Dottrina sociale della chiesa


Don Luigi Giussani (1922-2005) Fondatore di Comunione e Liberazione (3 pagine)



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Don Luigi Giussani (1922-2005) Fondatore di Comunione e Liberazione (3 pagine)


I ragazzi sul pianerottolo. Nel febbraio 2004, papa Giovanni Paolo II scrive una lettera cordiale e fraterna a don Luigi Giussani. Lo ringrazia a nome della Chiesa dei 50 anni di attività tra i giovani per la diffusione della fede cristiana. Quella lettera metteva il sigillo papale all’opera di don Gius (come lo chiamavano i suoi ragazzi), che non sempre aveva raccolto simpatie all’interno della Chiesa.

Perché la lettera del Papa era stata scritta nel febbraio 2004?

Me lo narrò lui stesso. “ Nel febbraio 1954 ero insegnante di Religione al liceo Berchet. E notai, durante un intervallo, che si riuniva su uno dei pianerottoli delle scale un gruppo di ragazzi. Parlavano tra loro affiatati e infervorati, ogni giorno sempre gli stessi. Chiesi chi fossero, e mi fu risposto: i comunisti. La cosa mi colpì. Mi domandai: “E come mai i cristiani non sono almeno altrettanto capaci di quell’unità che Cristo indica come la più immediata e visibile tra le caratteristiche di chi crede in lui?”

Tornavo a casa rimuginando questo fatto, incollerito di quella incapacità. Per strada (potrei citare il nome della via) raggiunsi quattro ragazzi che parlavano tra loro. Chiesi loro: “Siete cristiani?” Un po’ straniti della domanda inaspettata, mi risposero “Sì”. “Ah, siete cristiani” risposi io “E in scuola chi si accorge che lo siete? Nelle assemblee scolastiche sono presenti e lottano soltanto i comunisti e i fascisti. E i cristiani?”. La settimana dopo, questi quattro si presentarono in assemblea, e fecero un intervento cominciando con le parole: “Noi cristiani…”. Da quell’istante, in quella scuola, per dieci anni almeno, non ci fu argomento più infuocato che la Chiesa e il Cristianesimo”.

In quei dieci anni, dal 1954 al 1964, don Gius fu insegnante di Religione in quel liceo, e attorno a lui nacque il movimento che fu chiamato Gioventù Studentesca’. Ma nel 1968 tutto entrò in crisi. Don Gius non era più insegnante di Religione. Gioventù Studentesca si lasciò travolgere dalla contestazione sociale violenta.

Nasce ‘Comunione e Liberazione’. Dal 1964 don Giussani è docente di Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica di Milano. E dice, con quel suo linguaggio denso : “Feci quel che potevo per contribuire a ricoagulare liceisti, universitari, persone adulte, a tenerli fedeli all’essenza del fatto cristiano, accompagnandoli per la strada dura e umile del distacco dall’immediato fluire degli avvenimenti. Un vasto impegno sociale e politico sarebbe stato opportuno ed autentico soltanto in forza di un maturo sviluppo della propria identità cristiana”.

Alla fine del 1969 questo movimento nuovo comincia a chiamarsi Comunione e Liberazione. “E’ un movimento ecclesiale il cui scopo è:


*l’educazione cristiana matura dei propri aderenti;

*la collaborazione alla missione della Chiesa in tutti gli ambiti della società contemporanea.

Nasce dalla convinzione che l’avvenimento cristiano, vissuto nella comunione, è il fondamento dell’autentica liberazione dell’uomo”.

Il nocciolo del Cristianesimo. Sono stato a intervistare don Giussani nella piccola casa in cui aveva residenza, in una via quasi periferica di Milano. Ho premuto il campanello e lui mi ha ricevuto in uno stanzino povero e piccolo, reso ancora più piccolo da scaffali e pile di libri. Ha risposto a tutte le mie domande con la sua voce cartavetrata.

Gli domandai, tra il resto, come gli era venuta l’idea di farsi prete. E lui mi ricordò sua madre, con cui camminava nella penombra dell’alba per recarsi alla messa mattutina. Vedendo l’ultima stella del mattino che brillava mentre spuntava l’aurora, a un tratto sommessamente esclamò: “Com’è bello il mondo, e com’è grande Dio!”. Mi ricordò suo padre, socialista anarchico, che lo aveva educato a chiedersi sempre il perché delle cose, e che stimava profondamente i preti. “Sono entrato in Seminario che avevo appena 10 anni. Non so come. Mi era venuta quell’idea. La mia famiglia aveva molta stima dei preti, forse perché, grazie a Dio, nella nostra parrocchia di Desio c’erano state figure di preti eccellenti. Quella decisione fu come un seme iniziale che si sviluppò lentamente ma inesorabilmente. Non ho mai avuto momenti di desiderio di ritorno”.

Gli domandai qual era per lui l’identità del prete, e lui: “Per me e per ogni prete è la consapevolezza di essere Cristo che continua la sua missione”.

Gli posi a un tratto la domanda-chiave, che doveva farlo pronunciare su un punto in cui molti cristiani di valore non erano d’accordo con lui. Gli dissi: “Diversi cristiani le rimproverano di avere un piglio da Cristoforo Colombo: come lui ha scoperto l’America, lei ha scoperto l’essenza del Cristianesimo. Che cos’è per lei l’essenza, il nocciolo del Cristianesimo?”. E lui sorridendo: “E’ una grossa malignità quella che dicono. Io non ho scoperto niente. Il Vangelo è lì, aperto da 2000 anni, per dire a tutti che cos’è il Cristianesimo. Il nocciolo del Cristianesimo è l’ “avvenimento”. Duemila anni fa, in una singola persona, Dio ha cominciato a camminare accanto all’uomo. Ecco l’avvenimento. Il divino ha cominciato a ad essere compagnia quotidiana dell’uomo. All’inizio questo avvenimento era uno, una persona singola, Gesù Cristo. Ma Cristo, nel tempo e nello spazio, si è dilatato, è diventato un popolo: ecco l’avvenimento che continua nella storia.

Ci sono in giro due grossi equivoci sull’essenza del Cristianesimo. Il primo è vederlo come una ‘dottrina’, e quindi come un apprendimento teologico. Questa riduzione intellettualistica favorisce a ridurre il Cristianesimo a una delle tante religioni nate dall’uomo. Non è più l’avvenimento determinato da Dio che è entrato nella storia umana. E’ una religione e basta. Il secondo equivoco è il ‘moralismo’. Il Cristianesimo ridotto a suggerimenti di determinati atteggiamento morali, magari riguardanti la sessualità, o riguardanti la giustizia sociale. L’atteggiamento etico-morale è una conseguenza del Cristianesimo. ma non è il Cristianesimo”.

I rami robusti. Attualmente CL è presente in circa 70 Paesi di tutti i continenti. Non c’è nessun tesseramento, ma solo la libera partecipazione. Strumento fondamentale di formazione è la catechesi settimanale chiamata ‘Scuola di comunità’.

Dal tronco di CL, con lo scorrere degli anni, nascono rami robusti.

A metà degli anni ’70 nascono i primi gruppi di ‘Fraternità di CL’: sono ex universitari che desiderano approfondire, attraverso una vita in comunione, l’appartenenza alla Chiesa dentro le responsabilità della vita adulta. La ‘Fraternità’ verrà dichiarata nel 1982 ‘Associazione di Diritto Pontificio’.

Verso la fine degli anni ’70 si afferma sempre più la “Scuola di Comunità”, come momento fondamentale di incontro e di catechesi.

Nel 1980 si svolge la prima edizione del “Meeting per l’amicizia tra i popoli” a Rimini. La kermesse si ripete ogni anno fino a oggi, radunando migliaia e migliaia di persone da tutti i Paesi del mondo, altissime autorità, gesti artistici e culturali di grande qualità.

A metà degli anni ’80 la presenza di CL nelle Università si concretizza con proposte di aiuto: alle matricole nell’orientarsi nello studio, agli studenti nell’aiutarli nel cercare alloggio , e a tutti con varie iniziative culturali e sociali.

Nel 1985 inizia la “Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo”.Sarà riconosciuta ‘Società apostolica di diritto pontificio’ nel 1999.

Nel 1986 giovani laureati e adulti di CL danno vita a una ‘iniziativa nel solco della Dottrina Sociale cattolica’. E’ la ‘Compagnia delle Opere’.

Nel 1988 viene riconosciuta come associazione privata di diritto pontificio ‘Memores Domini’. Essa raccoglie aderenti a CL che scelgono di dedicarsi totalmente a Dio vivendo un cammino di castità, povertà e obbedienza.

Don Gius va incontro a Dio nella sua modestissima abitazione di Milano il 22 febbraio 2005.




Teresa di Calcutta, beata (1919-1997) Fondatrice delle Missionarie della Carità (testo in 4 pagine)
Agnes frequentava la parrocchia, e a 15 anni entrò nel gruppo ‘Sodality’. Nelle riunioni leggevano le vite dei santi e le vicende dei missionari, e decidevano le ‘opere buone’ da fare lungo la settimana. La ragazzina era nata il 26 agosto 1910 a Skopje, in una famiglia albanese. Papà e mamma le avevano comunicato una fede cristiana robusta e serena.

Una domenica pomeriggio, il gruppo parrocchiale di Agnes si incontrò con alcuni missionari arrivati dal Bengala. “Ci descrissero in modo meraviglioso le loro esperienze con gli indiani, specialmente i bambini” ricordava Madre Teresa. Da quel giorno cominciò a pensare che, tra quei missionari, avrebbe potuto esserci anche lei. Si confidò col parroco, che tagliò corto: “Pensaci. Intanto continua a far bene la catechista tra i bambini”.

Al compimento del 18° anno, Agnes disse al parroco: “Ci ho pensato tre anni. Ho proprio voglia di partire missionaria”. Lui le rispose: “Se la tua è vera vocazione di Dio, devi sentire un senso di gioia profonda”. “Lo sento, disse Agnes, anche se ho un po’ di paura a dirlo a mia mamma”. Quando glie lo disse, la donna rimase esitante. Poi la raggiunse in camera sua ed ebbero un lungo colloquio. Pregarono insieme. Le ultime parole che mamma Loke le disse prima di uscire dalla stanza furono: “Metti la tua mano nella mano di Gesù, e seguilo fino in fondo”.

Chiede di essere accettata dalle ‘Suore di Loreto’ che lavorano nel Bengala (vastissima regione est dell’India, gravitante attorno all’immensa città di Calcutta). Il suo itinerario è: Dublino (presso la Casa Madre delle Suore) per imparare bene l’inglese - Daryeeling, ai piedi dell’Himalaya per i due anni di noviziato - Calcutta scuola di Entally. Qui arriva dopo aver cambiato il nome civile ‘Agnes’ in quello religioso ‘Teresa’. Da questo momento sarà per tutti ‘Madre Teresa’. Diventa insegnante di catechismo, geografia e storia.



Da 2 a 4 milioni di morti. Ma la grande città di Calcutta, nel corso degli anni, fu devastata da molti, tristi avvenimenti. Nel 1941, durante la terribile guerra tra Giappone e Inghilterra-Stati Uniti, Calcutta fu bombardata. Nel 1942 ci fu una grave carestia in tutta la regione intorno. La gente si rovesciò a Calcutta. Cercava cibo e moriva di fame. I morti furono da due a quattro milioni. Le ragazze venivano alla scuola delle suore con lo stomaco gonfio di acqua, l’unica cosa che le madri davano loro come colazione. Svenivano in classe. Madre Teresa, diventata direttrice della scuola, girò molte volte per la città in cerca di cibo, ma si trovava ogni volta circondata da folle misere, lebbrosi, mamme con bimbi morenti in braccio, ammalati febbricitanti distesi sui marciapiedi. Tornava dicendo alle consorelle: “C’è Gesù che agonizza su ogni marciapiede della città”. Negli anni seguenti, crebbero come funghi mostruosi nella città gli ‘slums’, le baraccopoli dove vivevano e morivano i sottopoveri. A centro metri dalla scuola iniziava lo slum di Motijheel: un insieme di baracche tenute in piedi a forza di fango, paglia e juta. Bambini giocavano tutti nudi, testine rasate e piedini nello scolo della fogna. Intere famiglie avevano trasformato alcuni metri quadrati nella loro casa. Il braciere era la loro cucina, uno straccio serviva di giorno da stuoia, di notte da coperta, quando si scatenava il monsone da parapioggia. Nello slum vivevano sani accanto ai lebbrosi, vivi accanto ai morenti. I bambini erano numerosi come le mosche, e morivano come le mosche.

Madre Teresa si sentì chiamata da Dio ad uscire dalla sua scuola e a mettersi per le strade a servire con le sue mani i più poveri, i lebbrosi, i moribondi.

Chiese il permesso alla sua Superiora, all’Arcivescovo, e dopo aver imparato alcune nozioni di medicina e di pronto soccorso, nel 1948 andò negli slums.

La veste normale delle donne indiane è il sari, una striscia di stoffa lunga sei metri, che nella forma più povera è cotonina bianca con qualche ornamento di colore sui bordi. Madre Teresa decide di vestirsi così, con bordi colorati d’azzurro.

Cominciò con una scuoletta. In uno spiazzo tra le capanne avvicinò sorridendo alcuni bambini. E propose loro: “Giochiamo?”. Con il loro aiuto sgombrò lo spiazzo dai rifiuti e disse: “Giochiamo all’alfabeto”. Non aveva lavagna, gesso, banchi. Con un bastoncino tracciò sulla terra, cantilenando, alcune lettere dell’alfabeto bengalese. E i bambini accoccolati intorno, vinti dal suo sorriso, cantilenarono insieme con lei. Poi con altri bastoncini rigarono anche loro la terra, imitando i disegni della suora. Col permesso delle mamme, Madre Teresa li portò poi dove c’era dell’acqua pulita, e li fece lavare ben bene, tra spruzzi e risate. Poi disse una breve preghiera, che i piccoli ascoltarono con la mani giunte davanti alla faccia, all’indiana. Nei giorni seguenti il numero dei bambini aumentò sempre più. Per il pasto di mezzogiorno la Madre si portava il ’tiffin’, il panino-pasto di mezzogiorno dei poveri. Nel pomeriggio si sedeva accanto a qualche malato, entrava in qualche capanna, aiutava le mamme a far pulizia e a lavare i bambini. In pochi giorni ebbe moltissimi amici.

La sua prima lebbrosa. Quasi subito incontrò il parroco della zona. Scrisse: “Si mostrò molto contento di vedermi. E a prova della sua stima mi diede cento rupie”. Con quella buona somma di denaro “ho preso in affitto due stanze per dieci rupie al mese da adibire rispettivamente a scuola e a dispensario”. Era il 27 dicembre 1948.

Nella stanza-scuola si ammucchiarono i suoi scolaretti. Nella stanza adibita a dispensario, il 14 gennaio 1949 ospita la sua prima lebbrosa. Scrisse: “Che spettacolo terribile. La famiglia l’ha cacciata a causa della malattia. Dato che non ha più le dita, cucinare le riesce molto difficile”. Appena si sparge la voce che vicino alla scuoletta di Madre Teresa funziona anche un dispensario, i malati arrivano a decine, fanno lunghe code.

Tra le ragazze che erano sue scolare nelle scuola delle suore, la voce si sparse veloce come il vento: “Madre Teresa è andata nello slum. Vive tra i poveri e i lebbrosi”. E capitò ciò che nessuno aveva previsto. Qualcuna disse: “Vado anch’io”. La prima fu Subashini Das, una ragazza piccolina dagli occhi luminosi. Aveva sentito Madre Teresa dire tante volte: “Gesù è in agonia nei poveri. Dobbiamo fare qualcosa per Lui”. Das arrivò il 19 marzo, due mesi soltanto dopo che Madre Teresa aveva cominciato a “fare qualcosa per Gesù in agonia”. Due settimane dopo arrivò una seconda sua alunna, Magdalena Pattin, seguita quasi immediatamente da una terza e una quarta: Dorothy e Mary Margaret.

Il padre gesuita, Van Exem, che seguiva l’azione di Madre Teresa per ordine dell’Arcivescovo, capì che stava cominciando qualcosa di grande, e trovò un alloggio per la Madre e le prime quattro alunne in una casa del cristiano Michel Gomes.

Mese dopo mese, in silenzio il gruppetto si ingrandiva. Dovettero darsi un nome, e si chiamarono “Missionarie della carità”.

Ogni volta che l’alba rigava i vetri delle fineste, le prime Missionarie della Carità partecipavano alla santa Messa di padre Van Exem, e poi sciamavano per gli slums. Si moltiplicavano le scuolette e i dispensari. Madre Teresa guidava un terzetto di suore con un carretto. Si fermavano ad ogni deposito di immondizie. Frugavano, e spesso trovavano qualche fagottino vivo, palpitante: un neonato che una mamma aveva abbandonato perché incapace di nutrirlo. Li portavano nei loro dispensari, dove avebbero strillato e succhiato il latte delle caprette, comprate e allevate proprio per questo.



La casa dei morenti e quella dei bambini. Gli anni scorrono, e i centri-rifugio iniziati da Madre Teresa si moltiplicano. Nell’ agosto 1953, l’ufficiale sanitario Ahmad mette a disposizione due saloni presso le rive del Gange, perché la Madre vi ricoveri i lebbrosi e i morenti che raccoglie in città. Sono saloni destinati ai pellegrini del vicino tempio della dea Kalì, e i fanatici indù fanno una mezza rivolta. Ahmad dice calmo: “Mandate vostra madre a curare i moribondi, e noi manderemo via la suora”. Nessuno si presenta e la Madre è lasciata in pace. Essa ribattezza il luogo Nirmal Hriday (Luogo dei cuori puri). Vi appende un Cristo crocifisso con le gambe mutilate e un cartello: Let My Hands Heal Thy Broken Body, Lascia che le mie mani curino il tuo corpo spezzato.

Dopo aver aperto il rifugio per i morenti, Madre Teresa aprì la Casa dei Bambini, che in hindi fa ‘Shishu Bhavan’. Lo aprì al n.78 di Circular Road, vicinissimo alla Casa Madre delle Missionarie della Carità che esse avevano aperto, dopo essere state ospiti dei Gomes per due anni.

I bambini sono sempre stati la delizia di Madre Teresa, che li chiavama ‘il sorriso di Dio’.

“Shishu Bhavan è una casa allegramente caotica – scrive la Zambonini che ha vissuto lì qualche giorno-. La animano gli strilli dei neonati, le grida dei bambini più grandicelli che si rincorrono nei cortili, l’affaccendarsi delle ragazze incinte cacciate dalle famiglie e qui accolte in attesa di partorire; l’arrivo di coppie senza figli che chiedono di adottare un bambino… Funziona da pronto soccorso, centro di accoglienza dei neonati abbandonati, farmacia diurna e notturna, mensa popolare, ufficio per le pratiche dell’adozione, consultorio di maternità”.

Nel 1961 Madre Teresa cominciò a realizzare un sogno che aveva accarezzato a lungo: portare i lebbrosi fuori della città, tra il verde, con casette preparate per loro e le loro famiglie, campi da coltivare, laboratori dove esercitare un mestiere, centri sanitari specializzati: una cittadella tutta per loro. Ci vollero sette anni di fatica e di denaro per strappare dalla giungla la splendida cittadella che si ammira oggi. Sono in piena attività le scuole, i laboratori di tipografia, meccanica e falegnameria. Ci sono piccole fabbriche di scarpe e sandali, di garze e cotonina per sari (le Missionarie comprano qui i loro sari).

Mentre gli anni passavano, le Missionarie aprivano centri in tutto il mondo: dagli Stati Uniti al Vaticano. Nel 1979 fu assegnato Madre Teresa di Calcutta il Nobel per la pace. Nel 1986, dandole la mano, entrò nella ‘casa dei morenti’ di Calcutta il papa Giovanni Paolo II, si mise un grembiule e imboccò con lei i lebbrosi.

Dio le venne incontro il 5 settembre 1997. Aveva detto ai giovani di tutto il mondo: “Non venite a Calcutta. La vostra Calcutta cercatela lì dove vivete”.

Padre Erminio Giovanni Crippa (1921-2000). Fondatore dell’API-COLF.

(testo in 3 pagine)
L’Italia nella guerra e nel dopoguerra. Negli anni 1941-42-43 l’Italia, gettata nella seconda guerra mondiale, ha soldati che muoiono sui fronti dell’Africa, della Russia, della Grecia. Le sue città sono sottoposte a massicci bombardamenti. Per tutti aumenta la povertà, la scarsità del cibo. Nel seminario minore dei Padri Dehoniani, a Pagliare (Ascoli Piceno), c’è un giovane educatore di vent’anni, intelligente e gagliardo, che in mezzo ai giovanissimi seminaristi diffonde allegria, ottimismo. Anche se il pane è scarso, con lui i ragazzi ridono, giocano e studiano. Erminio Giovanni Crippa (questo è il suo nome) ha la straordinaria abilità di trasmettere agli altri la cultura con chiarezza ed entusiasmo, riuscendo a suscitare sempre interesse nei suoi ascoltatori.

Nel 1945 la guerra finisce. Erminio diventa sacerdote nel 1947, e cerca di vivere con cristiano ottimismo quel tempo durissimo. L’Italia uscita dalla guerra si trova in una situazione disastrosa sia dal punto di vista materiale sia dal punto di vista morale. I marciapiedi brulicano di ragazzi orfani di guerra e ‘figli della guerra’ (soldati americani o tedeschi avevano avuto ‘storie d’amore’ con ragazze italiane sfinite dalla fame, attirate più dalle stecche di cioccolato e dalle scatolette di carne che dall’amore. Con la fine della guerra, i soldati erano tornati in patria, le ragazze si erano trovate con in braccio un figlio che non sapevano come mantenere). I ‘figli della guerra’, insieme agli orfani, sono finiti sulla strada. Cattiva maestra, la strada. Davanti a questa sitiazione, padre Enrico Agostini dello Studentato Missioni di Bologna lancia l’idea di fondare accanto allo Studentato un centro che accolga quei ragazzi, e con scuole e laboratori offra loro la possibilità di costruirsi un avvenire sicuro. L’idea è bella, ma i soldi mancano.

Mentre si inizia con fiducia nella Provvidenza il ‘Villaggio del fanciullo’, padre Crippa è inviato per due volte in America, a raccogliere fondi. Ha imparato un inglese fluente parlando con i soldati americani, ed ha una maniera di avvicinare la gente che suscita simpatia ed entusiasmo. Torna entrambe le volte con fondi molto consistenti. Il Centro può presto ospitare un centinaio di ragazzi e prepararli in ‘Scuole di Arti e Mestieri’ ad essere fabbri, falegnami, meccanici, tipografi, odontotecnici.

Le ‘serve’ venute dalla campagna. Padre Crippa fu nominato Direttore dell’opera per sei anni. Ma il tempo degli ‘orfani di guerra’ con gli anni passava, e invece le richieste per ospitare orfani non diminuivano, anzi si moltiplicavano e giungevano da tutta l’Italia. Padre Crippa esaminò con attenzione e delicatezza la situazione, e si accorse che diversi ragazzini accolti come orfani, sono in realtà figli ‘irregolari’ di ragazze che a quel tempo venivano chiamate ‘serve’ o ‘domestiche’. Ragazze di 12-14 anni, provenienti dalla campagna o dalle montagne, venivano messe a servizio presso fattori di campagna o notabili di città. “Ragazze sarde, trentine, friulane, bergamasche, calabresi e siciliane – scrive Giovanni Celi – lasciavano le loro case per vivere nella solitudine per vivere nella solitudine affettiva, di scarso o nessun livello scolastico e si lasciavano tentare alla prima dimostrazione di affetto. Spesso, ad abusarne, erano gli stessi datori di lavoro o i figli di questi ultimi. Da una statistica del 1956 risulta che a Roma su 90 ragazze madri nell’età compresa tra i 18 e i 29 anni, 64 lavoravano come ‘domestiche’, e quasi tutte erano analfabete e provenienti da fuori città.

Ispirandosi al suo Santo fondatore, Leone Dehon, padre Crippa si sentì spinto a dedicarsi appena possibile a sradicare la causa sociale che creava gli orfani a cui si stava dedicando.

Finiti i sei anni di direzione del ‘Villaggio’, padre Crippa con l’appoggio dei suoi Superiori dedicò gli anni 1956-57 a studiare le condizioni delle ‘domestiche’ girando in lungo e in largo l’Italia, e visitando i ‘Gruppi-ACLI-Domestiche’ (GAD). Le sue conclusioni principali furono:

1.Bisogna partire dall’istruzione, l’ignoranza è la madre di tutte le schiavitù;

2.E’ necessario risolvere il problema psicologico che fa delle ‘domestiche’ delle persone di serie B.

3.E’ necessario che siano le ‘domestiche’ ad assumersi responsabilità di autopromozione, sganciandosi da ogni paternalismo e senza delegare ad altri i loro problemi.

Nel volumetto che pubblicò Perché ci muoviamo indicò con chiarezza le mete verso cui bisognava camminare: albo professionale per dare dignità professionale; competenza; assistenza sociale per pensione e assistenza mutualistica (cose impensabili per quegli anni).

Nominato vice-assistente nazionale delle ACLI, si dedicò completamente alle lavoratrici della casa, che dal 1964 poterono abbandonare definitivamente l’appellativo di ‘serve’ e di ‘domestiche’ per quello di Collaboratrici Domestiche (COLF).

La lotta contro l’igoranza, padre Crippa la iniziò decisamente con due corsi di 6 giorni ciascuno a Cevo di Valsaviore per il nord, e a Pompei per il sud. Argomenti: Storia del movimento operaio – Nozioni fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa – Come vincere la claustrazione dovuta alla ‘c0nvivenza’ con i datori di lavoro – Spiritualità nel lavoro della Colf – Solidarietà tra le Colf – Progetti di legge per cambiare la situazione e arrivare a un Contratto Nazionale di Lavoro.

Corsi di alfabetizzazione per le etiopi. Grande e insostituibile appoggio nella sua missione a favore delle Colf, èadre Crippa lo trovò nella collaborazione delle Suore, in particolare delle Religiose di Maria Immacolata, delle Figlie di Maria Ausiliatrice, delle Suore Francescane. Queste ultime tengono a Milano i primi corsi di alfabetizzazione per le donne etiopi ed eritree.

In campo legislativo la prima legge in favore delle Colf è approvata il 2 aprile 1958: il rapporto tra datore di lavoro e Colf è non di semplice esecuzione materiale di lavoro come in fabbrica, ma di fiducia, con tutte le conseguenze legali.

Seguono le conquiste della pensione, della tutela contro le malattie e degli assegni familiari.

Quando nel 1971 le ACLI (sotto il pontificato di Paolo VI) attraversano un periodo di crisi, le dirigenti delle Colf si riuniscono e l’11 novembre costituiscono l’API-COLF (Associazione Professionale Italiana delle Collaboratrici Familiari). Essa viene riconosciuta come Associazioni Ecclesiale dalla CEI, e padre Crippa viene nominato Primo Consulente Ecclesiastico di essa. Lo sarà fino al 1991, al compimento del 70° anno di età.

Sotto le sua ‘consulenza’ vengono firmati i primi Contratti Collettivi di Lavoro delle Colf.

Il momento più grande l’API-COLF lo vive il 29 aprile 1978. In occasione del loro Decimo Congresso, novemila Colf sono ricevute da Papa Giovani Paolo II che parla loro ricordando le tappe del cammino della Associazione verso il pieno riconoscimento della loro dignità umana e cristiana.

Pare Crippa continua a scrivere articoli, libri, e anche dispense che vengono utilizzare nelle scuole professionali della sua Associazione.

Insignito dal Papa di medaglia d’oro come Benemerito della Chiesa, padre Crippa passa gli ultimi anni nella Casa Serena dell’Associazione, assistito amorevolmente dalle sue collaboratrici. Nel suo testamento spirituale scrive:

Il Sacro Cuore sia la pietra del mio riposo.

Le Colf e le assistenti domiciliari siano

come sono state in vita scritte nel mio cuore,

siano certe che ogni mattino le benedirò dal cielo

e guarderò nelle famiglie dove lavorano.

Pregherò per quelle che pregano

pregherò per quelle che non pregfano.

In fondo non ho amato che voi,

non sono vissuto che per voi”.

Padre Erminio Giovanni Crippa andò incontro a Dio il 24 aprile 2000.




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