versa, migliore. Ma dopo poco tem­po finivano di nuovo dietro le sbar­re. Cercai di capire la causa, e con­clusi che molti erano di nuovo ar­restati perché si trovavano abban­donati a se stessi. Pensavo: Questi ragazzi dovrebbero trovare fuori un amico che si prenda cura di loro, li assista, li istruisca, li conduca in chiesa nei giorni di festa. Allora non tornerebbero a rovinarsi». E’ di qui che parte la grande missione di don Bo­sco.

Avvicinò il primo ragazzo im­migrato l'8 dicembre 1841, festa della Madonna Immacolata. Tre giorni dopo attorno a lui erano in nove, tre mesi dopo venticinque, nell'estate ottanta. Dà loro pane, amicizia e catechismo.

Tra un manicomio e un cimitero abbandonato nasce il suo Oratorio. Per i ra­gazzi, rumorosi e fracassoni, don Bosco non trova un posto stabile. Deve vagare per la periferia nord di Torino, finché trova una tettoia tra i prati.

Ai suoi ragazzi dedica la settimana: cerca lavoro per chi non ne ha, condizioni migliori per chi è sfruttato, fa scuola dopo il la­voro ai più intelligenti.

Alcuni ragazzi, però, alla sera non sanno dove andare a dormire. Finiscono sotto i ponti o negli squallidi dormitori pubblici. Don Bosco affitta e poi compra una ca­sa, chiama dalla campagna sua ma­dre, e comincia e dare ospitalità ai più miseri.

Il ragazzo portato dalla pioggia. Il primo è un ragazzo bagnato di pioggia come un pulcino. E’ ar­rivato dalla Valsesia e non sa pro­prio dove andare. Dorme rannic­chiato presso il focolare acceso di don Bosco.

Nel 1852 i ragazzi a cui don Bo­sco dà cibo, scuola e alloggio sono 35. Dieci anni dopo saranno 600. Raggiungeranno il numero di 800.

Ragazzi poveri vogliono dire pane e minestra, abiti e libri, chiese edifici sempre più vasti. I sol­di, per tutta la vita di don Bosco, saranno il problema più dramma­tico. Eppure ce la farà: «La Prov­videnza a volte si fa un po' aspet­tare, ma arriva sempre».

Tra quei primi ragazzi poveris­simi, quasi tutti orfani, qualcuno gli chiede di «diventare come lui». Si chiamano Giuseppe Buzzetti, Michele Rua, Giovanni Cagliero, Giovanni Battista Fran­cesia, Paolino Albera... Si riunisco­no insieme e si danno il nome di «Salesiani», prendendo il nome da san Francesco di Sales, il santo della bontà e della dolce pazienza (“Così bisogna compotarsi tra i ragazzi”, diceva don Bosco ai suoi collaboratori). Loro scopo: dedicare la vita ai ragazzi poveri e sbandati, come ha fatto don Bosco. Non cer­cano denaro né carriera, ma la sal­vezza dei giovani.

Gli anni di mamma Margherita. La prima opera alla quale met­tono mano sono i «laboratori per giovani apprendisti”. Il primo mae­stro nel microscopico laboratorio dei calzolai è don Bosco stes­so, che ha imparato a risuolare le scarpe quando aveva 14 anni. Poi si organizza il laboratorio dei sarti, dove la prima maestra è la sua anziana mamma Margherita venuta dalla collina del Becchi a dargli una mano e a fare da mamma a quei suoi primi ragazzi. Poi vengono i laboratori dei legatori, dei falegnami, dei tipo­grafi, dei fabbri...

Gli oratori, le scuole, i labora­tori salesiani, le scuole agricole, le scuole professionali si allar­gano a macchia d'olio in Italia, Spagna, Francia, Belgio. I primi missionari salesiani li trapiantano nell’America del Sud.

E dovun­que si realizza il miracolo: ci sono giovani che dicono ai figli di Don Bosco: «Voglio diventare come voi. Non mi interessa far denaro o far carriera, voglio dedicare la vita a salvare i ragazzi poveri e sban­dati». Nasce così la grande famiglia dei figli di Don Bosco, chiamata ‘la Congregazione Salesiana’. Poi Don Bosco fonda, insieme a Maria D.Mazzarello, una seconda Congregazione: le Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA), che fanno tra le ragazze il bene che i Salesiani fanno tra i ragazzi. E finalmente Don Bosco inventa la famiglia dei ‘Cooperatori Salesiani’: tutte le persone che, vivendo nelle loro famiglie, vogliono far del bene ai giovani seguendo lo stile di Don Bosco. Tra essi ci sono anche i ‘benefattori di Don Bosco’: quelli che aiutano con la preghiera e con i beni materiali le opere salesiane.

Don Bosco, il «povero prete di Valdocco», è ormai conosciuto da tanta gente. E’ conosciuto e ammirato specialmente per la sua maniera di educare i giovani, che in tutte le istituzioni educative si tenta ormai di imitare.



Qual era esattamente il suo sistema educativo? Davanti a questa domanda che molti gli rivolgevano, Don Bosco si schermiva, diceva sorridendo: “Neppure io lo so. Tiro su i ragazzi come mia madre tirava su me e i miei fratelli”. Sistema familiare, quindi. Ma nella primavera del 1877, pressato da molte parti, specialmente dai Francesi presso i quali le sue opere si stavano moltiplicando, Don Bosco tentò di esporre in alcune pagine le linee essenziali del suo sistema educativo. Lo chiamò ‘Sistema Preventivo’.

Ecco le parole principali scritte da lui:

Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un istituto, e poi sorvegliare in modo che gli allievi abbiano sempre sopra di loro l’occhio vigile del Direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli ed amorevolmente correggano, che è quanto dire: mettere gli allievi nella impossibilità di commettere mancanze.

Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione, e sopra l’amorevolezza; perché esclude ogni castigo violento e cerca di tenere lontano gli stessi leggeri castighi.

La pratica di questo sistema è tutta appoggiata sopra le parole di S.Paolo che dice: ‘La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo’. Perciò soltanto il cristiano può con successo applicare il sistema Preventivo. Ragione e Religione sono gli strumenti di cui deve costantemente far uso l’educatore, insegnarli, egli stesso praticarli se vuol essere ubbidito ed ottenere il suo fine.

1.Il Direttore deve essere consacrato a’ suoi educandi… Si trovi sempre coi suoi allievi tutte le volte che non sono obbligatoriamente legati da qualche altra occupazione.

2.I maestri, i capi d’arte, gli assistenti devono essere di moralità conosciuta. Studino di evitare come la peste ogni sorta di affezione od amicizie particolari cogli allievi… Si faccia in modo che gli allievi non siano mai soli. Per quanto è possibile gli assistenti li precedano nel sito dove devono raccogliersi…

3.Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina, giovare alla moralità e alla sanità… Fate tutto quello che volete – diceva il grande amico della gioventù S.Filippo Neri -, a me basta che non facciate peccati.

4.La frequente confessione, la frequente comunione, la messa quotidiana sono le colonne che devono reggere un edificio educativo, da cui si vuol tener lontano la minaccia e la sferza. Non mai obbligare i giovanetti alla frequenza de’ santi Sacramenti, ma soltanto incoraggiarli e porgere loro comodità di approfittarne…

L’educatore, tra gli allievi, cerchi di farsi amare, se vuole farsi temere

.

Dite ai miei ragazzi”. Don Bosco morì il 31 gennaio 1888. Ai Salesiani che lo ve­gliavano, mor­morò nelle ultime ore: «Vogliatevi bene come fratelli. Aiutatevi, sopportatevi come fratelli. Fate del bene a tutti, del male a nessuno... Dite ai miei ragazzi che li aspetto tutti in paradiso».



Luigi Maria Monti, beato (1825-1900) Fondatore dei Figli dell’Immacolata Concezione (Concezionisti) (testo in 3 pagine)
Un bambino gli gettava le braccia al collo, i malati lo fissavano. Il 9 novembre 2003, in una Piazza San Pietro gremitissima e inondata di sole, Giovanni Paolo II proclamò cinque nuovi beati. Tra essi Luigi Maria Monti, il fondatore dei Figli dell’Immacolata Concezione. La sua figura austera e dolce campeggiava in un grande dipinto a colori, che diceva a tutti la doppia missione cristiana per cui era vissuto: un bambino bisognoso gli gettava le braccia al collo, alcuni malati adagiati intorno fissavano fiduciosi il suo volto.

Luigi Maria Monti, laico consacrato a Dio, nella sua vita era stato chiamato ‘padre’, per la venerazione di cui veniva circondato.

Era nato a Bovisio, piccolo paese dell’alto milanese, nel 1825. Era l’ottavo figlio di Angelo e Teresa Monti, modesti contadini. Giovane ardente di vita, cresceva nella fede comunicatagli dai genitori, e viveva con loro i valori umani e cristiani di austerità , generosità e operosità.

Orfano di padre a 12 anni, diventa artigiano del legno per sostenere la mamma e i fratelli. Attratti dalla sua bontà, dopo il lavoro diversi coetanei artigiani e contadini si riuniscono nella sua bottega, trascorrendo il tempo in preghiere, letture della vita dei santi, tutto in sana e santa allegria. E’ una vera ‘comunità cristiana locale’, che la gente del posto chiama scherzando ‘la compagnia dei frati’.

Ma è l’anno 1851, ed è finita da poco (con il disastro della battaglia di Novara) la prima guerra d’indipendenza italiana. Gli Austriaci che occupano la Lombardia vedono cospirazioni dappertutto. Qualche maligno soffia nelle loro orecchie che nella bottega del Monti si riunisce una ‘società di cospiratori’. La polizia irrompe durante una riunione e arresta Monti e quindici suoi compagni. Per 72 giorni subiscono il ‘carcere preventivo’, mentre la polizia indaga. Alla fine vengono liberati come onesti cittadini che non hanno mai cospirato contro nessuno.

Nel 1852 Luigi Maria si trasferisce a Brescia per entrare nella Congregazione dei Figli dell’Immacolata fondata da Ludovico Pavoni cinque anni prima. Vi rimane sei anni come novizio. Fu un periodo di maturazione e di riflessione. Fece esperienza come educatore, dedicandosi ai poveri figli del popolo, e si specializzò come infermiere, in cui manifestò dedizione eroica.



Si chiuse nel lazzaretto. Quando nel 1854 scoppiò a Brescia il colera, si chiuse volontariamente con due confratelli nel lazzaretto e vi rimase per tre mesi, a completa disposizione dei colpiti. Uscì solo alla fine della pestilenza per non contagiare nessuno.

Nel dicembre del 1854, papa Pio IX da Roma proclamò ‘dogma di fede’ l’Immacolata Concezione di Maria. Luigi Maria, insieme al giovane e abile infermiere Cipriano Pazzini, furono sollecitati dal loro direttore spirituale a recarsi a Roma, nell’ Ospedale Santo Spirito. Il direttore sapeva che la cura degli infermi in quel grande ospedale non era buona. Avrebbero dato vita a una unione per il servizio degli infermi, che avrebbe chiamato “Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione”.

Luigi Maria Monti ubbidì. Giunse a Roma nel 1858 (aveva 33 anni) e si inserì nell’ospedale come umile infermiere.

Venti lunghi, faticosi anni. “Fu in quel luogo di disperate sofferenze che, di fatto, iniziò il cammino di Luigi Monti sulla strada della carità e del servizio all’uomo malato, fu lì che egli diede vita alla famiglia religiosa dei Figli dell’Immacolata Concezione a testimoniare la filiale accettazione di quel dogma che papa Pio IX aveva da poco promulgato sulla purezza totale della Madre Celeste. Dalle corsie del Santo Spirito agli ospedali di Orte, Nepi, Civitacastellana, Capranica, Luigi Monti per ben venti lunghi e faticosi anni si fece Infermiere di Dio, Apostolo della Carità, testimone d’amore al servizio della sofferenza. Diventò operatore sanitario a tempo pieno. Visse, dormì, si nutrì accanto ai suoi assistiti, ne condivise i loro problemi al punto di seguirli anche una volta dimessi dalla corsia ospedaliera. La città di Roma e il territorio della provincia di Viterbo lo videro sempre pronto ad accorrere dove il fratello malato chiamava, dove la sua opera risultava indispensabile. E’ pienamente convinto che il malato, il corpo del malato sofferente siano la stessa persona di Cristo, tanto che trovandosi nella necessità di scegliere tra un rosario in cappella e un malato da soccorrere non ebbe mai dubbio alcuno. Fu l’amico e il servo degli infermi, fu l’infermiere di Dio, fu l’interprete del Vangelo della sofferenza. Ma non dimenticò mai di aggiornarsi a livello professionale. Studiò anatomia e farmacia per preparare giuste ricette per i suoi malati. Ma la ricetta più bella non veniva, come ebbe a dire lo stesso Monti, dal retrobottega di una qualunque farmacia, ma dal cuore di Gesù. Ecco la sua prescrizione: ‘Per godere di buona salute di anima e di corpo, prendete radici di fede, verdi fronde di speranza, rose di carità, viole di umiltà, gigli di purità, assenzio di contrizione, legno della Croce. Legate tutto in un fascetto col filo della rassegnazione. Mettetelo a bollire sul fuoco dell’amore, nel vaso dell’orazione, con vino di santa allegrezza e con acqua di temperanza, ben chiuso col coperchio del silenzio. Lasciatelo la mattina nel sereno della meditazione. Prendetene una tazza mattino e sera, e così godrete buona salute’. E’ un infuso, quello del beato Luigi Maria Monti, che non ha date di scadenza” (G.Cristofani).

Nel 1877 Pio IX lo nomina Superiore Generale della sua Congregazione, che silenziosamente ed efficacemente si sviluppa nei luoghi di sofferenza. ‘Padre’ Monti si sforza di donare ad essa il suo spirito. Ripete ai suoi figli spirituali: Cercare sempre tra le pieghe di un dolore fisico il tormento di un’anima”. “Prima di tutto viene il malato”.

Il motto di san Benedetto, “Prega e lavora”, fu tradotto da Luigi Monti come “Prega e cura, prega e guarisci, prega e sii di conforto al prossimo nel momento più delicato della vita, nell’ora in cui il male corporale inaridisce le anime e rischia di farle allontanare da Dio”. Lo scrisse chiaramente nelle Regole che volle lasciare ai suoi figli, ma prima di scriverlo con le parole lo testimoniò con la sua vita, passata a fianco della povertà e della sofferenza.


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