Dottrina sociale della chiesa


Eugenia Ravasco, beata (1845-1900



Yüklə 0,58 Mb.
səhifə6/14
tarix19.07.2018
ölçüsü0,58 Mb.
#56668
1   2   3   4   5   6   7   8   9   ...   14

Eugenia Ravasco, beata (1845-1900) Fondatrice delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria (testo in 3 pagine)
Papà e mamma sparivano e riapparivano: una confusione. Figlia di banchieri, banchiera essa stessa, giocò tutta la sua vita sulla promessa di Gesù: “Chi avrà abbandonato fratelli e sorelle, padre e madre, case o campi per mio amore, riceverà cento volte di più, e avrà in eredità la vita eterna”(Mt 19, 29).

Sua madre era giovane e bella quando lei nacque a Milano, quinta di sei figli. Suo padre invece, il ricchissimo banchiere Francesco Matteo Ravasco, era già vecchio di 63 anni. La felicità, per quella bimba, durò un tempo brevissimo. La mamma nel dare alla luce Elisa, sua ultima bambina, morì. ‘Mammina’ di Eugenia divenne zia Marietta, che lei non riuscì mai a distinguere bene dalla sua mamma vera. Poi sparì il papà che lasciò Milano e tornò a Genova con il figlio più grande. Quindi ci fu un viaggio, ricomparve papà e sparì la ‘mammina’, perché papà Francesco aveva deciso di portare a Genova la sua famiglia. E per Eugenia (7 anni) furono giorni di pianto disperato perché aveva perso la sua ‘mammina’. Ma nella nuova città c’era un’altra zia che aveva figli piccoli, Eugenia si trovò in una nuova, grande famiglia, e ritornò serena e contenta. Quando ebbe dieci anni sparì per sempre papà, morto di vecchiaia a 73 anni. Le lasciava un grande patrimonio e un po’ di confusione in testa.

Ambrogio (19 anni) sentì moltissimo la morte del padre, diventò apatico e ribelle. Eugenia invece crebbe tranquilla e vivace nella famiglia degli zii. Studiava, imparava a cucire e a ricamare, accompagnava la zia nella chiesa e rimaneva incantata davanti al tabernacolo ‘dove c’è Gesù’.

Lo zio Luigi (diventato suo tutore) aveva assegnato alla nipote un piccolo fondo, da gestire come voleva, ma di cui rendere conto alla fine di ogni mese. La voce più alta nel bilancio di Eugenia era sempre quella delle ‘elemosine’. La zia le aveva insegnato che Gesù è nel tabernacolo, ma è anche nei poveri, nei bisognosi, in quelli che soffrono. Eugenia sentiva compassione verso di loro. Man mano che cresceva la colpivano specialmente le ragazze della sua età, malvestite, poco pulite, che vedeva azzuffarsi e picchiarsi nelle viuzze strette.

A 17 anni Eugenia riceve una grazia preziosa. Incontra in confessionale un prete di fede grande e robusta, don Salvatore Magnasco. Diventerà Arcivescovo di Genova, e sarà per molti anni il suo direttore spirituale. Sarà da lui accompagnata in modo discreto e forte sulla via della carità e della santità.

Eugenia s’è fatta una ragazza bella, matura, istruita. Sotto la guida dello zio amministra ormai lei stessa il patrimonio della sua famiglia.



Sposare il marchese? Gli zii pensano al suo futuro. Tra i giovani che vorrebbero sposarla, c’è il marchese Giovanni B. De Ferrari. Le famiglie si incontrano. Ma Eugenia, che manifesta sempre più un temperamento forte e libero, ha altri pensieri. Quando compie 18 anni, sorprendendo tutti, chiede e ottiene l’ “emancipazione legale”. E’ un provvedimento che la rende libera di disporre del suo patrimonio. E prega ardentemente il Signore di indicarle la strada che dovrà percorrere nella vita.

Il 31 maggio 1863 (ha compiuto 18 anni da cinque mesi) entra nella chiesa di S.Sabina per pregare davanti al tabernacolo. C’è un prete che sta predicando. Le prima parole che Eugenia riesce a percepire sono queste: “Non ci sarà proprio nessuno, dunque, che vorrà dedicarsi totalmente a fare il bene per amore del Cuore di Gesù?”. Sente quelle parole come rivolte a lei personalmente, e inginocchiandosi davanti al tabernacolo dice: “Eccomi, Signore. Per tuo amore farò del bene a tutti quelli che incontrerò”.

Nell’ospedale di Pammatone e nell’ospizio dei Cronici, è tradizione che i giovani della migliore aristocrazia genovese portino generose offerte e prestino servizio di volontariato. Eugenia ed Elisa vanno a prestare servizio di carità.

Eugenia offre anche la sua collaborazione all’opera di S.Dorotea come assistente alle bambine del rione, e diventa insegnante di catechismo nella sua parrocchia del Carmine.

Fino a questo momento, Eugenia non è diversa da molte ragazze cristiane delle ricche famiglie genovesi. Ma ora fa un passo in avanti, un passo decisivo: apre la sua casa per dare istruzione e laboratorio di cucito e ricamo a quelle ‘ragazze del popolo malvestite e poco pulite’ che ha visto azzuffarsi e picchiarsi nelle viuzze strette. I parenti protestano come per una stranezza. Le signore del suo ceto cominciano a chiamarla ‘fanatica’. Ma lei parla col suo direttore spirituale, lascia dire e tira dritto.

Le cose lentamente cambiano. Ci sono altre ragazze che vogliono unirsi a lei nel dedicarsi alle ragazze abbandonate a se stesse, esposte ad ogni pericolo e ignoranti delle cose di Dio. Lei ci pensa. E intanto prega, si nutre dell’Eucarestia e della Parola di Dio nella Messa quotidiana. Nel 1867 (a 22 anni) fa il voto privato di verginità, scegliendo per sempre come suo sposo Gesù.

Quando nel 1868 muore la sua amatissima sorella Elisa (che si è sposata da appena tre anni), rompe gli indugi, e accetta in casa sua Adele, Carla ed altre giovani che formano con lei l’ “Associazione per il bene”. Hanno l’approvazione e la benedizione di mons. Magnasco, appena diventato Vescovo Ausiliare di Genova.

Eugenia ha 23 anni, e con l’aiuto delle nuove venute allarga il cerchio del bene: iniziano le scuole, le associazioni, le classi di catechismo, gli oratori. L’ Associazione diventa poco per volta la “Congregazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria”.



Attaccata velenosamente dalla stampa laicista. La spiritualità che Eugenia dà alla sua Congregazione si addensa su alcuni capisaldi: spirito di preghiera e di raccoglimento, fede che si traduce in opere concrete, fare delle giovani delle ‘oneste cittadine e delle sante per il Cielo’, avere una profonda comprensione per i limiti umani. Il sistema educativo è quello preventivo, diffuso da don Bosco.

Nel 1878 Eugenia, che ha già fondato diverse scuole elementari, si impegna in un’opera grande. Mentre i Governi dominati dalla massoneria sono impegnati nella progressiva laicizzazione dell’Italia, e fanno azioni apertamente ostili verso il Papa e verso la Chiesa, lei in apre in Genova una Scuola Magistrale ‘Normale’ Femminile, per preparare maestre cristiane. Per questo è attaccata velenosamente dalla stampa laicista. Ma in quella Scuola non si formano solo ‘maestre cristiane’, nascono anche nuove e numerose vocazioni.

La sua Congregazione è approvata dalla Chiesa nel 1882, e due anni dopo Eugenia, con le prime 18 suore, pronuncia i voti di perpetua consacrazione al Signore.

Nel 1892, un anno dopo la pubblicazione della Rerum Novarum di Leone XIII che invita i cattolici a impegnarsi fortemente per i lavoratori, Eugenia affronta notevoli sacrifici e umiliazioni per costruire, in piazza Carignano, la “Casa delle giovani operaie”. E nel 1898 (a 53 anni) sempre nello spirito della Rerum Novarum, fonda l’associazione S.Zita per l’assistenza e la promozione delle ragazze lavoratrici.

Nell’anno 1900, logorata dal lavoro instancabile per gli altri, Eugenia può dire: “Eccomi, Signore. Per tuo amore ho fatto del bene a tutti quelli che ho incontrato”. Si spegna il 30 dicembre, a 55 anni. Saluta la sue consorelle con le parole: “Vi lascio tutte nel Cuore di Gesù”.

Annibale di Francia, santo (1851-1927) Fondatore dei Rogazionisti e delle Figlie del Divin Zelo (3 pp) )
Disse al mendicante: “Verrò a trovarti”. Aveva 26 anni e non era ancora prete quando incontrò casualmente il mendicante Francesco Zancone. Era sano e ancora giovane, eppure tendeva la mano piagnucolando, ed era ridotto in uno stato miserabile. Gli chiese: “Dove abiti?” Si sentì rispondere: “Alla case Avignone”. Gli diede l’elemosina e gli disse: “Verrò a trovarti”.

Annibale Di Francia mantenne la parola. Ai margini della città trovò le file di casette solo con pianterreno, che il marchese Antonio Avignone aveva fatto edificare, e affittava per due o tre soldi al giorno ai mendicanti di Messina. Era uno dei quartieri più sottosviluppati. Poche centinaia di uomini, donne e bambini vi vegetavano nel sudiciume e nella promiscuità. Era un dominio incontrastato delle organizzazioni malavitose e degli sfruttatori di prostitute. Tutto vi era permesso.

Dopo che fu ordinato prete, padre Annibale chiese al suo vescovo il permesso di tentare qualcosa di bene tra quelle case. Il vescovo dubitava che si riuscisse a far qualcosa, ma lo lasciò tentare.

Tutti i giorni padre Annibale (di famiglia benestante e di mezza nobiltà) si recò tra quella gente. Gli interessavano soprattutto i bambini, che rischiavano di perdersi in quel ‘mare di fango’. Affittò alcune casette, una la trasformò in chiesa, e vi organizzò il catechismo serale per bambini e bambine. Dopo i bambini cercò di attirare le loro famiglie, facendole tornare alla confessione e alla Comunione. Trovò molte difficoltà.

Questo suo tentativo di cominciare una bonifica cristiana del quartiere Avignone non fu apprezzato, anzi fu ostacolato dai poveri stessi, e da alcuni che sembravano i cap9i del quartiere. Uno gli disse: “Padre, ve ne potete andare. Per convertire tutta questa razza di gente ci vogliono due Cappuccini, con tanto di barba. Non è roba vostra”.

In realtà quell’insegnamento del catechismo che faceva lentamente riscoprire agli emarginati la loro ‘dignità’, non era gradito ai notabili della città. Essi radicavano il loro potere e il loro vantaggio economico nello sfruttamento di quell’insieme di poveri disgraziati senza occupazione, sempre disposti ad eseguire i loro desideri per campare. Se alla scuola di padre Annibale avessero scoperto di avere dei diritti, si sarebbero rifiutati di venir trattati come ‘merce’. Ecco perché lo ritenevano un inopportuno, un insensato.

Padre Annibale andò a consultare padre Ludovico da Casoria, esponendogli ciò che cercava di fare e le difficoltà che incontrava. Il santo francescano gli disse: “Solo quando avrete accolto un povero, e l’avrete nutrito, pulito e vestito dalla testa ai piedi, e l’avrete soccorso almeno per un mese, solo allora potrete parlargli di confessione”.

Il lavoro, primo passo verso la dignità. Padre Annibale capì che doveva cominciare una bonifica ‘umana’, prima di passare a quella cristiana. Inizialmente ebbe l’aiuto del fratello Francesco, diventato anch’egli prete. In alcune casette prese in affitto allestì dei laboratori. Il lavoro, intuì don Annibale, doveva essere il primo passo per ridonare dignità a quei mendicanti e ai loro figli, il primo coefficiente della moralità. Le statistiche del tempo ci dicono che in Sicilia, su una popolazione di 2.392.414 abitanti, ben 1.112.776 erano senza una professione. I politici non affrontavano il problema. Molti preti “erano più amanti dei quieto vivere che del bene dei fedeli”(G.Pettinati).

“Il metodo pedagogico del Di Francia, per cui tutti i suoi assistiti erano impegnati in un lavoro e mai lasciati nell’ozio e nell’inattività, ebbe la sua importanza in un periodo i cui nel Sud tutti erano convinti che la cosidetta questione meridionale si sarebbe potuta risolvere solo con i ‘sussidi’ dello Stato, mentre, invece, era necessaria l’opera degli stessi meridionali per costruire un avvenire diverso” (P. Borzomati).

Accanto ai primi laboratori, padre Annibale aprì un orfanotrofio per le bambine e le orfane, e dopo un anno un orfanotrofio maschile per “ributtanti e discoli monelli “, come lui li chiamò.

Se non avesse avuto radici ben fondate nelle fede e nella preghiera, non avrebbe mai avvertito l’esigenza di donarsi con amore ai derelitti. Padre Annibale Di Francia, infatti, non sentiva un amore istintivo verso i derelitti. Parlando degli orfani ‘ributtanti e discoli’ confidò al canonico Celona: “Essi mi ripugnano immensamente, e mi furono per tanti anni di una sofferenza continua, indescrivibile”. Eppure la sua fede e il suo amore per quei poveretti in cui vedeva l’immagine del Cristo povero e sofferente fu così profondo che il vescovo di Oria, Antonio Di Tommaso, potè testimoniare: “Si vede che per lui stare a pregare dinanzi al tabernacolo, o predicare, o confessare, o spidocchiare un povero ributtante, o dare da mangiare o vestire un fanciullo derelitto è la stessa cosa”.

Di Francia ebbe bisogno di collaboratori. Chiese l’aiuto di alcune congregazioni, ma ebbe esito negativo.

Pregate quindi il padrone della messe”. Sin dall’adolescenza, prima ancora di leggerlo nel Vangelo, intuì la necessità e l’urgenza di chiedere al Signore gli operai per la messe delle anime. Sin da allora si trovò impegnato in prima persona a far conoscere il divino comando di Gesù: Pregate il padrone delle messe perchè mandi gli operai nella sua messe! Rivolse allora incessantemente, e fece rivolgere dai suoi orfani, una preghiera continua al Signore perché mandasse buoni operai alla sua Chiesa. Ripeteva a chiunque incontrava le parole latine del Vangelo: “Rogate ergo dominum messis, ut mittat operarios in messem suam”, “La messe è molta ma gli operai sono pochi. Pregate quindi il padrone della messe affinchè mandi operai alla sua messe”. Quando ebbe la possibilità di aprire il laboratorio di tipografia nel 1885, la prima preghiera che fece stampare cominciava con quelle parole: “Rogate ergo dominum messis…”.

Nel 1887 fondò personalmente una congregazione religiosa femminile, le ‘Figlie del Divino Zelo’, e dieci anni dopo quella maschile, i Rogazionisti (da quella loro costante preghiera ‘Rogate…’) del Cuore di Gesù. Malgrado defezioni tra i suoi figli e le sue figlie, le due congregazioni, sapientemente da lui guidate, si svilupparono e svolsero un’opera attenta e attuale.

La devozione della gente meridionale, colorita e rumorosa, cosparsa di processioni e di luminarie, non piaceva a molti vescovi mandati dal nord, che ne diffidavano. Padre Annibale invece, nato a Messina, la viveva e la ‘evangelizzava’. Affermava che occorreva solo interiorizzarla, renderla un mezzo per annunciare il Regno di Dio.

Un terrificante terremoto, il 28 dicembre 1908, trasformò Messina in un tappeto di rovine. Fece 80 mila vittime. Tra esse 13 Figlie del Divino Zelo. Padre Annibale vide le sue opere distrutte, ma badò specialmente ai suoi orfani, che trasferì a Oria (Brindisi) ben accolto del vescovo Di Tommaso.

Nella penisola, pur tra pungenti sofferenze, padre Annibale potè fondare altre opere. Le sue figlie e i suoi figli si fecero carico di orfanotrofi maschili e femminili, di tipografie e di altre fondazioni professionali. Furono, come il loro fondatore, dei ‘contemplativi itineranti’ al servizio degli emarginati, impegnati ad assicurare ai giovani un mestiere e un avvenire meno incerto.

Don Annibale morì il 1° giugno 1927. Il santo don Orione, quando lo seppe, disse: “E’ morto il San Vincenzo della Sicilia”.

Lo studioso Pietro Borzomati termina un suo denso studio su di lui con queste parole: “Annibale Di Francia fu un prete del Mezzogiorno, che si distinse dalla maggioranza dei suoi confratelli per esemplarità di vita e impegno per il bene comune. Egli avversò ogni alleanza con quel nobilato interessato a strumentalizzare la Chiesa e le sue istituzioni… Dopo la sua morte, grazie alle due congregazioni da lui fondate e rimaste sempre fedeli al suo messaggio, i suoi progetti ebbero una felice attuazione proprio nelle località del mondo fortemente sottosviluppate”.



Bakhita Giuseppina, santa (1869-1947) Canossiana. Da schiava a serva dei bambini (il testo deve stare in 4 pagine)
Una bambina rapita e venduta schiava. La “grande storia” di Bakhita co­minciò nel centro dell'Africa. La dettò lei stessa   su comando della sua superiora   nel 1910, cioè quando aveva circa quarant’an­ni. Era la storia di una bambina rapita e venduta come schiava. “La mia famiglia   raccontò   era formata da mio papà, mia mamma, tre fratelli e tre sorelle. Io ero gemella di una sorel­la. Da quando fui rapita non seppi più nulla di loro”.

Non ricordava né il suo nome, né l'anno in cui era nata. Il trauma del rapimento aveva cancellato ogni ri­cordo preciso, come un colpo di straccio da una lavagna. Da nomi sparsi che apparivano all'improvvi­so nel vari racconti si è potuto rico­struire che nacque nelle vicinanze di un monte (Agilere), nella regio­ne di Dafur, presso il villaggio di Ogossa. Apparteneva quindi alla nazione del Sudan, vicino alla fron­tiera del Ciad, dove le bande degli schiavisti arabi scendevano rego­larmente dal nord a far razzia nel villaggi senza difesa.

Piccola schiava. Aveva otto o nove anni, Bakhita, quando una mattina usci con una compagna a raccogliere piccoli cespi di erba gir-gir, di cui tutti i ragazzini erano ghiotti. Ed ecco sbucare due uomini stranieri alti e robu­sti. Lasciarono andare la ragazza più grande, poi uno impugnò un grosso coltello, lo puntò alla schie­na di Bakhita e le intimò: “Vai avanti. Se gridi sei morta”. La bam­bina, tremante dalla paura, ubbidì. Da quel momento era diventata una piccola schiava. Bakhita per­corse a piedi scalzi qualcosa come 600 chilometri. Un'impresa tre­menda per una ragazzina. Fu du­rante le prime ore di quella marcia che uno dei due energumeni le do­mandò: “Come ti chiami? Qual è il tuo nome?”. Paralizzata dalla paura, la bambina non rispose. Allora il negriero, ridendo, disse: “Bakhita, la chiameremo Bakhita”, che nella lingua locale significa ‘fortunata’.

“Ero stanca morta – racconta -.Avevo i piedi e le gambe sanguinanti”.». All'alba arrivarono al villaggio dei due negrieri. Chiusa a chiave in un ripostiglio della casa, stette lì più di un mese. Una mat­tina il padrone la vendette a un mercante di schiavi che passava con la sua carovana diretto a un lontano mercato. Incatenati c'erano tre uomini e tre donne,

libera da catene una bambina più o meno dell'età di Bakhita. Fu la sua prima compravendita. Ne avrebbe contate sei. Tra le due fan­ciulle fu subito amicizia. Si conso­lavano a vicenda, e sognavano di fuggire insieme per tornare a casa. L’occasione si presentò dopo una settimana. Erano in sosta ed era se­ra. Mentre le fanciulle dovevano da­re da mangiare a un mulo, i pa­droni si allontanarono per cenare. Gli altri erano legati, loro no. «Uno sguardo all’intorno e via di corsa verso l'aperta campagna, con la so­la velocità delle nostre povere gam­be   narra Bakhita  . Tutta la notte fu una continua e trepidante corsa dentro i boschi e per il deserto. An­santi a trafelate sentivamo nel buio i ruggiti delle fiere. Al loro appros­simarsi, saltavamo sugli alberi per salvarci”.

L’uomo cattivo che le vendette. Il giorno dopo vedono una casu­pola, un uomo sbarra loro la stra­da. Chiede dove vadano. «A casa». «E dov'è la vostra casa?». Indicano la parte dove tramonta il sole: «Là». «Venite a mangiare. Poi vi porterò io a casa». A Bakhita sembra di so­gnare. Che abbiano trovato una persona buona? S'inganna amaramente. Vengono vendute a un mer­cante dí schiavi che passava con la sua carovana di neri incatenati a due a due. La carovana sostò a El Obeid, uno dei grandi mercati di schiavi. Bakhita e la sua piccola ami­ca furono com­prate da un ricco arabo, che le regalò alle sue figlie. Queste le trattavano bene, ma un loro fratello era violento e crudele. Un giorno Bakhita, nell'eseguire un comando, lasciò cadere per terra un vaso che si ruppe. Quel gio­vinastro fu preso dalla furia. Impu­gnò lo scudiscio e la percosse fin quasi ad ammazzarla. Bakhita ri­mase più di un mese sul suo pove­ro giaciglio. Tre mesi dopo fu venduta, perché il figlio del ricco arabo non la voleva più vedere.

La comprò un ricco generale turco, che la mise al servizio di sua ma­dre e di sua moglie. Erano donne viziate e crudeli, sempre con la fru­sta in mano. Bakhita con altre gio­vani schiave doveva vestirle, profu­marle e obbedire a ogni loro cenno. Guai a tardare di un secondo: le frustate arrivavano inesorabili.

Era norma che a una certa età, gli schiavi venissero tatuati secondo la fantasia delle padrone. Il giorno fis­sato arrivò. Racconta Bakhita: “Vie­ne una donna esperta in questa crudele arte. Si fa portare un piat­to di farina bianca, uno di sale e un rasoio. Ordina alla prima di noi tre di distendersi per terra e a due schiave di tenerla ferma. Allora si curva su di lei e comincia a fare sul corpo di quella disgraziata una ses­santina di segni fini. Poi prende il rasoio e incide un taglio su ogni se­gno che aveva tracciato. La poveri­na geme, il sangue stilla da ogni taglio. Finita questa operazione, prende il sale e con forza stropiccia ogni ferita perché vi entri e ne tenga i labbri aperti. Che spasimo! Tre­mava tutta l'infelice, e io pure. Portata via la prima sul suo giaciglio, viene il mio turno... Mi pareva di morire a ogni momento, specialmente quando mi stropicciò col sale... Per più di un mese tutte e tre fummo condannate ­a stare là, distese sulla stuoia... Posso proprio dire che non sono morta per un miracolo del Signore che ­mi destinava a migliori cose».

Il generale turco, dopo mesi di lontananza, decise di tornare in patria. Lui, la sua famiglia, i suoi schiavi ­lasciarono il Kordofan (di cui El Obeíd era il capoluogo) e a dorso di cammello giunsero a Khartum, la capitale del Sudan. Comprata da un console italiano. Lì il genera­le vendette i suoi schiavi. Bakhita fu comprata dal console italiano Calisto Legnani. Per due anni Bakhita rimase tra le domestiche del console. «Il nuovo padrone era assai buono: non ebbi rimproveri, né castighi, né percos­se, sicché non mi pareva vero di go­dere tanta pace”. E’ da notare che negli anni di schiavitù e nei due an­ni di servizio al console, Bakhita non sentì mai par­lare di Dio, di Gesù Cristo, della Madon­na.

Nel 1885 il console fu richiamato in Italia per gra­vi affari e Bakhita, pen­sando che non avrebbe trovato mai più un padro­ne così buo­no, lo pregò di condurla in Italia con lui. Col console viaggiava anche un suo amico, Augusto Michieli. All’arrivo a Genova c’erano ad aspettarli alcuni amici del Console e la signora Maria Turina, moglie del Michieli. Quando la signora Turona si accorse di Bakhita, si lamentò col marito perché non aveva portato con sé una ‘moretta’, e tanto disse che il Console si trovò quasi costretto a cederle Bakhita. “Coi miewi nuovi padroni ci avviammo a Mirano Veneto, dove per tre anni fui la bambinaia della loro figliolina”.

I nuovi padroni erano praticamente atei. Alla loro bambina avevano comunque insegnato il ‘Padre Nostro’, l’ ‘Ave Maria’ e il Gloria. La bimba insegnò le preghiere anche alla sua mammina nera, per recitarle poi insieme. Nessuno delle due capiva il significato di quello che dicevano, ma Bakhita le ripeteva anche da sola durante il giorno, e vi trovava un a strana dolcezza.

Dopo tre anni, la famiglia Michie­li Turina decise di stabilirfsi a Suakin, in Afri­ca, dove Michieli, ritornatovi quasi subito, aveva aperto un grande albergo. Più volte an­darono e tornarono dal continente nero per i preparativi. Nel frattempo ottennero che Bakhita fosse ospitata presso l'Istituto dei Catecumeni delle Suore Canossia­ne a Venezia. La signora Turina, la­sciandola, le disse: «Questa è ora la tua casa».

Il sovrintendente ai beni della fa­miglia, il signor Illuminato Checchini, profondamente cristiano, regalò alla giovane nera un crocifisso d'ar­gento. «Nel darmelo lo baciò con devozione   ricorda Bakhita  , poi mi spiegò che Gesù, Figlio di Dio, era morto per noi. Io non sapevo chi fosse, ma spinta da una forza misteriosa lo strinsi a me. Nasco­stamente lo guardavo... Venni affi­data a suor Marietta. Ella mi do­mandò se volevo diventare cristia­na. Avendole risposto che lo desideravo, s'il­luminò di gioia... Quelle sante ma­dri mi fecero conoscere quel Dio che fin da bambina sentivo in cuo­re. Ricordavo che, vedendo il sole, la luna e le stelle, le bellezze della natura, dicevo tra me: Chi è mai il padrone di queste belle cose?».

Prima della partenza definitiva per l'Africa, la signora Turina voleva riprendere Bakhita con sé. Disse con durezza alle suore che si opponevano: «E’ mia schiava! Essa mi appartiene, e nes­suno può costringermi a darle la li­bertà». Dovettero far intervenire il Procuratore del Re. Egli sentenziò: «Siamo in Italia, dove la schiavitù non esiste ed è proibita. Solo la fan­ciulla può dirmi cosa desidera fare in piena libertà». Bakhita disse: «Io voglio bene alla signora, ma io non uscirò di qui, perché non voglio perdere il buon Dio». E scoppiò a piangere. Il Procuratore in nome della legge la dichiarò libera. Era il 29 novembre 1889.

Le bimbe la credevano sporca. 9 gennaio 1890. Bakhita riceve il battesimo, la prima Comunione e la Cresima.

Ha ormai superato i 20 anni quando domanda dì entrare definitivamente tra le Suore Canos­siane. Va e rimane a Schio per 50 anni, cioè la vita intera, chiamata da tutti «Suor Moretta».

Nei primi tempi, quando fu incaricata di badare al­l'asilo che sorgeva presso il convento, ci fu per lei qualche momento di mortificante sofferenza. In quegli anni, quasi nessuno in Italia aveva incontrato una persona di pelle nera. I bambini (che ‘suor Moretta’ adorava) scambiavano il nero delle sue mani e della sua faccia con lo sporco. Una bambina si spostava se lei accennava a sfiorarle la testa con una mano. «Non ho le mani sporche, sai - le diceva sorridendo dolce­mente -, solo che il sole africano mi ha fatto diventare nera». Un'altra bimba, con l'ingenua crudeltà dei suoi pochi anni, le disse: «Sei tutta sporca. Domani ti porterò il sapo­ne per lavarti». E lei: «E’ il Signore che mi ha fatto proprio così. Ricor­dati, toseta, che questo non xe el nero che sporca. Quelo che sporca a xe il pecato nell'anima, e ti sta atenta a no farlo mai».

Anche una sua giovane consorella, che istintivamente identificava i ‘neri’ con i ‘selvaggi’, incontrandola di sera in un corridoio buio, rabbrividì. Ricono­sciutala, subito le chiede scusa: «Mi perdoni, madre. Ma è così nera!». Bakhita sorrise: «Ma l'anima è bianca. E poi al buio non è bianca nemmeno lei!».

Le voleva­no bene gli abitanti di Schio, che le af­fidavano i loro bambini e la consi­deravano una santa.

Già anziana, possedeva soltanto la corona e il crocifisso. Aveva un amore tenerissimo per la Madonna, Immacolata e Addolorata. Recitava in continuazione il Rosario. Una consorella che l’assisteva le domandò quanti ne recitasse al giorno, e lei rispose: “Non lo so. Li conta il Padrone, e anche la Madonna lo aiuta a contarli, perché il rosario è della Madonna”.

Dio le venne incontro l'8 febbraio 1947.

Giovanni Paolo II, dichiarandola santa, la proclamò «sorella universale».



Yüklə 0,58 Mb.

Dostları ilə paylaş:
1   2   3   4   5   6   7   8   9   ...   14




Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©genderi.org 2024
rəhbərliyinə müraciət

    Ana səhifə