Dottrina sociale della chiesa


Fratel Teodoreto Garberoglio, venerabile (1871-1954) F



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Fratel Teodoreto Garberoglio, venerabile (1871-1954) Fondatore dell’ ‘Unione dei Catechisti di Gesù Crocifisso e di Maria Immacolata’ e dei Centri di formazione professionale ‘Casa di Carità’ Arti e Mestieri (3 pp)
Suonava la chitarra e amava le tortore. Alla fine dell’estate del 1887, dal paese di Vinchio partì per Torino un ragazzotto di 16 anni. Andava a diventare Fratello delle Scuole Cristiane. Si chiamava Giovanni Garberoglio e aveva quattro buone qualità: era un suonatore di chitarra, allevava le tortore, andava a Messa tutti i giorni con la madre, e aveva la passione di fare il catechismo.

Nel noviziato (tempo di formazione) per dire a tutti che cominciava una vita nuova, cambiò il nome di Giovanni in Teodoreto, un nome greco molto usato dai primi cristiani che vuol dire ‘Dono di Dio’. Fu un anno di raccoglimento e di studio, in cui Giovanni si radicò nella consacrazione al Signore.

Terminato l’anno di formazione, i Superiori lo richiamarono a Torino. Vi sarebbe rimasto per tutta la vita. Lo mandarono insegnante nella casa religiosa di S. Pelagia. Era la sede centrale delle scuole elementari gratuite dei Fratelli in Piemonte. Vi viveva un grande numero di giovani Fratelli che ogni mattina sciamava nelle numerose sedi periferiche, affollate di ragazzini del popolo. Si chiamavano ‘Scuole della Regia Opera della Mendicità Istruita’ (ROMI).

Teodoreto di anno in anno si rivela un ottimo maestro e un ottimo religioso. E i Superiori gli affidano incarichi di sempre maggiore responsabilità.

Nel 1910, a 39 anni, Fratel Teodoreto è nominato Direttore della Scuola di S. Pelagia. Da quel giorno egli deve fare oggetto delle sue sollecitudini non più solamente i bambini, ma i tanti Fratelli che vivono nella casa. Scrive al Superiore: “Il peso impostomi dall’obbedienza non è piccolo. Ma vedo che non sono solo a portarlo, anzi Gesù lo porta tutto lui”. Anni dopo, qualcuno ricordava: “Tutti eravamo contenti nella sua Comunità. Egli non si imponeva a nessuno, e anzi, il bello sta qui, che le cose pareva corressero bene da sole”.

In quegli anni lo scontro tra Chiesa e Stato era durissimo. Dominato dai massoni (come oggi si può leggere nei documenti) il Governo tentava di eliminare la religione cattolica dall’Italia. Uno dei tanti modi era eliminare le scuole cristiane. Scrive Fr. Teodoreto: “Nell’anno scolastico 1911-12 mi trovavo nel grave pericolo di veder tolta alla nostra scuola la ‘parificazione legale’, e con essa il diritto di far dare in casa gli esami ai mille e cinquanta alunni delle scuole elementari”.



Il frate cuoco che parla con il Signore. Ed ecco inserirsi nella sua vita un elemento nuovo, che la cambierà notevolmente. Scrive: “Nel novembre 1911, si presentò a me una terziaria francescana che mi diede un foglio con sopra una Preghiera-Consacrazione a Gesù Crocifisso. Mi disse che era stata scritta da un frate che parlava familiarmente con Gesù. E aggiunse: ‘Se ha bisogno di qualche grazia importante, reciti quotidianamente questa Consacrazione e vedrà la sua efficacia’. La misi subito alla prova, e la ‘parificazione legale’, contro ogni previsione, fu confermata in brevissimo tempo”.

A questo punto, in Teodoreto nacque il desiderio di conoscere quel frate privilegiato da Dio, e riuscì ad incontrarlo. Si chiamava frate Leopoldo (il nome civile era Luigi Musso), ed era il cuoco cinquantenne e umilissimo del convento francescano di S.Tommaso, in via Pietro Micca, a Torino. Affermava che, mentre pregava, il Signore aveva la bontà di parlargli, di indicargli le cose che doveva fare. Da alcuni suoi confratelli era considerato un ‘visionario’. I Superiori, per evitare ogni accusa di superstizione, cercavano di tenerlo isolato.

Fratel Teodoreto si incontrò con lui il 30 ottobre 1912, e ne ebbe un’impressione straordinaria. Tornò diverse volte a incontrarlo. Sotto la sua ispirazione, diede corso a tre opere, il cui progetto portava nel cuore da tempo: un istituto di perfezione per laici, la formazione professionale e religiosa dei lavoratori, l’animazione di ogni opera nell’amore di Gesù Crocifisso.

Il 23 aprile 1913 raduna il primo nucleo di allievi delle scuole, incitandoli ad una vita profondamente cristiana, anche dopo gli anni di scuola, e a diffondere nel mondo l’Adorazione a Gesù Crocifisso per nostro amore. Il gruppo si ingrandisce quasi prodigiosamente, e il 18 gennaio 1915 (mentre è in corso la terribile prima guerra mondiale) Papa Benedetto XV manda a Fratel Teodoreto una sua foto con queste parole: “Preghiamo il Signore di colmare di grazie il direttore e gli ascritti alla Pia Unione del SS.mo Crocifisso, perché i sacerdoti con la voce e con l’esempio, e i secolari con la santità della vita debbono sempre predicare, come esorta san Paolo, Gesù Cristo crocifisso”.



Nel 1917 l’Unione è presente in 15 parrocchie di Torino. Alcuni elementi tra i migliori vengono mandati da Fratel Teodorico nei paesi della cintura torinese a fare il catechismo ai più piccoli, e l’associazione assume la forma definitiva dell’ “Unione Catechisti di Gesù Crocifisso e di Maria Immacolata”. Aiutata dai Fratelli delle Scuole Cristiane, questa Unione di laici si diffonde rapidamente con sedi a Biella, Vercelli, Parma, Piacenza, Milano, Massa, Roma, Genova, Napoli, Catania. Attualmente, oltre che a Torino, annovera sedi anche ache in Africa e nell’America del Sud. Fratel Teodoreto fa in maniera che fin dall’inizio i catechisti siano diplomati dall’Ufficio Catechistico Diocesano, si mettano a disposizione dei parroci per i catechismi domenicali e quaresimali, e soprattutto siano i maestri amorosi e competenti di catechismo nelle scuole operaie festive, serali e diurne. Nel 1948 l’Unione Catechisti viene approvata come ‘Istituto Secolare’, uno dei primi ad essere sorti. Esso si compone di ‘Catechisti Consacrati” che seguono i consigli evangelici con i voti di povertà, castità e obbedienza, e attendono, nelle ore libere dalle loro professioni, alle opere di apostolato; e di ‘Catechisti Associati’ che, da sposati o orientati al matrimonio, vivono lo spirito dell’Istituto. Questo spirito è “essere santi, e annunciare il Signore con la presenza e la parola in tutti i settori: dalla famiglia al lavoro, dall’impegno sociale a quello politico, dall’insegnamento scolastico e professionale al soccorso dei poveri, dall’insegnamento catechistico all’orientamento vocazionale”. Fr. Teodoreto ha sviluppato l’intuizione del suo fondatore, S.G.B. de la Salle, della consacrazione mediante la missione dell’insegnamento, estendendola a quella della consacrazione operando nel mondo.

Casa di Carità. L’opera che ha segnato il vertice dell’attività cristiana di Fratel Teodoreto è la Casa di Carità Arti e Mestieri. Anche questa fu ispirata dall’umilissimo fra’ Leopoldo. Il 24 novembre 1919, appena terminata la terribile prima guerra mondiale che aveva portato violenza e scristianizzazione in tutta l’Europa, egli scriveva semplicemente, attribuendo questa dichiarazione a Gesù Crocifisso: “Per salvare le anime, per formare nuove generazioni, si devono aprire Case di Carità, per far imparare ai giovani Arti e Mestieri. Lo vuole il Signore”. E Teodoreto ne comincia la realizzazione. Nel 1920 i Catechisti, insieme ai Fratelli di S.Pelagia, iniziano corsi serali di tipo professionale. Nel 1925 i Catechisti aprono un’altra scuola professionale per gli operai giovani e grandi, completamente gratuita. Funziona nelle domeniche, perché negli altri giovani gli operai lavorano 10 ore al giorno. I primi imnsegnanti sono Catechisti, professori universitari, professionisti,che prestano la loro opera domenicale gratuitamente. “In pochi anni – ricordava Fratel Teodoreto – quella Scuola Festiva si sviluppò tanto da obbligare i Catechisti a cercare un locale più ampio per contenere tutti i giovani che insistevano per esservi iscritti”. In pochi anni gli alunni-operai salirono da 370 a 800. Era il 1939, e si dovette costruire una casa ancora più grande, con tante spese e tanta fiducia nella Provvidenza. Oltrechè festiva, la scuola divenne prima serale e poi diurna. Attualmente in Piemonte comprende 13 sedi, oltre la partecipazione in due Centro professionali, tra cui il CFPP-Casa di Carità che fa formazione ai carcerati in 13 case circondariali (una missione che risale al de la Salle). E si è trapiantata in Veneto, Sardegna, Perù. Questo spirito missionario anima ancor oggi l’opera: attraverso al formazione professionale cerca di infondere nei giovani i valori cristiani, che li guideranno nella professione e nella vita. La sua proposta formativa, basata sul lavoro come forma di cultura, è l’annuncio evangelico insegnando il lavoro.

Il 13 maggio 1954 fratel Teodoreto se ne andò silenziosamente con Dio. Il 3 marzo 1990 fu dichiarato Venerabile. Le sue opere continuano ad essere il buon lievito evangelico che cerca di fermentare cristianamente il mondo, in particolare quello del lavoro, animandolo nell’amore al Crocifisso e all’Immacolata.



Luigi Orione, santo (1872-1940) Fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza. (testo in 3 pagine)

Sotto l’ombrellone, a selciare le strade. Nell'ottobre del 1886 entrò nell’Oratorio di don Bosco a Valdocco in Torino, un ragazzino di Pontecurone (Ales­sandria), figlio di un povero selciatore di strade. Si chiamava Luigi Orione. Quando aveva solo dieci anni, per aiutare la famiglia poverissima, aveva lasciato la scuola e si era andato a inginocchiare vicino al papà, nella sabbia umida, a mettere l'una accanto all'altra le pietre che selciavano le strade delle città. Bisognava ordinarle, e spinger­le nel terreno con piccoli colpi di un martello di legno.

Era un lavoro pericoloso per tutti, specialmente per i ragazzi, perché l'u­midità della sabbia dai ginocchi saliva in tutto il corpo, e faceva ammalare e morire di artrite. Eppure bisognava farlo per tirare avanti la famiglia. An­che quando pioveva, e attraverso le pietre ruscellava l'acqua, rannicchiato sotto un grande ombrellone Luigi Orione metteva le pietre nel terreno e le picchiava delicatamente col martello di legno.

Un giorno, mentre lavorava così sotto l'ombrello, sì fermò vicino a lui un mendicante smunto e tremante. Mentre l'acqua gli rigava la faccia, tese la mano e disse: “La carità, per amor di Dio”.

Luigi, 10 anni, fu come ipnotizzato da quella miseria. Si alzò, andò a pren­dere il panino che aveva ravvolto nella giacca perché non si bagnasse, e lo diede a quel poveretto. Poi gli tenne l'ombrello aperto sulla testa. E siccome, mangiando, il povero aveva ripreso ad andare per la sua strada, Luigi si mise a seguirlo sempre tenendo l'ombrello aperto. Aveva fatto duecento metri, quando il padre gli gridò: “Luigi! Ma dove vai?”. Il ragazzino fu come ridestato da quel richiamo, e chiedendo scusa al men­dicante tornò indietro. “Ma dove stavi andando?” gli domandò il padre irritato. Luigi non rispose. Non sapeva. Ma dietro quei sotto-poveri sarebbe an­dato per tutta la vita.

Siccome era molto buono, il parroco l'aveva fatto accettare dai france­scani di Voghera. Ma si era ammalato e aveva dovuto tornare a casa. Allora il parroco si era rivolto a Don Bosco, e Luigi era stato accettato nella scuola di Valdocco, a Torino.

Il ragazzino e il vecchio prete. Quando Luigi arrivò, don Bosco era vecchio e stava vivendo gli ultimi bagliori della sua vita. Consumato dai viaggi e dai debiti, scendeva raramente tra i suoi ragazzi. Camminando adagio scherzava, domandava, rispondeva, s'interessava di tutti. Aveva un sorriso e un amore che nessuno avrebbe mai dimenticato.

Luigi rimase affascinato, incantato da don Bosco. Appena lo vedeva da lontano, lo salutava gridando, agitando il suo berretto, e gli correva vicino. Tra il vecchio settantunenne e i1 ragazzino di Pontecurone era scattata una scintilla che avrebbe bruciato nel cuore di Luigi per tutta la vita.

Aveva un grande desiderio, Luigi: confessarsi da don Bosco, e decise di prepararsi seriamente. Prese uno dei cartelli appesi vi­cino ai confessionali (che allora esistevano, ed elencavano tutti i peccati pos­sibili per aiutare la gente a fare un buon esame di coscienza). Per essere sicu­ro di confessarsi bene, ricopiò tuttì i peccati, si accusò di tutto. Riempì tre quaderni di peccati. A una sola domanda rispose di no: «Hai ammazzato?». «No – scrisse - questo no».

Coi quaderni ben stretti in tasca andò da don Bosco, attese il suo turno, e s'inginocchiò. Don Bosco lo guardò, gli sorrise con amore e con un pizzico di allegria:

- Bravo, Luigi. Sono contento che sei venuto. E adesso dammi ì tuoi peccati.

Luigi cadde dalle nuvole. Come sapeva don Bosco che... Ad ogni modo tirò fuori il primo quaderno. Don Bosco lo prese, lo stracciò e lo gettò nel cestino. Poi sempre sorridendo: - E adesso dammi anche gli altri. Luigi tirò fuori anche gli altri due. Fecero la stessa fine. A questo punto don Bosco gli sorrise con un affetto che Luigi non avrebbe mai dimenticato, e disse:

- La tua confessione è fatta. Non pensare mai più a quello che hai scrit­to. E ricordati che noi due saremo sempre amici. Sempre amici.

Quando, dopo una notte passata a pregare e a piangere sulla tomba di don Bosco, capì che lui lo voleva a capo di una Congrega­zìone per i ragazzi sotto-poveri, gli obbedì.

Entrò in seminario, ma nel 1892 suo padre morì. La sua povera mamma non aveva certo i soldi per pagare la retta del seminario. Luigi si diede da fare e ottenne il posto di aiuto-sacrastano nel duomo di Tortona. Gli danno un piccolo mensile (22 lire) e gli permettono di dormire in una stanzetta ricavata sopra la volta del duomo.

Un giorno, in sacrestia, il chierico Orione incontra in ragazzo, Mario Ivaldi, che piange. Disturbava durante l’ora di catechismo, e il viceparroco gli ha dato un ceffone e l’ha cacciato fuori. Luigi lo calma, lo fa salire nella stanzetta sul voltone del duomo, e riprende il catechismo interrotto.Poi gli mette in mano una manciata di fichi secchi e di carrube (le caramelle dei poveri), e gli dà l’appuntamento per il giorno dopo. “Vedrai che getteremo una buona semente per te e per me”.

Il giorno dopo Mario ritorna, ma non è più solo. Porta amici. Orione mette a disposizione ciò che ha: la sua stanzuccia, alcuni attrezzi di ginnastica, costruisce persino un’altalena. Dieci, venti, trenta ragazzi. Un putiferio indiavolato tra i voltoni del duomo. Grida, corse, capriole. Il baccano fa saltare i nervi a certi canonici che vogliono star tranquilli. Cominciano voci cattive, velenose. “Quel chierico che gira per Tortona con bande di ragazzi, sarà a sposto nella testa?”. Orione viene sfrattato coi suoi ragazzi. Si riuniscono in una piazzetta, dove giocano, cantano, pregano. Il Vescovo, a cui piace il chiasso vivo dei ragazzi, non li sente più. Chiede notizie. E’ informato dello sfratto e chiama il suo chierico: “Luigi, tu hai bisogno di un posto per i tuoi ragazzi, e io ho un giardino che non serve a niente. Te lo regalo. Fanne un oratorio. Orione balla dalla gioia: ha il luogo e il permesso di fare il primo oratorio della diocesi di Tortona. Se ci fosse qui Don Bosco a vederlo…

Ci vogliono soldi, molti soldi”. Nel 1893 Luigi Orione ha 23 anni, e glie ne mancano ancora due per diventare prete. Ma tra i suoi ragazzi c’è già qualcuno che gli dice: ”Mi piacerebbe diventare come te, diventare chierico, prete per i ragazzi poveri”. Diventare come lui vuol dire entrare in seminario, pagare una retta mensile: cosa che nessuna famiglia di quei ragazzi può permettersi. Orione pensa: “Perché non aprire una casa, una scuola per i ragazzi poveri che vogliono diventare preti?”.

Ne parla col Vescovo che gli sorride: “Ma lo sai cosa ci vuole per aprire e mandare avanti una scuola come la pensi tu? Ci vogliono soldi, molti soldi. Tu non ce li hai, io non ce li ho. Quindi…”. Orione è testardo: “Lei mi dia soltanto l’approvazione e la benedizione. Al resto penserà la Provvidenza”. Il Vescovo gli dà sempre l’una e l’altra. E sorride: “Vediamo cosa combinerai”.

Orione ne combina tante di cose. Dopo due ore ha affittato una casa per la prima scuola, ha pagato il fitto per un anno, ha accettato i primi due ragazzi.

E con un crescendo incredibile durante la sua vita fonderà duecento case: centri di formazione professionale, scuole agricole, scuole apostoliche, orfanotrofi, case di riposo, missioni, eremitaggi…”Evangelizzare i poveri, i piccoli e gli afflitti da ogni male e dolore” sarà la strada sua e dei suoi.

Nello stesso giorno in cui dice la sua prima Messa (13 aprile 1895) consegna l’abito da chierico ad alcuni dei suoi ragazzi. Nasce così la sua Congregazione: la Piccola Opera della Divina Provvidenza. Egli sentiva “l’importanza vitale del rapporto della Chiesa con il mondo operaio. La sua congregazione si radicò nei sobborghi più poveri ai margini delle grandi città industriali, con l’impegno di vivere piccola e povera tra i piccoli e i poveri, sperimentando la fraternità con gli operai e i lavoratori più umili” (A.D’Angelo).

Don Orione se ne andò, quasi in punta di piedi, nella sera del 12 marzo 1940. L’infermiere che lo assisteva lo aveva appena sentito mormorare: “Gesù, Gesù”.

Don Giovanni Calabria, santo (1873-1954) fondatore dei Poveri Servi e delle Povere Serve della Divina Provvidenza. (testo in due pagine)
Sfrattati dalla soffitta. Nacque a Verona in una povera soffitta, dove alloggiavano papà Luigi ciabattino, mamma Angela lavandaia e due fratellini. Sopravvivevano perché aiutati dalla Conferenza di San Vincenzo. Anche da quella soffitta la famiglia Calabria fu sfrattata, e il parroco don Scapini non ci pensò due volte, e li ospitò in due locali che ricavò dal ‘matroneo’ della sua chiesa.

Mentre Giovanni frequentava le elementari, suo papà morì, e dovette interrompere la scuola per dare una mano alla famiglia. Ma don Scapini, che vedeva ogni giorno la sua bontà e il suo impegno, lo preparò per gli esami di ammissione al liceo vescovile. Vedeva in lui una buona vocazione sacerdotale.

Il liceo dovette interromperlo per il servizio militare. Quando tornò ebbe la grazia di incontrare in confessionale il carmelitano padre Natale di Gesù, che per quarant’anni sarebbe stato la sua guida spirituale forte e dolce.

Aveva 24 anni quando, in una fredda notte del novembre 1897, trovò accovacciato davanti alla sua porta un bambino fuggito da un campo di zingari. Lo fece entrare nella sua casa. Subito dopo diede ospitalità a un altro ragazzo, orfano di 13 anni, che non sapeva dove sfuggire al freddo. Li fece ospitare in un istituto della città, e quella fu la prima volta che pensò di dedicare la vita ai ragazzi abbandonati.

Nei quattro anni di studi teologici che lo prepararono a diventare prete, trovò molte difficoltà. Era ammirato da tutti i suoi professori per la bontà e lo spirito di preghiera, ma agli esami aveva voti scarsi. Davanti alla perplessità dei professori, il Vescovo, Cardinale Bacilieri, disse: “Abbiamo fatto tanti preti dotti. Proviamo a farne uno santo”.

Nel 1901, mandato vicario nella parrocchia di S.Stefano, cominciò a raccogliere gli spazzacamini che scendevano in città dalle campagne vicine per guadagnarsi il pane con quel duro mestiere. Nella piccola casa che abitava con la mamma in Vicolo Fontanelle ospitò i primi fanciulli poveri.

Sei anni dopo, trasferito come rettore alla chiesa di S.Benedetto al Monte nel centro di Verona, si occupò dei soldati di leva, degli ammalati nell’ospedale militare, e specialmente gettò le basi dell’Opera con cui voleva prendersi cura in modo stabile e completo dei ragazzi abbandonati. La chiamò ‘Casa Buoni Fanciulli’. Il numero dei ragazzi in necessità crebbe in poco tempo, e la ‘Casa’ dovette essere trasferita nel 1908 a S.Zeno in Monte. Si unirono a lui dei laici desiderosi di condividere la sua esperienza di povertà e assistenza ai ragazzi abbandonati. Tra di loro si chiamavano Fratelli.

Sorse così il primo nucleo della Congregazione che porta il nome di “Poveri Servi della Divina Provvidenza”. Don Calabria non si considerò mai in fondatore, ma il “custode”. La formazione dei giovani era da lui curata quotidianamente con il metodo familiare di Don Bosco, chiamato ‘sistema preventivo’, in cui lui credeva a occhi chiusi.

Per essere all’ultimo posto”. Nel 1910 diede inizio, con lo stesso spirito, al ramo femminile della sua Congregazione, le “Povere Serve della Divina Provvidenza”. La formazione che egli diede a queste ‘sorelle’ (come le chiamava) si può sintetizzare in queste sue parole: “Dobbiamo ricordarci che ci si fa religiosi non per il nostro comodo, ma per servire Gesù nella persona dei poveri, e per obbedire a Gesù nella persona dei superiori. Non ci si fa religiosi per avere un posto, ma per essere sempre all’ultimo posto”.

L’anno dopo (aveva 38 anni) il Vescovo lo dispensò da ogni altro ministero nella diocesi: poteva dedicarsi totalmente alle sue fondazioni. Egli ebbe un momento di smarrimento. Si sentiva “uno strumento povero e inetto nelle mani di Dio”. Non si sentiva capace di portare avanti quelle opere. Un altro avrebbe fatto molto meglio di lui. Ma padre Natale, con cui si consigliò, gli disse con decisione che quella era la volontà di Dio. Era quindi inutile ripensarci.

Da quel momento fino alla morte, don Calabria ‘ubbidì alla volontà di Dio’.

Accanto alle scuole fece nascere laboratori professionali, e le sue opere si moltiplicarono: Vicenza, Este, Santuario della Madonna di Campagna, Verona colle Nazareth (dove si preparavano i futuri sacerdoti). Nuove case si aprirono ancora a Roma,Verona, Milano, Ferrara.

Egli considerava come ‘sua ricchezza’ e come suo ‘fondo di cassa’ i ragazzi abbandonati che venivano raccolti nei suoi istituti. Riponeva la sua fiducia solo in Dio. Teneva i collegamenti con i suoi religiosi non solo girando per le varie case, ma spedendo frequenti lettere circolari. In esse si coglieva e si coglie ancor oggi il suo spirito. Si legge: “L’Opera sarà tanto più cara a Dio quanto più sarà umile e nascosta”. “Uno dei più grandi pericoli per noi saranno i troppi soldi, i troppi mezzi. Gesù non ha detto ‘Senza denari e senza mezzi non potete far nulla’. ma ‘Senza di me non potete far nulla’ ”. “Sarete ricchi se sarete poveri, grandi se sarete piccoli”.

Don Calabria, che nella giovinezza aveva sentito tanto il bisogno di essere consigliato, negli anni dopo la seconda guerra mondiale divenne una delle persone più consultate. Anche Vescovi, Cardinali, Superiori religiosi chiedevano il suo consiglio. Un suo libro, Apostolica vivendi forma, divenne uno dei volumi più letti dalle persone religiose.

L’ultima malattia lo fece soffrire moltissimo. Le sue ultime parole furono: “Sento il Signore che mi viene incontro”. Era il 4 dicembre 1954.
Don Alberiore, beato (1884-1971) Fondatore della Famiglia Paolina (4 pp)
80 alunni in prima elementare. Nell'aula di prima elementare di Cherasco c'era una folla di 80 alunni, ma la maestra Rosa Cardone vi regnava sorridente e tranquilla come una regina. Un giorno do­mandò al suo piccolo esercito:

  C'è qualcuno che ha pensato a cosa farà da grande?

I piccolini in grembiule nero la guardarono sbalorditi: «da grande » era una stagione così lontana... Ma un affa­rino di sette anni si alzò e dichiarò con tranquilla sicurezza:

  Io mi farò prete, signora maestra.

Si chiamava Giacomino Alberione. Non era, il suo, un entusiasmo improvviso e passeggero. Era una deci­sione, che non ebbe mai né crisi né tentennamenti.

29 giugno 1907. Prima Messa di don Giacomo. Sull' im­maginetta ricordo ha scritto le parole che Dio rivolse ad Abramo: « Esci dal tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre ». Michele e Teresa, i genitori contadini, le leggono con un po' di apprensione. Che il loro figlio voglia partire missionario? Don Giacomo sorride nel rassi­curarli. Vuol essere missionario, certo, ma senza salire su una nave o su un aereo. Missionario qui.

23 anni. Mons. Giuseppe Re, vescovo di Alba, affida al giovanissimo prete la direzione spirituale del seminario e il settimanale della diocesi, la Gazzetta di Alba. Don Giacomo per la prima volta si trova tra le mani un giornale. Ne esamina a fondo tutti i mecca­nismi, poi (è la sua prima decisione) stabilisce di miglio­rarne la stampa e di lanciarlo con più decisione. Contrae un debito di 70 lire. Il lavoro della tipografia pesa sempre di più sul mo­desto bilancio del giornale. Don Alberione pensa di reclutare tra i giovani poveri della città e della diocesi dei giovani che credano nella diffusione della stampa cristiana come in una missione, a cui si può dedicare la vita come a un ideale.

Il 20 agosto 1914 entrano nella casa di don Alberione due ragazzi, che cominciano a lavorare accanto ai tipografi come apprendisti. In pochi anni i giovani crescono di numero, diventano parecchie decine. Don Alberione co­struisce una casa per loro. Durante i gelidi inverni di Alba, i ragazzi calzano pesanti zoccoloni che rimbombano sui selciati e sui marciapiedi. Gli albesi sentendoli passare li chiamano “L’Ordine degli Zoccolanti ». E’ il primo nome che si appiccica addosso alla sua opera. Lui sorride, lascia dire e tira avanti.

1920. Alba assiste impressionata al boom di don Albe­rione. Quel Pretino che parla poco, sorride sempre e sa fare sul serio, ha acquistato un ampio prato alla periferia della città. Vi costruisce una casa capace di ospitare 100 ragazzi, con aule scolastiche, ampi cortili per correre e giocare, saloni per i pasti e per gli studi, una chiesa grandiosa. Ad un certo punto le fornaci dei dintorni non hanno più mattoni da vendere al prete e lui si costruisce una fornace tutta sua. In un locale vastissimo arrivano le macchine tipografiche comprate a Sesto San Giovanni.

Un romanziere in casa. Dalla nuova tipografia non esce più soltanto la Gazzetta d'Alba, ma Vangeli, catechismi, libri di vita cristiana e i celebri romanzi di Ugo Mioni, il quale è andato addirittura a stabilirsi ad Alba per sfornare a getto continuo le sue pagine avventurose.

E’ in questi anni che don Alberione dà un nome alla sua famiglia. La chiama “Pia Società San Paolo” dal nome dell'apostolo che divulgò il Messaggio cristiano in tutto l’Occidente con grande energia e lavoro instancabile.

Ma ora che la tipografia produce con ritmo crescente, don Alberione si trova davanti al grande problema che ogni industria tipografica deve affrontare e risolvere, se non vuoi morire. Non basta stampare. Occorre vendere, divulgare. 1 libri e le riviste non devono finire in magazzino: devono essere portate a contatto col pubblico, en­trare nelle case, nelle famiglie.

Don Alberione risolve il problema con un'intuizione genialissima, che però fa storcere il naso a un sacco di gente. Fonda una famiglia di religiose e le manda di casa in casa con la borsa piena di libri e di giornali. Nascono così le « Figlie di San Paolo». Un lavoro duro, faticoso, a volte umiliante, che occorre reggere con fede e preghiera. Molte persone per bene si scandalizzano a vedere le suore in un simile mestiere. Mandano lettere accorate e preoccu­pate al pretino di Alba. Lui, al solito, lascia dire e tira avanti.

Dice alle suore e ai suoi religiosi: « Fate, fate, fate. Non abbiate paura. Niente

è impossibile se la vostra dispo­nibilità è totale. Dovete imparare dalla gente comune. La gente comune deve lavorare per vivere, deve faticare, deve guadagnarsi il pane ». Ai suoi preti che scendono in tipografia dice: « Non crediate che il vostro lavoro non sia sacerdotale. Le tipografie sono le nuove chie­se, le macchine da stampa i nuovi pulpiti ».

Nel 1931 lanciò la rivista che avrebbe riscosso il mag­gior successo, Famiglia Cristiana. Dopo qualche alto e basso, essa è oggi la più diffusa rivista cristiana d’ Italia. Ha superato il milione di lettori.

Non tutte le iniziative del pretino piemontese furono successi. Dottrina e fatti, una rivista di pensiero cui don Alberione teneva molto, morì dopo pochi anni. Nemmeno la produzione di film propri, in cui i Paolini si gettarono coraggiosamente, ebbe successo. Don Alberione dovette riconoscere di essersi av­venturato in quel campo tremendamente minato con ec­cessiva ingenuità, totalmente privo di quella raffinata malizia commerciale che è necessaria per sfondare. Ma non si arrese. Si limitò ad acquistare e a distri­buire film prodotti da altri, e considerati cristianamente co­struttivi, alle sale parrocchiali. Non tutto andò liscio, ma fu un servizio prezioso.

E’ bene che i debiti ci siano sempre”. Per il denaro, don Alberione aveva idee molto concrete. Quando gli parlavano della grandiosità dei suoi impianti editoriali, citava un documento conciliare "Inter Mirifica": « Sarebbe vergognoso per i figli della Chiesa tollerare che la parola della salvezza resti inceppata e impedita dalle difficoltà tecniche e dalle spese, certo ingentissime, che questi strumenti richiedono ». E ag­giungeva: « Il denaro dobbiamo usarlo, ma non lasciarci mai dominare da lui. Occorre stare attenti all'economia, usare tutti i mezzi per impedire la passività. D'altra parte è bene che i debiti ci siano sempre. Non dobbiamo accumu­lare, ma reinvestire sempre in opere di apostolato ».

Don Alberione volle opere grandi, esplosive, ma lui si nascose. Pochis­simi lo conoscevano. 1 giornali parlarono raramente di lui. « Lo vedo ancora nell'Aula del Concilio Vaticano Il   rac­conta padre Baragli   nella tribuna dei Padri Generali. Arri­vare quando la tribuna era ancora semideserta, tirar fuori dalla borsa nera la cotta, indossarla e sedersi al suo posto, all'angolo destro della tribuna. Pregare raccolto durante la Messa, ascoltare in silenzio le discussioni, di tanto in tanto prendere qualche nota. A seduta inoltrata, spesso dei vesco­vi, per lo più del Terzo Mondo, salivano dalla navata in tri­buna a confabulare con l'uno o con l'altro dei capi delle famiglie religiose. Sollecitavano, penso, aiuti per i loro ospe­dali, orfanotrofi, scuole... Ma non cercavano né notavano, nel suo angolino, don Alberione. Nella grande piazza, i fotografi sparavano i loro flash sul flusso policromo dei vescovi, e lasciavano passare inosservato il vecchio prete, un po' curvo, che li seguiva appartato ».

Nelle « Regole » che don Alberione scrisse per i Paolini si legge: « Usare i mezzi più celeri e più efficaci per la diffusione della parola di Dio ». Questi mezzi, per il pre­tino piemontese, erano tutti gli audiovisivi, anche quelli che venivano ancora guardati con sospetto dagli altri preti. Stampa, cinema, televisione, radio, dischi. Fu il primo a mettere il telefono ad Alba. Fu tra i primi a comprare una rotocalco. Appena la TV arrivò nelle famiglie italiane, impose l'acquisto di 20 televisori per la sua casa, e si stupì che si tardasse ad eseguire il suo ordine: « Dobbiamo cono­scere in fretta questo nuovo mezzo per usarlo alla diffu­sione del regno di Dio ».

Ma chi credesse che per questo ideale don Alberione spingesse i suoi figli spirituali a un attivismo sfrenato, sba­glierebbe di grosso. « Dobbiamo fondare il nostro lavoro sulla preghiera e sulla mortificazione », diceva. E ripeteva le raccomandazioni del documento pontificio sui mezzi di comunicazione sociale: « Il sacerdote deve conoscere tutti i problemi che il cinema, la radio e la televisione propon­gono alle anime dei fedeli, ma quando ne usi per sé, il suo esempio di prudenza, di temperanza e di senso di respon­sabilità riesca di edificazione a tutti i fedeli ».

Egli voleva attuare per i suoi figli il difficile equilibrio che Cristo domandò al Padre per i suoi Apostoli: « Non ti chiedo di toglierli dal mondo, ma che restino nel mondo senza essere del mondo ».

Il Papa entrò nel piccolo studio. Da parte sua, don Alberione pregava con la tenacia e l'instancabilità dei santi. Si alzava abitualmente alle 4,30; e quando gli altri iniziavano la loro giornata, aveva già dedicato alla preghiera alcune ore. Volle che un gruppo di suore, le « Pie Discepole del Divin Maestro », si avvicen­dassero giorno e notte davanti all'Eucaristia, a pregare per la Famiglia Paolina e specialmente per i sacerdoti.

Negli ultimi quattro anni della sua vita, un accentuato declino fisico lo sigillò ancor più nel suo silenzio. La corona del rosario passava e ripassava instancabilmente tra le sue dita, mentre l'indebolimento della vista, dell'udito, della stessa parola, lo accompagnavano lentamente verso l'ultimo giorno.

In quei lunghi giorni di silenzio scrisse il suo testamen­to spirituale, semplice e limpido come la sua vita. Dice tra il resto: « Cari Membri della Famiglia Paolina, ci sepa­riamo temporaneamente, in fiducia di riunirci eternamente tutti. Ringrazio tutti e tutte della pazienza usata con me; chiedo perdono di quanto non fatto o fatto male. Sono tut­tavia sicuro che tutto l'indirizzo dato all'Opera è sostan­zialmente conforme a Dio e alla Chiesa».

Paolo VI andò a visitarlo negli ultimi tempi, e si mera­vigliò della povertà che riempiva il piccolo studio, dove don Alberione si stava preparando all'incontro con Dio.

Si spense il 26 novembre 1971, all'improvviso, senza disturbare nessuno, senza interrompere nemmeno per un giorno l'attività delle grandi opere da lui fondate, che ormai marciavano senza di lui.

Queste grandi opere testimoniano per lui, davanti al mondo e davanti a Dio.

Il piccolo prete piemontese fu sepolto come il buon chicco di frumento. Ma i frutti, attorno a lui, erano già maturati per il Regno di Dio.

MASSIMILIANO KOLBE , santo (1864-1941) Francescano conventuale, Fondatore di una città di lavoratori (il testo deve stare in 3 pagine)
Due corone di fiori per un ragazzo. «Una sera era già l'ora di cena, e il mio bambino non tornava. Pa­pà a tavola era buio Avevamo quasi finito, quando entrò Raimondo, stracciato e sporco. Papà esplose: “ È questa l'ora di tornare a casa? Conciato come un figlio di nessuno! Bella conso­lazione dai a tua madre!" Raimondo ascoltò a capo chino, poi sgat­taiolò nella stanza da letto. Il giorno dopo, mentre me lo vedevo accanto mogio mogio, mi lasciai sfuggire: “Bambino mio, chissà cosa faremo di te!” Raimondo scoppiò a piangere e scappò nella stanza. Lo intravidi poco dopo inginocchiato davanti all'altarino della Madonna. Per qualche giorno rimase così, pensieroso. Allo­ra gli domandai decisa: “Che cosa capita? Hai anco­ra il broncio per la sgridata di papà?” Fece di no con la testa. Poi disse esitante: “Mamma, quando mi hai detto ‘che cosa faremo di te?', io sono andato dalla Madonna, e le ho detto quasi le stesse parole: ‘Cosa sarà di me?’ E la Madonna ha aperto le mani e mi ha mostrato due corone: una di fiori bianchi e una di fiori rossi. Mi ha sorriso, e mi ha chiesto quale volevo. Non sapevo quale scegliere, e allo­ra le ho prese tutte e due. Poi ho di nuovo visto la Madonna solo come si ve­de nel quadro. Non invento nemmeno una parola, mamma”. Non ho mai raccon­tato a nessuno, nemmeno a suo pa­dre, queste cose. Ma ora che so com'è morto, credo che occorra raccontarle a voi, suoi confratelli». Questa lettera la scrisse la mam­ma di padre Massimiliano Kolbe, quando apprese che suo figlio era stato martirizzato nel campo di eliminazione di Auschwitz.

Giulio Kolbe e Maria Dobrow­ska avevano messo su famiglia nel villaggio di Zdunska Wola. Divisero uno stanzone in due con una tenda: da una parte due telai presi in affitto e un ango­lo riservato alla cucina; dall'altra parte i letti, l’ armadio e un altari­no con il quadro della Madonna ne­ra di Czestochowa.

Quando nacquero Francesco e Raimondo, la loro culla fu messa accan­to ai telai, e la mamma cantò loro la ninna nanna facendo scorrere su e giù la spola, con le mani bianche e veloci.

Nell’ottobre del 1911, Giulio Kolbe accom­pagna alla scuola francescana di Leopoli Francesco di quin­dici anni e Raimondo di tredici. Vanno a studiare, e anche a pensare che cosa faranno nella vita.

Nell'ottobre del 1911, Raimondo e Francesco, col permesso dei genito­ri, fanno domanda di entrare nel­l'Ordine francescano. Raimondo ha diciassette anni. La sera del 4 settembre assume il suo nuovo nome, il nome religioso con cui verrà chiamato per tutta la vita: Massimi­liano.

Fra Massimiliano, il 28 aprile 1918, è ordinato sacerdote.



Una città di lavoratori. A 40 chilometri da Varsavia, padre Kolbe fonda nel 1927 una città-convento. La chiama Niepoka­lanow (= città dell' Immacolata). In poco tempo diventa il primo centro editoriale della Po­lonia. Pubblica un giornale cattolico, il «Ma­ly Dziennik» che vende 250 mila copie giornaliere.

Ma in Germania è diventato dittatore il disumano nazista Adolf Hi­tler. Egli vuole conquistare la Polonia per farne la base di partenza per una gigantesca guerra contro la Russia. Dichiara guerra alla Polonia il 1° settembre 1939. In quattro settimane la Polonia è conquistata.

La prima mossa per ridurre la Polonia in schiavitù sarà l’eliminazione di tutta la classe intellettuale, che potrebbe persuadere il popolo a opporre resistenza.

I17 febbraio 1941 anche padre Kolbe è arrestato e la sua città chiusa.

Portando il suo povero saio francescano, padre Kolbe deve salire su un treno do carri-bestiame. Ventiquattro ore di vìaggio massacrante. Poi, la notte del 28 maggio, le portiere vengono aper­te con fragore.

Gli «abili al lavoro» dovettero percorrere di corsa i due chilometri che li se­paravano dal campo di Auschwitz, la località che i polacchi chiamano Oswiecim.

A questi uomini viene tolto tutto, anche il nome. Il nome di padre Kolbe, d'ora innanzi, sarà 16.670. Finché vivrà porterà il mar­chio tatuato sul braccio sinistro con un timbro a spilli e inchiostro di china.

Ad Auschwitz si lavora dall'al­ba al tramonto. Si va in colonna or­dinata, a passo veloce. Si torna quasi a passo di corsa.

Legato al carro con al­tri sacerdoti polacchi del blocco 14, padre Mas­similiano trascinò di corsa pesantis­simi carichi di ghiaia, abbatté albe­ri, trascinò tronchi e rami per sen­tieri accidentati, barcollando sotto pesanti fardelli.

Al tempo della mietitura, in lun­ghe file i prigionieri veniva­no trasportati lontano dal campo, a lavorare nelle fattorie. Gettandosi tra le messi alte, con la forza della disperazione, un prigioniero fuggì.

Quando alla sera fu fatto l'ap­pello, e uno non rispose, quelli del blocco 14 tremarono. «Per ogni fuggitivo, dieci pagheranno con la vita». Era una delle leggi di Au­schwitz, applicata alla lettera. I prigionieri del blocco 14 furo­no lasciati in piedi, rigidamente sul­l'attenti, fino a notte alta. Solo al­lora fu permesso di rientrare nelle baracche.

Al mattino, primo appello. Il fuggitivo non era riapparso. Tutti senza eccezione, rimasero in piedi, sull'attenti. Erano forse le diciannove quando arrivò, col solito codazzo di aiu­tanti e di leccapiedi, il lagerfhurer Fritsch. Le sue parole caddero in un si­lenzio di tomba.



Dieci pagheranno con la vita.“Il fuggitivo non è stato ritrovato. Dieci di voi, quindi, pa­gheranno con la vita". Passò davanti ai prigionieri: le­vava la mano, segnava col dito a ca­so: “Quello, quello”. L'aiutante segnava a matita i nume­ri dei destinati a morire. Il decimo fu il sergente polacco Francesco Gajowniczek. Inebetito dalla dispe­razione, mormorò singhiozzando: “Mia moglie... 1 miei figli...”.

In quell'attimo un uomo esce dalle file dei risparmiati. E’ un ge­sto che gli può costare la vita. Fritsch ha fatto un balzo indietro e ha gridato: “Cosa vuole questo sporco polacco? Chi è?”. “Sono un sacerdote cattolico   risponde in perfetto tedesco l'uo­mo uscito dalle file.   Chiedo di prendere il posto di quel prigionie­ro" e con la mano indica Gajow­niczek. Fritsch ha un attimo di esitazio­ne, poi accetta.

I dieci condannati andarono a morire nel bun­ker della fame. Era un sotterraneo dove, in celle buie, venivano ammassati senza acqua né cibo colo­ro che dovevano morire.

Bruno Borgowiec, un interpre­te polacco che dovette scendere ogni giorno insieme alle guardie tedesche per controllare il comportamento dei morenti, ha dichiarato: «Men­tre in precedenza il comportamen­to dei condannati era stato quasi sempre uno spettacolo di dispera­zione, questa volta accaddero cose che stupirono anche gli aguzzini germanici. Raccolti attorno a padre Kolbe, i condannati pregavano, a volte addirittura cantavano canti polacchi alla Madonna. Le guardie dovettero più volte ordinar loro di tacere, perché dalle altre celle, al­tri condannati si univano al coro».

Le voci si affievolivano di gior­no in giorno. Chi moriva era tra­scinato via. Padre Kolbe confortò tutti fino all'ultimo momento. Il suo volto era calmo, lo sguardo azzurro incredibilmente se­reno, e un giorno uno degli aguzzi­ni dovette gridargli, profondamente turbato:

  Non guardarmi così, prete della malora!

Dopo due settimane, padre Kol­be era ancora vivo insieme ad altri tre prigionieri. Bisognava liberare la cella per altri condannati.

Il 14 agosto, vigilia dell'As­sunzione della Madonna al Cielo, entrò in cella l'infermie­re tedesco Bock. Si avvicinò ai quat­tro prigionieri e praticò nel braccio di ognuno un'iniezione mortale. Ul­timo era padre Kolbe, appoggiato al muro, in preghiera. Quando Bock si av­vicinò, tese il braccio.

Il corpo di padre Kolbe fu get­tato nel forno crematorio con quel­lo dei suoi compagni. Le sue cene­ri furono mescolate a quelle di al­tri tre milioni di vittime e sparse nel­la campagna di Auschwitz, che ad ogni primavera si copre di fiori ros­si e di fiori bianchi.
ATTILIO GIORDANI, servo di Dio (1913-1972) Impiegato alla Pirelli e apostolo tra i ragazzi (testo in 4 pagine)
Col pallone tra i piedi. Papà Arturo Giordani viene dal Friuli. Fuochista e poi macchi­nista nelle ferrovie. Nelle ore libere dalla scuola, i ragazzi corrono per strade e ster­paglie. Attilio è un ragazzo sano, svelto, col pallone tra i piedi appena può. Finite le elementari, papà Arturo lo manda a frequentare i tre anni della scuola tecnica.

E intanto scopre l'oratorio. Pochi in Milano, dove tutti lavorano intensamente per farsi ‘la grana’, apprezzano i Sale­siani che in periferia “perdono il loro tempo in mezzo ai ragazzi”, stanno con loro, li assistono nei giochi, organizzano le passeggiate, li educano al teatro, li richiamano nei litigi, li istruiscono col cate­chismo, li formano nella confessione. Attilio invece vi trovò un pezzo di paradiso. Ricordava: «Mi divertivo un mondo sulla giostra, sul pas­so volante, col pallone, al teatro. Quando c'erano grandi feste don Acerbi non ci lasciava mai mancare la colazione. In chiesa spiega­va la dottrina a tutti; a chi sapeva rispondere dava sempre qualche cosa: una volta io guadagnai una noce...”.

A 17 anni diventa lavoratore in una ditta di prodotti farmaceuti­ci, e lì si misura con la fatica quotidiana e con la realtà del mondo del lavoro: è una vita dura, non gratificante e neppure retribuita in modo adeguato; ma Attilio la vive con serenità. E nello stesso anno diventa all'Oratorio un brillantissimo delegato aspiranti dell'Azio­ne Cattolica. «Ogni mattina   ricorda un suo aspirante di allora   lo aspettavo con altri in via Solferino davanti alla scuola Frisi: lui ar­rivava veloce sulla bici e a noi, appena scesi dal tram, in dieci minuti di tempo, dopo la visita alla chiesa vicina, dava i suggerimenti per la nuova giornata perché fossimo nella scuola gli amici di tutti, l'aiuto di tutti, i portatori di gioia, i "raggi scuola"».

Dalla farmaceutica, Attilio passa alla Pirelli: impiegato in amministrazione.

I colleghi lo ricordano come lavoratore serio, sempre pronto a dare una mano. Trascorreva i giorni di ferie portando con sé in montagna grup­pi di ragazzi, componeva canti, dialoghi, scherzi, scenette, orga­nizzava grandi giochi nei boschi, gite in bicicletta e a piedi, lotterie e banchi di beneficenza, cacce al tesoro attraverso le vie della par­rocchia, le olimpiadi per ragazzi nei cortili dell'oratorio, il Rarà (raduno ragazzi). Giordani era una festosa girandola di iniziative, che sorgevano quasi spontanee e irresistibili dalla sua fantasia, ma che richiedevano pazienza e abnegazione superlative per la loro realizzazione. E al sacrificio chiamava tutti, in forma alle­gra ma decisa. Quando ideò il primo concorso aspirantistico, lanciò nel suo lombardo schietto lo slogan: «Su l'Everest se va no in caru­seta».

Vagonate di allegria. «Era il piazzista imbattibile di quella merce rara che si chiama "letizia"   ricorda un suo ragazzo  . Attilio smerciò vagonate di letizia soprattutto fra i ragazzi, sia nell'età giovanile, sia nell'età adulta, sempre gratis». Quando, al Vigorelli, gli conferirono il pre­mio al «migliore delegato aspiranti d'Italia», e nel discorso esalta­rono i suoi «sacrifici», lui ci tenne a precisare che non gli risultava di aver compiuto sacrifici. «Fare il delegato Aspiranti   disse   e vi­vere tra i ragazzi è sempre stata per me la cosa più piacevole».

1940. Per l'Italia iniziano i cinque anni della seconda guerra mondiale. Attilio Giordani li farà tutti e cinque, sul fronte greco al­banese, in Francia, poi come clandestino tra le montagne lombarde. In questi anni lo accompagnano due pensieri: i suoi ragazzi e Noe­mi Davanzo, la sua dolcissima fidanzata. Le scrive quasi tutti i gior­ni. Una riga condensa tutto: «La mia felicità, con l'aiuto del Signo­re, sarai tu».

Quando arriva la pace ed ha sposato la sua Noemi, all’Oratorio comincia una stagione diversa. Intorno ci sono le macerie dei bombardamenti che hanno violentato in maniera paurosa la città. I ragazzi smunti e pallidi con la fame portano nel sangue il seme della vio­lenza.

Per questi ragazzi Attilio inventa la «Crociata della Bontà»: un gioiello pedagogico che coinvolge tutto il quartiere: giovani e fa­miglie, parrocchia e scuole, sani e ammalati, bambini e anziani. E’ una rivincita sulla violenza, un rilancio in grande stile dello spirito evangelico: Amore e bontà.

Attilio lo voleva far capire a tutti: la stagione della guerra e della violenza era finita, e doveva finire per tutti. Solo la bontà insegnata da Gesù può cambiare il mondo. «Con questa crociata   ricorda un protagonista –, Attilio ci fece incontrare i poveri, gli ammalati, i vecchi, gli emarginati, i barboni: tanti fratelli che non sapevamo di avere, e che pure sta­vano alla nostra porta aspettando la nostra bontà.».

Inventata a Milano, nell'oratorio salesiano, la «Crociata della Bontà» venne trapiantata con risultati straordinari in tutta Italia e all'estero. Il Patriarca di Venezia, che diverrà poi Papa Giovanni XXIII, disse: «La Crociata della Bontà ha avuto una penetrazione nei bambini e una risonanza nei fedeli quale non avrei potuto im­maginare».

Sarebbe grave errore considerare Attilio un adulto «scappa di casa», un papà che preferisce l'oratorio alla famiglia. I tre figli che allie­tarono la sua casa (Pier Giorgio, Maria Grazia, Paola) parlano co­sì del loro papà e della loro mamma:

«Quando papà entrava in casa, era tutto nostro; non portava in casa le tensioni di fuori. Era sereno, disponibile, non chiuso; era qualcosa di "nostro"».

«Ciò che mi dava una pace enorme   dice Maria Grazia   era sa­pere che qualunque cosa io avessi fatto nella vita, giusta o sbaglia­ta, in casa non mi sarebbe stato tolto niente, sarei stata accettata con lo stesso amore e la stessa comprensione. Il sapere che qual­cuno ti capisce sempre, dà tranquillità».

«Un problema da me vissuto   ricorda ancora Maria Grazia   era già capito prima che lo esprimessi. Papà e mamma non forza­vano perché mi aprissi con loro, e io sentivo che essi mi capivano, mi erano vicini, avevano fiducia, aspettavano... In casa ho sempre sentito questo ambiente di amore, di amore vissuto, di accettazione sempre».

Stava male se non poteva dividere. «Non abbiamo mai visto nostro padre accumulare denari   ri­cordano insieme i figli  . Stava male se non poteva dividere con al­tri ciò che aveva. Ci ripeteva: "Diamo ... ; noi si va avanti lo stesso... Il Signore ci penserà"».

La contestazione giovanile esplose dura nei primi anni '70. I giovani volevano cambiare la società attraverso la violenza.

Nasce in questo tempo, nell'ambiente salesiano, l'Operazione Mato Grosso, che vuole sì «cambiare la società», ma attraverso l'impegno e il sacrificio personale. Quei giovani, a cui si uniscono i figli di Attilio, cercano azioni impegnative verso i fratelli più poveri, azioni che assorbono menti e mani. Attilio osserva e incoraggia quel desiderio di «fare» e non solo di discutere, quel bisogno di verificare il proprio cri­stianesimo in atti concreti di servizio.

Nel primo gruppo che parte per la zona brasiliana poverissima di Poxoreu, Mato Grosso, c'è il suo Pier Giorgio, universitario. Vanno a spendere le vacanze sco­lastiche per costruire un «centro sociale» tra giovani poveri di tutto.

Nel gruppo che parte nel 1972 c'è anche papà Attilio (59 anni), che va a spendere le ferie e alcuni mesi di aspettativa dalla Pirelli, con le figlie Maria Grazia e Paola, e con la moglie signora Noemi. E’ una decisione limpida, coe­rente, come tutte le decisioni della sua vita: «Vado a fare l'oratorio tra i ragazzi di Poxoreu». L’unica cosa che l'avrebbe fermato era un «no» della sua Noemi. Non si sentiva di sacrificarla. Ma lei disse «sì», diventando «la mamma dei volontari e delle volontarie dell'Operazione Mato Grosso».

Aereo. Poi jeep traballante sulla stradina di terra rossa che por­ta a Poxoreu, la frontiera tra il benessere e la miseria.

Qui approdano i garimpeiros che si rompono la schiena a setac­ciare le sabbie dei fiumi in cerca del diamante, il garimpo. E nelle capanne affollate di bambini, con il pavimento di terra e i muri di fango, si ammucchia la miseria e la disperazione.

Attilio si fa crescere la barba, che risulta imprevedibilmente tut­ta bianca, e inizia l'oratorio salesiano tra nugoli di ragazzi, con lo spirito di sacrificio e la letizia di sempre. «Qui i ragazzi si diverto­no con poco: domenica scorsa un gioco semplicissimo per le strade ha entusiasmato i piccoli e anche i diciottenni che ci hanno aiuta­to», scrive.

Vede gli enormi problemi. Attilio guarda con orgoglio la sua Noemi e i suoi «ragazzi» che s'impegnano seriamente per i poverissimi e gli ammalati. Scrive al suo parroco: «Noemi si è insediata in cucina, e con i mezzi che ha riesce a far contenti i commensali. Maria Gra­zia è nel gruppo che va per le capanne dove sono gli ammalati. Pao­la si è inserita bene con le bambine. Per i giochi viaggiamo in tan­dem: io urlo, faccio segni, e lei spiega. Il mio impegno è con i ra­gazzi dagli 8 ai 13 anni. Partite accanite a campo minato, bandiera, staffetta».

Sotto l'ottimismo di sempre, vede gli enormi problemi. Continua a scrivere: «La gente di qui è povera in tutti i sensi. Non c'è il senso del risparmio: quel poco che avanza, quando c'è, serve specie per le ragazze a comprare il vestitino dai colori vivaci. Già le piccolissime si laccano le unghie, cercano di sfoggiare. Non sanno concepire una vita diversa. Non è un lavoro facile l'educazione, dove la famiglia non dà nulla e la scuola dà poco. Le famiglie regolari non sono tante: sovente ci si mette insieme e si fabbricano bambini: dieci, dodici; qualche volta il marito parte per ignota destinazio­ne abbandonando donna e figli, e formerà un altro gruppo. Pochi anni fa si regolavano i conti con la pistola alla mano; parecchi bambini hanno perso il padre in una rissa. Si fatica a far loro capire che si deve convivere in un mo­do più umano".

Il 18 dicembre di quel 1972, in una riunione, parlò con entusia­smo del dovere di dar la vita per gli altri. A un tratto si sentì venir meno. Sussurrò al figlio: «Continua tu». Lo fecero distendere su un tavolo. Gesù era lì, e lo chiamava attraverso i battiti impazziti del cuore devastato.

Faceva freddo a Milano, quando arrivò la bara del signor Atti­lio. Millecinquecento persone lo attendevano. Ognuno, tra le mani, aveva un cartoncino gial­lo: l'addio accorato degli amici. Si leggeva:

« Ca­rissimo Attilio, siamo in tanti che avremmo dovuto rispon­dere alle tue ultime lettere, in tanti che volevano augurarti un Natale felice. Quando toccava a te il discorso, ci met­tevi dentro tanto di quell' humor che ci cacciavi via tutto il magone che avevano addosso. Non ti è mai piaciuta la tristezza, il pessimismo. Hai sempre creduto alla vita, hai sperato nella Risurrezio­ne. Sei stato educatore di molti ragazzi perché eri il loro amico. E questa tua amicizia non la dicevi, ma la vivevi, cinquantenne, giocando al calcio, cantando e scherzando.

Non sei mai stato una ‘persona seria’, un uomo con­venzionale e artefatto. Ti sei interessato delle nostre pic­cole cose, della nostra famiglia, e per noi hai buttato via il tuo tempo senza chiedere stipendio né riconoscenza”.

A quella gente sbigottita, quasi incredula, che fissava i resti mortali di una persona tanto cara, il parroco disse: « A ciascuno di noi Attilio ripete la frase che, morendo ha detto al figlio: ’Continua tu’».



ALBERTO MARVELLI, beato (1918-1946) Ingegnere, lavoratore accanto ai lavoratori (il testo deve stare in 3 pagine).
E’ passato Gesù che aveva fame”. Alberto nasce il 21 marzo 1918, secondo di sei fratelli. A Rovigo papà è direttore di banca. Fami­glia cristianissima. Qualche volta i ragazzi, tornando affamati dalla scuola, dovevano accontentarsi del­la minestra. «E il secondo? » chie­devano ansiosi. E la mamma: «E’ passato Gesù che aveva fame, e gli ho dato quello che c'era». Nella fa­miglia Marvelli i poveri sono Gesù.

Da Rovigo la famiglia Marvelli si trasferisce a Modena, ad Anco­na, e di qui, nel 1931, definitiva­mente a Rimini, seguendo papà nei suoi impegni finanziari.

Alberto ha una salute buona e robusta, un temperamento impe­tuoso e ardente, ma anche una se­rietà che a tratti fa pensare a un uo­mo adulto. Il ginnasio è superato felicemente tra tirate di studio e ga­re sportive clamorose. A 15 anni si iscrive al liceo classico, ma proprio in quei mesi la famiglia è colpita in modo durissimo: muore papà.

Nell'ottobre del 1933, l'anno della morte del padre, Alberto inizia il suo diario. Si assi­ste attraverso quelle righe alla sua crescita di uomo e di cristiano. 1 li­bri che legge, medita, e a tratti tra­scrive su quelle pagine sono il Van­gelo e l'Imitazione di Cristo. Un pensiero che ricopia e sottolinea è questo: «E’ vera ogni mortificazio­ne che spezza ciò che è da spezzare e fortifica ciò che è da fortificare». Fissa un «piccolo schema» rigido e forte, come le nervature d'acciaio che reggono il cemento armato:

« 1. Alla mattina preghiera, e se è possibile, un po' di meditazione. 2. Una visita giornaliera in chiesa e il più possibile frequentare ì Sa­cramenti. Oh, se mi riuscisse di co­municarmi tutti i giorni! 3. Recita­re ogni giorno il santo rosario. 4. Non cercare in nessun modo occa­sioni di male. 5. Alla sera, preghie­ra, meditazione, esame di coscienza. 6. Vincere i difetti più grossi: la pigrizia, la

gola, l'impazienza, la curiosità e tanti altri. 7. Invocare l'aiuto di Gesù in ogni momento difficile. Se non dovessi mantener­lo, infliggermi una qualche pena fi­sica» (Diario, p. 16).

Questo pro­gramma Alberto lo attuerà per tutta la vita.

Immaginare però Alberto chiu­so in se stesso, arroccato sulla di­fesa, sarebbe un errore totale. Egli viveva nel mondo, in mezzo agli al­tri, nel tran tran di una attività da sfinimento, aiutava tutti e «irradia­va Cristo» su tutti. «Io vedo cam­minare Alberto Marvelli per le stra­de della nostra piccola città   scri­ve una sua amica   ancora studente con la cartella dei libri come quan­do veniva al Liceo, e lo vedo corre­re in bicicletta, occuparsi all'Associazione di Azione Cattolica (della quale fu, per tanto tempo, presidente). Quel suo sorriso pensoso, luminoso, in­cantevole». Gli è maestra silenzio­sa la madre, un po' mamma di tut­ti i ragazzi della parrocchia, instancabile nella Conferenza di San Vincenzo.



Studente-pendolare. Tra i 60 candidati alla maturità classica si classifica secondo. Il 1° dicembre 1936 (a 18 anni) inizia il primo anno di ingegneria all'Uni­versità di Bologna: inizia il via vai di studente pendolare tra Rimini e Bologna. Studio e apostolato in en­trambe le città. La donna di servi­zio della zia che lo ospita a Bolo­gna testimonierà con le parole dei semplici: «Lo vedevo di giorno e di notte ammazzato di lavoro per l'u­niversità e l'apostolato. Qualche volta lo trovavo addormentato sui libri e con la corona in mano. Al mattino lo vedevo in chiesa alle 6 per Messa e Comunione”.

Benigno Zaccagnini, che gli di­ventò amico a Bologna, ricordava: «Aveva un candore che incantava anche chi non condivideva le sue idee. Era circondato dalla simpatia di tutti. Non ho forse conosciuto nessuno così naturalmente umano e insieme così umanamente cri­stiano».

Mentre Alberto sta terminando l'università, sull'Europa scoppia il ciclone della seconda guerra mon­diale. Nel giugno 1940 Mussolini fa scendere in guerra l'Italia a fianco della Germania di Hitler.

Laureando in ingegneria, dall'a­gosto al novembre 1940 Alberto è a Milano, impiegato nella fonderia Bagnagatti, sotto i primi bombar­damenti. L'industriale Bagnagatti testimonierà: «Trascorse presso di me alcuni mesi. Famigliarizzò subito con tutti i dipendenti e par­ticolarmente con i più giovani e i più umili. S'interessò dei bisogni fa­miliari degli operai e mi prospettò le particolari necessità di ognuno, sollecitando gli aiuti che riteneva opportuni. Visitava gli ammalati, incitava gli apprendisti a frequen­tare le scuole serali. Infondeva ìn tutti un immediato e vivo senso di simpatia e cordialìtà».

Questi primi mesi di guerra han­no tracciato la strada che Alberto seguirà fino alla sua ormai vicina e imprevedibile morte: spendersi tut­to per chi gli sta attorno e soffre dell'immane ciclone che travolgerà in cinque anni gran parte dell'Ita­lia, e ogni giorno trovare la forza di ricominciare nell'Eucaristia e nel­la meditazione.

30 giugno 1941. Alberto sì laurea in inge­gneria industriale col massimo dei voti, e subito dopo parte per il servizio militare. E’ destinato a una caserma di Treviso. Ed è qui che si compie il «miracolo» di Marvelli. Don Za­notto, parroco, ha scritto: «Quando l'ing. Mar­velli arrivò a Treviso, nella caser­ma di duemila soldati tutti bestemmia­vano e la malavita imperversava. Do­po qualche tempo nessuno più be­stemmiava, dico proprio nessuno, nemmeno i superiori».



300 bombardamenti su Rimini. Nel settembre 1943 Alberto è a casa. L’Italia cerca di tirarsi fuori dalla guerra firmando un armistizio con Inghilterra e Stati Uniti (gli Alleati). Ma la guerra non finisce. I Tedeschi invadono l'Italia, considerano gli Italiani dei traditori. E gli Alleati intensificano i bombarda­menti sulle nostre città. Il 1° no­vembre Rimini è investita dal pri­mo bombardamento aereo. Ne su­birà trecento.

Occorre fuggire lontano, nella libera Repubblica di San Marino. In poche settimane, quel francobol­lo di territorio sicuro passa da 14 mila a 120 mila abitanti. Alberto vi porta la sua famiglia. Arriva reggendo la ca­vezza di un asino. Sul carro è la mamma. Il fratello Giorgio e la sorella Geltrude spin­gono biciclette cariche di cibo con cui sopravvivere. Vengono accettati in uno dei cameroni del collegio Belluzzi. Altre famiglie sono nei magazzini della Repubblica, moltis­sime altre si ammucchiano nelle gal­lerie ferroviarie. E’ facilissimo, in questi momenti, chiudersi in se stessi, pen­sare alla sopravvivenza dei propri cari e basta. Alberto è invece al cen­tro dell'assistenza, a disposizione di tutti.

Scrive la sua amica Massani: «Al mattino, nella chiesa zeppa di sfollati, serviva la Messa e si co­municava. Poi via andare incontro a tutti i bisognosi. C'era da andare qua e là, nelle gal­lerie da dove la gente non osava uscire». Aggiunge Domenico Mon­drone: «Ogni giorno faceva chilo­metri di strada in bicicletta racco­gliendo roba da mangiare. Talvol­ta tornò a casa con il tascapane fo­rato dalle schegge di granate che scoppiavano da ogni parte».

21 novembre 1944. Gli Alleati entrano in Rimini. Tutto intorno sono paesi e boschi che bruciano. Alberto torna con la famiglia. La sua casa è oc­cupata da ufficiali inglesi. I Marvelli si sistemano alla meglio nello scantinato.

In quel terribile inverno (l'ulti­mo di guerra) Alberto fu il servo di tutti. Il Comitato di Liberazione gli affidò l'ufficio alloggi, il comune gli affidò il genio civile per la rico­struzione, i poveri assediavano in permanenza le due stanzucce del suo ufficio”. Alberto diceva: «I poveri passino su­bito, gli altri abbiano la cortesia di aspettare».

L'anno 1946 fu mangiato gior­no per giorno da infinite necessità, tutte urgenti. Alberto faceva la Co­munione, poi era a disposizione. La sera del 5 ot­tobre cenò in fretta accanto alla mamma, poi uscì. A 200 metri da casa sua, un camion alleato correndo a velo­cità pazzesca lo investì. Due ore dopo moriva. Aveva 28 anni. Quando la sua bara passò per le strade, i poveri piangevano e mandavano baci.



DON LORENZO MILANI (1923-1967) Prete e maestro (4 pagine)
Un monumentale panino imbottito di prosciutto. Lo ricordava con rossore. Era stato anche lui un signorino, uno studente aristocratico, raffinato. La mazzata la ricevette in pieno viso un giorno del 1942 nella sua Firenze. Attraversava un dedalo di viuzze attorno a Palazzo Pitti. Era il terzo anno della seconda guerra mondiale. La città era assediata dalla fame, una fame atroce che aggrediva soprattutto i quartieri più poveri, dove i bimbi crescevano scheletriti. Lorenzo, era il suo nome, addentava con appetito un monumentale panino bianco imbottito di prosciutto e camminava. Dall’alto di una finestra una popolana fiorentina lo vide. “Non si mangia il pane bianco nelle strade dei poveri”, gli gridò con l’impeto di una profetessa.

Lorenzo restò fulminato. “Da allora decisi di ascoltare i poveri”, disse.

L’anno dopo, a vent’anni, entrò nel seminario di Firenze. A ventiquattro (nel 1947) era prete.

In quegli anni di durissimo dopoguerra fu mandato curato e poi parroco nella parrocchia operaia di S.Donato a Prato. Era un periodo di vaste agitazioni popolari, culminate con le lotte per la salvezza dell’acciaieria ‘Pignone’ e della ‘Galileo’. Le sue prese di posizione di cristiano e di cittadino, le sue iniziative a favore dei lavoratori e dei figli dei lavoratori, furono giudicate dai benpensanti come ‘comuniste’, e don Milani fu denunciato al suo Arcivescovo.

Egli, dopo il 1958, credette bene di allontanarlo da Prato e sostanzialmente di esiliarlo come priore di Sant’Andrea a Barbiana, sperduto borgo rurale sulle colline del Mugello. Don Milani si trovò così a vivere tra i più poveri dei poveri: i boscaioli del Mugello. Mancava la strada, mancava la luce, l’acqua. Un paese dimenticato da Dio e dagli uomini.

Don Milani si guardò subito attorno. Vide ragazzini smagriti lavorare con il forcone dalle quattro del mattino a notte fonda per sconcimare stalle di trentasei mucche, boscaioli murati vivi in una ignoranza millenaria, contadini che non avevano fatto che la terza elementare e sapevano a stento leggere e far la firma. E sotto quei volti duri, bulinati dalla fatica, una ricchezza di sentimenti autentici, di senso concreto della vita, un coraggio disumano nell’affrontare la fatica quotidiana dura come la pietra.

Disse a se stesso: “Devo fare qualcosa per questi ragazzi. Non posso permettere che questi giovani figli di Dio restino condannati a sconcimare stalle per tutta la vita mentre gli altri ragazzi diventano geometri, medici, ingegneri. Aprirò una scuola”.

“ Quante parole possiedi? – chiese ruvido al primo boscaiolo che incontrò –. Al massimo 250. Il tuo padrone ne possiede non meno di 1000. Questa è una delle ragioni per cui lui resta padrone e tu povero e servo. Se tuo figlio possederà più parole, starà alla pari con lui: non potrà più dire cose che lui non capisce. Non lo potrà più ingannare e rubare. Potrà leggere e scrivere come tutti i padroni, fare un lavoro diverso da quello che fai tu: leggere, scrivere, lavorare e aiutare gli altri”.



Il montanaro comprò una pila per la notte. Quel montanaro dal volto duro comprò una pila per la notte, un gavettino per la minestra e un paio di stivaloni per la neve. E accompagnò il suo ragazzo alla scuola di quel prete. Impiegarono due ore per aprirsi la strada con la roncola e la falce. Il ragazzo aveva undici anni.

La scuola di don Milano fu per tanti ragazzi boscaioli e contadini una sfida quotidiana alla paura, alla neve, al freddo. Era una scuola strana: né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli di legno pesante intorno a cui si faceva scuola, e si mangiava a mezzogiorno una zuppa nei gavettini. Mancavano i libri: ce n’era uno per ogni materia e basta. Quando i più grandi avevano imparato qualcosa, la insegnavano ai piccoli.

Grande importanza alle lingue moderne: dopo i tre anni della media don Milani li spedisce fuori dei loro boschi, a Parigi, a Londra. Sa che i suoi ragazzi si sentiranno sperduti nelle immense metropoli e li segue giorno per giorno con lettere appassionate, cariche di interesse, di affetto: «Non mi dici nulla di te – scrive a Edoardo che è a Londra. – Ti ho già detto venti volte che voglio una vera lettera privata. Come vivi? tentazioni? occasioni? tristezza? nostalgia? voglia di tornare? voglia di stare? abitudine? amicizie? noia? voglia di cambiar lavoro? confessione? comunione? messa? affetto per me? rabbia con me che ti ci ho mandato? fedeltà ai princìpi di Barbiana? fumo? vino? strettezze di quattrini? fame? voglia di pastasciutta? difficoltà di lingua? trionfi linguistici? malattie? sonno? pericoli? disperazione? speranza? fede? ateismo?». Non si scrive così quando non si ama sinceramente.

Don Milani ha un’idea delle materie scolastiche originale, viva: non gli importa che i suoi ragazzi sappiano se Saturno è padre o figlio di Giove. Gli interessa che conoscano il contratto dei metalmeccanici. E soprattutto che sappiano esprimersi, parlare, discutere, valutare. Si arrabbia quando minacciano di bocciare i suoi ragazzi in ginnastica perchè non sanno giocare a basket, ma sanno arrampicarsi come scoiattoli su una quercia, buttare giù un ramo di due quintale a colpi d’accetta e trascinarlo sulla neve fino a casa. Nella storia non gli interessa che si parli di re, di generali, ma delle sofferenze e delle lotte dei popoli e dei lavoratori. Si arrabbia perché si danno sei righe a Gandhi e pagine intere alle battaglie di Napoleone. La geografia deve aprire i ragazzi ai problemi della fame che torturano due terzi dell’umanità, del razzismo che divide come un solco la società moderna.



I negri italiani sono la povera gente. Perché, diceva don Milani ai suoi ragazzi, non c’era soltanto il razzismo dei negri messi sotto i piedi dai bianchi. C’era un razzismo nascosto ma brutale anche nella nostra società: i negri italiani erano i contadini, i manovali, i montanari, la povera gente. E lo dimostrava cifre alla mano, le cifre che i suoi ragazzi erano andati a scovare negli archivi. Quei numeri dimostravano la «strage dei poveri» nella scuola italiana. Su 100 ragazzi che si perdevano tra la quinta elementare e la prima media e non proseguivano a studiare, 79 erano figli di contadini, 16 di operai e soltanto 1 era figlio di signori. Nel pane che tutti mangiavano c’era dentro un po’ della fatica analfabeta di questi 79 ragazzi, diceva amaramente don Milani. Su cento giovanotti che arrivavano alla laurea, quanti erano i figli dei contadini? Pochissimi, due o tre. Quasi tutti gli altri erano figli di papà dal portafoglio robusto.

“È questo il nostro razzismo, gridava don Milani, e dobbiamo lottare per dare a tutti i ragazzi italiani una vera uguaglianza, non quella scritta a parole nella Costituzione, ma quella che permetta ai figli dei contadini e dei montanari di arrivare sui banchi dell’università come i figli di papà, non uno più e non uno meno.

I ragazzi di Don Milani scrivono insieme un libro che sarà pubblicato nel 1967 e diventerà famoso in tutto il mondo: Lettera a una professoressa. In quelle pagine denunciano con violenza il persistente e diffuso classismo della scuola italiana. Scrivono tra il resto: «In Africa, in Asia, nell’America Latina, nel Sud dell’Italia, nei campi, perfino nelle grandi città milioni di ragazzi aspettano di essere fatti uguali agli altri. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell’umanità».

Michele, un ragazzo di Barbiana spedito da don Milani in Germania a Stoccarda, dove lavora presso la Mercedes, gli parla di un suo compagno di lavoro, operaio come lui, un piccolo indiano, timido, che quasi si vergogna di apparire in mezzo agli altri. «Tu potevi rispondergli subito – gli scrive per espresso don Milani –: “Non sei tu che devi vergognarti in Germania. I tedeschi ci hanno regalato Hitler e i suoi campi di sterminio. Voi indiani ci avete regalato Gandhi e la sua non-violenza. Tu dunque in Europa devi venire come un missionario tra i barbari”».

È specialmente quando pensa alla guerra che don Milani diventa verde. A Barbiana non c’è ancora la strada, non c’è la luce, non c’è l’acqua. Ma, dice lui con un lampo negli occhi, è dal 1861 che su per i sentieri scoscesi arrivano le cartoline-precetto che sradicano i montanari dai loro boschi e te li portano nel mezzo di una mischia, moschetto in mano, ad ammazzare e ad essere ammazzati.

Decine di lettere furiose. Don Milani prese le difese degli «obiettori di coscienza», di quei giovani cioè che in quel tempo (con grave scandalo dei benpensanti) rifiutavano di fare il servizio militare per non uccidere, e chiedevano che venisse sostituito con un servizio civile anche più lungo presso le zone sottosviluppate del Paese, negli ospedali, nei ricoveri, durante le alluvioni, i terremoti. Oggi tutto questo è pacifico, ma in quegli anni arrivarono a Barbiana decine di lettere furiose. Veniva chiamato ‘traditore della patria’.

Fu addirittura messo sotto processo per essersi schierato apertamente nel 1965 contro la guerra in polemica contro cappellani militari della Toscana. Il processo si celebrava a Roma. Ma don Milani era ormai ammalato di leucemia. Da Barbiana il 18 ottobre 1965 scrisse con i suoi ragazzi una vibrante Lettera ai giudici, una difesa appassionata che attacca e travolge ogni militarismo.

«La Chiesa – scriveva - non ha mai ammesso che in guerra fosse lecito uccidere civili. Ora abbiamo letto un articolo del premio Nobel Max Born. Dice che nella prima guerra mondiale i morti furono 5% di civili, 95% militari. Nella seconda 48% civili, 52% militari. In quella di Corea 84% civili, 16% militari. Sappiamo tutti che i generali studiano la strategia d’oggi con la misura del megadeath (grande morte-un milione di morti), cioè che le armi attuali mirano direttamente ai civili e che forse si salveranno soltanto i militari. Dunque il cristiano deve “obiettare” anche a costo della vita. A una guerra simile il cristiano non può partecipare neanche come cuciniere. È noto che l’unica “difesa” possibile in una guerra di missili atomici sarà di sparare circa 20 minuti prima dell’ “aggressore”. Ma in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa. Oppure immaginiamo uno Stato onestissimo che per sua “difesa” spari 20 minuti dopo. Cioè che sparino i suoi sommergibili, unici superstiti di un paese ormai cancellato dalla geografia. Ma in lingua italiana questo si chiama vendetta, non difesa. A più riprese gli scienziati ci hanno avvertiti che è in gioco la sopravvivenza della specie umana. E noi stiamo qui a questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la specie umana?».

Il processo si chiude in prima istanza con l’assoluzione di don Milani. Ma su ricorso del Pubblico Ministero viene riaperto, e lo scritto di don Milani è condannato il 28 ottobre 1968.

Quando la notizia della condanna giunse a Barbiana, i suoi ragazzi corsero da don Milani. Il Priore riposava ormai da sedici mesi nel suo camposanto, sul Mugello grande. Era morto il 27 giugno 1967, a 44 anni, divorato dalla leucemia e dalla cattiveria di tante persone perbene.


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