Dottrina sociale della chiesa



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Parte prima

Le devastanti invasioni barbariche e la luminosa figura di san Benedetto (testo in 2 pagine)
Nel 167 i popoli germani varcano il Danubio

Intorno all’anno 150 dopo Cristo, al di là dei fiumi Elba e Danubio (che i Romani considerano il limes, cioè il confine del loro Impero), i popoli germani sono in piena espansione. Sono i Goti, i Vandali, i Burgundi, i Longobardi, gli Iazidi, i Marcomanni. Intorno al 150 una nuova ondata nordica, il popolo dei Gepidi, sbarca nell’estuario del fiume Vistola. Spinto a sud forse da un raffreddamento del clima, i Gepidi entrano nel territorio dei Goti e dei Burgundi, che a loro volta emigrano verso est e verso sud, cozzando contro i Vandali, i Longobardi, gli Iazidi e i Marcomanni. Stretti alle spalle, questi ultimi popoli superano il Danubio e dilagano verso sud.

Nella primavera dei 167 c’è il primo grande scontro: i Marcomanni e i Longobardi sconfiggono novemila soldati romani che sorvegliano il confine con l’Austria (Norico), mentre gli Iazidi invadono la Dacia e occupano le preziose miniere d’oro (che i Romani sfruttano da più di cent’anni). Ovunque la popolazioni fuggono, il panico dilaga per tutte le province di frontiera. Mentre Roma (dov’è imperatore Marco Aurelio) è devastata dalla peste, i popoli germani saccheggiano le province romane, e nel 169 irrompono su Aquileia, nella pianura dell’Isonzo. Poiché la guarnigione della città resiste, saccheggiano e bruciano i dintorni.

A Roma insieme alla peste dilaga il panico. Per formare in qualche modo un esercito (scrive G. Capitolino in Storia Augusta) Marco Aurelio arruola gli schiavi, arma i gladiatori, trasforma in soldati i briganti. Per la prima volta nella storia, l’Impero deve difendersi invece di attaccare, e questo in terra italiana. I popoli invasori vengono chiamati ‘barbari’, cioè gente che parla una lingua incomprensibile.

Da quel 167 le invasioni dei barbari si rinnovano periodicamente e non cessano più. I Goti (divisi in Visigoti e Ostrogoti) scendono a loro volta a devastare la Gallia, la Spagna, l’Africa, l’Italia. Sono a loro volta spinti alle spalle da un nuovo e feroce popolo barbaro: gli Unni di Attila, che verrà chiamato (per le sue tremende devastazioni) ‘il flagello di Dio’. Gli Ostrogoti si alleano con gli Unni e insieme devastano la Gallia. Gli imperatori che tentano di arrestare quell’immensa cascata di popoli sono sterminati insieme ai loro eserciti, da Decio nel 251 a Valente nel 378.
Roma saccheggiata

Il punto culminante di questo vero ‘tsunami’ della civiltà romana arriva il 24 agosto del 410. I Visigoti, comandati da Alarico, occupano Roma e la saccheggiano per tre giorni. Lo choc in tutto il mondo è gravissimo. Girolamo, il grande sapiente cristiano che per primo ha tradotto la Bibbia dall’ebraico in latino, scrive nella 127a Lettera: “La città che ha conquistato l’universo è a sua volta conquistata. La fiaccola del mondo si è spenta: L’Impero romano è stato decapitato”. Si ha la sensazione che sia la fine del mondo.

In Roma si verifica quello che si sta verificando in tutto l’Impero: la città si spopola, passa rapidamente da ottocentomila abitanti a duecentomila. I ricchi sono fuggiti il più lontano possibile, in Palestina, in Africa, a Costantinopoli portandosi dietro tutto quello che riescono a salvare. La gente comune è fuggita nelle campagne, e vive e muore nella miseria.

I popoli barbari vivevano di rapina. I cumuli di rovine che lasciavano erano terrificanti. Nel tempo delle ‘invasioni barbariche’ persero la vita o furono fatte schiave la maggior parte delle persone colte, che non ebbero discepoli, e quindi non poterono più essere sostituite. La vita regredì ad uno stadio primitivo e selvatico. L’agricoltura deperì, e il commercio fu quasi annientato. Gli agricoltori erano oppressi da tasse altissime, che le autorità imponevano per pagare i sempre più malcontenti soldati dell’esercito, e per versare enormi tributi ai vari capi dei barbari perché non scatenassero il saccheggio. Molti agricoltori finivano per consegnare la loro terra ai grandi proprietari, in cambio di difesa e di nutrimento per le loro famiglie. Non pochi diventavano briganti e vivevano di furti e di violenze. Alcuni si ritiravano in luoghi solitari, dove vivevano come ‘eremiti’, nella preghiera e nella penitenza, campando di erbe, di radici e di elemosine. A volte alcuni di questi eremiti si mettevano insieme, vivevano in piccole comunità. Venivano chiamati ‘monaci’ o ’cenobiti’.

Il 4 settembre del 476 fu scritta la parola ‘fine’ per l’Impero Romano dell’Occidente. A Ravenna (divenuta capitale imperiale) fu deposto l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo.

Ma a distanza di 4 anni, nella città umbra di Norcia nacque Benedetto, colui che avrebbe ridato vita a una nuova Italia e a una nuova Europa. Benedetto e i suoi monaci, con l’esempio e la parola, avrebbero incoraggiato la gente ad abbandonare la violenza e a tornare ad inginocchiarsi davanti al Dio della pace, a riaffondare con fiducia l’aratro nei campi, a portare i figli alla scuola.


San Benedetto da Norcia (480-560 circa) patrono d’Europa, fondato dei monachesimo d’Occidente (testo in 4 pagine)
Benedetto nacque a Nursia (oggi Norcia), presso Spoleto, da famiglia agiata e forse nobile. In Roma, umiliata dai saccheggi e gravemente spopolata, sopravviveva la grande autorità del Papa, e attorno a lui vivevano ancora illustri maestri. Benedetto fu mandato dalla sua famiglia a Roma, per compiervi gli studi. Ma nel centro della Cristianità, per la miseria e l’ignoranza, ricominciavano feste pagane e riti pagani, come i Lupercali, una specie di carnevale squallido e immorale che coinvolgeva gran parte del popolino, e contro cui si scagliava invano papa Gelasio.

Il suo illustre biografo, san Gregorio Magno, scriverà: “A Roma non trovò altro che giovani sbandati, rovinati dal vizio. Era ancora in tempo. Aveva appena messo un piede sulla soglia del mondo: lo ritrasse immediatamente…Abbandonò la casa e i beni paterni e partì. Desideroso di piacere a Dio solo se ne andò sapientemente ignorante e saggiamente incolto”.

Entrato nella valle dell’Aniene, si ferma ad Affile, poi risale ancora la valle fino a Subiaco, 75 chilometri a est di Roma. Passa tre anni in compagnia di un anziano eremita di nome Romano. La fama di questo giovane nobile che ha lasciato tutto per servire solo Dio nel silenzio e nella penitenza, si espande nei dintorni. Una comunità di monaci che vive a Vicovaro, sempre nella valle dell’Aniene, lo sollecita a diventare loro superiore. Benedetto accetta, ma impone loro una rigida vita di preghiera e di penitenza. Stanchi della sua severità, i monaci tentano di avvelenarlo, e lui si ritira.

A Subiaco, sempre secondo il racconto di Gregorio Magno, Benedetto fonda dodici piccoli monasteri in ciascuno dei quali vivono dodici monaci con un loro abate (‘dodici’, nella Bibbia, è il numero della perfezione dell’uomo). Egli rimane la guida spirituale degli abati. Questa fondazione attrae molte persone dalle zone vicine, e anche da Roma. Nella vita di Benedetto cominciano a verificarsi avvenimenti straordinari, veri miracoli. E’ sempre più circondato dalla venerazione dei suoi monaci e della gente.



Montecassino. Verso il 530 (ha cinquant’anni) Benedetto lascia Subiaco e va verso sud. Sceglie di fermarsi sulla montagna sopra Casinum, che verrà chiamata Montecassino. La nuova località è meno appartata di Subiaco, più aperta verso la gradi strade di comunicazione su cui viaggeranno i monaci portando il messaggio di civiltà e di rinnovamento di Benedetto da Norcia: Ora et Labora, Prega e Lavora.

Sulla montagna sorgeva un tempio pagano dedicato ad Apollo e a Giove. Benedetto eliminò i resti pagani e costruì il suo nuovo monastero. I primi monaci cominciarono a disboscare e a dissodare il terreno, regolarono i corsi d’acqua, seminarono. Appoggiandosi ai muri solidi del tempio, costruirono una piccola città di monaci. Per anni Montecassino vide crescere contemporaneamente il monastero e la famiglia spirituale di Benedetto. Molti giovani della plebe e della nobiltà salivano a mettersi sotto la guida di Benedetto. Egli fece sorgere anche un monastero femminile guidato da sua sorella Scolastica.

Cinque anni dopo il suo arrivo a Montecassino, l’Italia venne sconvolta da una nuova guerra che l’avrebbe devastata per 18 anni, la guerra greco-gotica. Dalla torre di Montecassino, Benedetto vedeva esercii passare e ripassare nella valle del Liri. I contadini che salivano a ondate verso il monastero, a domandare rifugio e protezione, raccontavano storie di desolazione e di morte. In quella guerra apocalittica, Montecassino rimaneva l’unica isola di pace, e Benedetto l’unica autorità riconosciuta dalla popolazione della zona.

Nel monastero, che si apre a tutti senza alcuna discriminazione, si vive concretamente l’ideale della solidarietà e dell’uguaglianza sociale. Il monastero – scrive R.Ferrarotti -, apre le sue porte ai bisognosi, agli affamati, ai perseguitati. Tutti i monasteri benedettini, a imitazione di Montecassino, diventeranno centri di accoglienza e di ospitalità

Quando ha circa 60 anni Benedetto, servendosi della sua ormai lunga esperienza e ispirandosi anche a precedenti regole monastiche, scrive la sua Regola. Essa brilla perché sa (a differenza delle Regole che esistevano precedentemente) contemperare severità e mitezza, e diventerà per molti secoli la strada su cui cammineranno i monasteri, che da Montecassino si svilupperanno in tutta l’Europa.

Benedetto morì (come si è scoperto da recenti ricerche) verso il 560. Di lui, poco prima di diventare papa Benedetto XVI, il cardinale Ratzinger disse: “In un tempo di dissipazione e di decadenza, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Benedetto, coma Abramo, diventò padre di molti popoli”.


La Regola. La Regola di san Benedetto, tuttora conservata e studiata, è suddivisa in un prologo e 73 capitoletti. Traccia dettagliatamente le norme secondo le quali si deve comportare una comunità di monaci.

I princìpi che caratterizzano la vita monastica sono tre: la stabilità (il monaco deve vivere costantemente nello stesso monastero), l’uguaglianza per tutti nei diritti e nei doveri, l’orario (che si divide in tre otto: otto ore di preghiera, otto di lavoro e otto tra cibo e sonno).

Il primo impegno del monaco è la preghiera in comune, il canto dell’ufficio divino distribuito in otto ore della giornata. All’obbligo della preghiera in comune si accompagna quello della lettura della Bibbia (lectio divina) e della meditazione.

Il secondo impegno è il lavoro. Benedetto rivaluta con forza il valore della fatica e dell'attività umana. Libera il lavoro dal disprezzo di cui il mondo romano l’aveva circondato affidandolo agli schiavi. Ne fa opera di uomini e di cristiani. “Ora et labora”, “Prega e lavora” è la vita normale del monaco.

Fu proprio il lavoro dei monaci che riconquistò le terre abbandonate e inselvatichite da guerre e devastazioni. I monaci trasformarono terreni incolti, selve, sterpaglie, paludi in campi e orti, dando vita a una grande quantità di aziende popolate di monaci-contadini. I monasteri ebbero così stalle, mulini, magazzini, granai, vigne, pascoli, boschi per la legna.

I monaci furono gli animatori e i maestri dei nuovi contadini. Alle popolazioni affamate insegnarono nuovamente a coltivare e ad allevare, introdussero nuove colture e n uovi sistemi di pesca. Costruirono strade e ospizi per i viaggiatori.

Il lavoro artigianale praticato nelle officine del monastero lentamente produsse nuovi strumenti agricoli, tessuti di panno, pelli conciate, infusi di erbe.

Il terzo componente della vita del monaco è il cibo e il riposo. Il pasto principale è il pranzo, consumato dopo mezzogiorno. Il cibo è consumato in silenzio, mentre un monaco legge alla comunità brani della Bibbia e dei Padri della Chiesa. Il riposo si divide tra quello della notte e quello di una lunga siesta dopo il pranzo.

Nella Regola viene illustrata a lungo l’autorità dell’abate. E’ un’autorità assoluta (come quella del padre di famiglia di quel tempo), ma temperata dalla fraternità e dalla dolcezza, che deve manifestarsi verso tutti, ma specialmente verso gli anziani, i malati e i giovanissimi. L’abate affida le varie mansioni ai monaci e controlla che tutto il monastero funzioni bene.
Monastero centro di cultura. Dalla caduta dell’Impero romano fino al 1200, i monasteri furono i centri culturali della cristianità. Nei monasteri nacquero le scuole per istruire i ragazzini affidati dai genitori alla comunità, che a loro volta diventavano monaci, e anche per istruire i laici che volevano imparare.

Oltre alle scuole, ogni monastero ebbe due elementi molto importanti per la cultura: la biblioteca e lo scriptorium. Nella prima si custodivano i libri che i monaci leggevano e su cui pregavano, e anche i libri salvati dai saccheggi dei barbari. Nel secondo alcuni monaci specializzati (amanuanesi) ricopiavano i libri prestati dagli altri monasteri. Su pergamena furono ricopiati libri preziosissimi, salvati dalle distruzioni o donati da principi che li custodivano nei loro castelli. Essi erano antiche Bibbie, Messali, ma anche capolavori dell’antichità (come le opere di Virgilio, di Orazio…) che solo in quel modo riuscirono ad arrivare fino a noi.



Le ricchezze e le riforme. Col passare dei secoli, i monasteri divennero sempre più ricchi, per le proprietà sempre più estese che accumulavano sia per il lavoro dei monaci, sia per le donazioni che ricevevano da re, principi, persone che li lasciavano eredi delle loro proprietà. Gli abati, poco per volta, invece di seguire Gesù che aveva predicato il distacco dalle ricchezze, divennero ricchissimi signori. I monaci abbandonarono la severa disciplina voluta da Benedetto.

All’interno stesso del grande Ordine Benedettino sorsero monaci che si ribellarono a questa ‘mondanizzazione’ dei monasteri, e chiamarono i Benedettini a ‘riformare la loro vita’, tornando alle norme fissate da Benedetto nella Regola.

La prima grande ‘riforma’ iniziò nel monastero di Cluny, in Francia, nell’anno 910. I monaci tornarono a una vita ispirata al Vangelo e alla Regola: preghiera, lavoro, silenzio, povertà, assistenza ai poveri. Ma anche il monastero di Cluny, col passare degli anni, divenne il centro di numerosi monasteri che divennero troppo ricchi e troppo potenti.

Duecento anni dopo sorse un altro riformatore, Bernardo di Clairvaux, che noi chiamiamo ‘di Chiaravalle’. Egli fondò nel 1115 il monastero di Clairvaux, e ne fu abate per quarant’anni, fino alla morte. Con i suoi monaci visse alla lettera la Regola di Benedetto, condusse una vita severa fondata su preghiera, studio della Bibbia, lavoro manuale e stretto digiuno. Richiamati dalla sua fama di uomo di Dio, molti chiesero di diventare suoi discepoli. I monaci di Clairvaux raggiunsero il numero di 700, e i monasteri fondati sotto la direzione di Bernardo in luoghi solitari e incolti, alla sua morte erano 68. Essi furono chiamati ‘Benedettini Cistercensi’.

Il grande fenomeno del Monachesimo è stato così condensato dallo studioso Ivan Gobry: “I monaci d’Occidente, servendo Dio con tutto il cuore, hanno servito abbondantemente gli uomini: praticando la vita spirituale che allontana dall’egoismo hanno prodigato a tutti il soccorso della carità; lavorando instancabilmente hanno fecondato la terra e fatto progredire la tecnica; amanti della Scrittura, maestra di fede, hanno dato sviluppo (alla scuola), alle lettere e alle scienze.. Non c’è stato nessuno che abbia fatto un bene maggiore all’Europa”.

Parte seconda

Dalle corporazioni alla grave crisi del 1500 e 1600 (2 pp)
Negli anni che vanno dal 1100 al 1400 si delineano importanti novità nel mondo del lavoro. Nelle città, dove aumenta considerevolmente il numero degli abitanti, i lavoratori si riuniscono in associazioni volontarie. Vengono chiamate confraternite, poste sotto la protezione di un Santo. I confratelli si aiutano, ma aiutano anche i bisognosi, li assistono se ammalati.

Queste associazioni lentamente si modificano. I tessitori, i panettieri, i fabbri, i calzolai… si uniscono in ‘associazioni di mestiere’, si danno un regolamento, proteggono i segreti del loro mestiere con giuramento. Noi le chiamiamo corporazioni, ma in quel tempo in Italia si chiamavano arti, in Francia guilde, i Inghilterra ghild, in Germania Guiden.

In ogni professione operai, piccoli artigiani, aiutanti, apprendisti, restavano strettamente sottoposti ai capi che venivano eletti . Questi capi giuravano sulle reliquie di un Santo di ‘proteggere la corporazione’ con lealtà. Il lavoro notturno e quello festivo erano vietati. L’orario andava dall’alba al tramonto, più lungo d’estate, più corto d’inverno.

Nel 1400 le corporazioni decadono. Lo Stato (sempre più impegnato in guerra costose) le condiziona, le sfrutta imponendo tasse che schiacciano i lavoratori.

Nel 1500 si amplia il libero commercio e il libero mercato (è stata scoperta l’America), decade il senso ‘religioso’ del lavoro. Chi è ricco impone forme di lavoro che sfruttano i lavoratori per accumulare nuove ricchezze. Nelle città e nelle campagne si diffonde una nuova povertà, con gente che per campare accetta qualunque salario.

“E’ noto il caso di Giovanni Boinebroke - scrive A.M.Baggio -: dava da lavorare agli artigiani locali (nella Francia del Nord) la lana che importava dall’Inghilterra, comprando poi il prodotto finito. Fornire materiale scadente e pretendere un prodotto eccellente faceva parte delle sue abitudini. Praticava un’usura spietata, imponendo il rimborso in prestazioni lavorative anziché in denaro, in modo tale che gli artigiani del suo giro somigliavano un po’ alla volta più a dei servi che a dei lavoratori autonomi. I comportamenti alla Boinebroke erano diffusi; un imprenditore come lui controllava tutta la catena produttiva”..

Nel 1500 e nel 1600 non arriva soltanto lo sfruttamento del lavoro. Con gli scontri continui tra Francia e Spagna, nell’Europa e specialmente in Italia (le cui regioni sono occupate ora dall’uno ora dall’altro contendente) arrivano tempi oscuri.

“Il Cinquecento e il Seicento sono secoli di guerre continue che portano con sé carestie e pestilenze. L’Europa è attraversata da una fiumana di derelitti, che trascinano un’esistenza allucinante. Profughi di vario tipo, disertori, mercenari, reduci dagli eserciti disciolti, vivandiere, prostitute, storpi e ciechi delle organizzazioni di mendicanti, disoccupati, gente che fuggiva dai debiti, furfanti veri e propri, falsi monaci e falsi pellegrini: mille diverse povertà si mischiano con gli artigiani itineranti, i pellegrini veri, i lavoratori stagionali, in un flusso continuo e spesso disperato. Per tutti un incubo comune: la fame. Nella dotta Padova del 1529, ci racconta il bolognese G.B.Segni, ‘ogni mattina si ritrovavano per la città 25 e 30 morti di fame sopra i lettami delle strade. Li poveri non avevano effigie umana’. Non esistono strutture pubbliche capaci di affrontare i mille bisogni insoddisfatti. E’ l’iniziativa cristiana che vi provvede. Quella di Girolamo Emiliani, per esempio, che per molto tempo aveva servito la Repubblica Veneta, in pace e in guerra. Convertitosi al cristianesimo, si diede a raccogliere ed educare gli orfani, lui che molti ne aveva forse procurati combattendo” (A.M.Baggio). O quella di Giuseppe Calasanzio, che vedendo le bande di ragazzi poveri e abbandonati della città di Roma afferma che “il male non proviene dall’istruzione ma dall’ignoranza ch’è tenebra, languore e quasi morte dell’anima”.

Questa affermazione – scrive Filippo Hazon - “sul piano storico è rivoluzionaria, tanto più che fa seguire alle affermazioni i fatti, compiuti con eroica virtù e fra difficoltà e asprezze senza fine. Il Calasanzio iniziò la prima scuola popolare gratuita, e deve essere considerato uno dei massimi riformatori ed innovatori del sistema scolastico. Accanto a quello di Girolamo Emiliani e del Calasanzio prendono vita i movimenti prodotti da una eccezionale fioritura di grandi personaggi le cui attività di assistenza e di educazione a favore della gioventù, promosse con genuino spirito evangelico, hanno dato vita ad ordini o congregazioni religiose tuttora fervidamente presenti e ad innovazioni profonde delle strutture educative”.

In questa seconda parte, tra questa ‘eccezionale fioritura’, scelgo nove ‘grandi personaggi’, e ne delineo il profilo.



Girolamo Miani (Emiliani), santo (1486-1537) Fondatore dei Somaschi (due pagine)
Guerra in terra veneziana. Quando gli eserciti di Germania e di Francia avanzarono nel 1511 contro la Repubblica di Venezia, a capo del piccolo esercito veneto a Castelnuovo del Friuli era il venticinquenne Girolamo Miani. Discendente di famiglia nobile, nominato castellano in luogo del fratello Luca, si comportò valorosamente, ma tradito e rimasto solo con pochi soldati, fu fatto prigioniero da Mercurio Bua. In carcere, ripensando alla sua vita e al disordine della sua condotta, si raccomandò umilmente alla Madonna venerata nel Santuario di S. Maria Grande di Treviso perché lo aiutasse. La Vergine gli apparve vestita di bianco, lo liberò e lo accompagnò sulla via per Treviso. Il libro dei miracoli del Santuario conserva il racconto dell’evento straordinario.

Gli orfani di guerra morivano. Lasciato il castello, ritornò a Venezia con l’idea di abbandonare ogni forma di attività politica e darsi completamente a Dio. Ebbe amorevolmente cura della cognata, vedova di Luca, e dei nipoti. amministrando senza alcun utile personale il commercio della lana di loro proprietà e maturando una radicale trasformazione spirituale. Deciso fu l’incontro nel 1527 con il vescovo Giampietro Carafa (il futuro Paolo IV), Gaetano Thiene e i primi Teatini, approdati a Venezia dopo essere scampati al sacco di Roma. Essi lo trascinarono in una travolgente attività per gli altri quando, durante la gravissima carestia dell’anno seguente, una folla di contadini affamati si riversò in città. Sfamò. vestì, ospitò il maggior numero possibile di poveri, vagado di notte per assistere gli infermi e seppellire i cadaveri abbandonati per le calli. In una baracca allestita dal governo veneziano accolse e soccorse un mondo cosmopolita di miserabili derelitti provenienti dalla laguna, dalla terraferma, dalla Schiavonia: centotre poveri nei quali il Miani riconobbe e servì Gesù Cristo. Superata l’emergenza, provvide ai fanciulli orfani mendicanti rilevando una bottega in prossimità di S.Basilio e poi a S.Rocco. Istituì per loro un’opera che rinnovava in modo originale l’assistenza veneziana e progettò la riforma della Chiesa realizzando una comunità modellata sulla Chiesa dei tempi degli Apostoli. Scelse la povertà assoluta con una donazione ai nipoti di tutti i suoi beni per seguire Cristo, rispondendo all’invito: “Se vuoi essere perfetto, va, vendo quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Non fu mai sacerdote.

Mentre era al servizio degli Incurabili, dal Carafa fu mandato a Bergamo per realizzare opere analoghe a quelle veneziane. Raggiunse la città con un gruppo di orfani nella primavera avanzata del 1532. Bruciando della carità divina, volle unire a Dio il maggior numero possibile di cristiani, incominciando dai bambini orfani, orfane vergini, e prostitute convertite. Nacquero delle scuola molto religiose, fondate sul lavoro, la devozione e la carità, in cui si attuava la riforma della Chiesa da tutti invocata. Il lavoro era uno dei tre pilastri che sorreggevano la formazione dei ragazzi. Dopo aver appreso i primi rudimenti erano collocati a padrone con strumento notarile che tutelava l’apprendistato di un mestiere. Accanto al lavoro, gli orfani imparavano a leggere e a scrivere e quel minimo di nozioni necessario per l’inserimento dignitoso nella vita sociale.

L’esempio della santa vita del Miani fu contagioso: coinvolse sacerdoti e laici a unirsi con lui a Cristo nella compagnia dei servi dei poveri, denominata dl popolo ‘i poveri del Miani’, fondata a Bergamo nel 1532: una confraternita senza voti, senza un superiore, con una organizzazione capitolare, in cui la povertà evangelica radicale e il servizio agli orfani rendevano visibile la consacrazione a Cristo. Parallelamente fondò una confraternita femminile per l’assistenza alle orfane e alle convertire. L’amministrazione economica delle opere la demandò a un gruppo di cittadini, riuniti a modo di religione. Come un incendiario diede vita a congregazioni di orfani a Somasca, Milano, Como, Pavia e Brescia. Da questa compagnia pretridentina avrà origine nel 1568 la congregazione dei padri Somaschi.


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