Dicembre 2016 e ditoriale



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ROBLEMI

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EDAGOGICI E

D

IDATTICI

Nuova Secondaria - n. 4 2016 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582

netico di Diudieus = Zeus, radicale della luce, del giorno

luminoso  dies, che è anche di Diana, l’astro luminoso

della notte. Antica fede indoeuropea della divinità della

luce, che squarcia le tenebre e dona la vita. E questi dèi,

espressioni di lontanissime fedi, cantileniamo ancora nel

nome dei giorni della settimana, con equivalenti imma-

gini, dal Nord al Sud d’Europa: es. Thorn, quindi Thur-



sday o  Donnerstag, con voce onomatopeica è dio del

tuono come Giove che nomina il corrispettivo giovedì. Gli

dei aprono il nome e rivelano la loro natura umana: Moon

(corrisponde alla nostra Luna che si forma su un radicale

della “luce”), MontagMonday, cfr. greco mene hanno la

stessa radice di latino mensis, cioè di me-tior, misurare:

l’astro che misura il tempo: i mesi appunto erano lunari.

Le ardite speranze dell’uomo amano nascondersi nel

cuore delle parole, in questa nostra anima (sp. alma, fr.

âme) che il radicale ci svela comune semplicemente con

il vento: cfr. greco ánemos, con il respiro, skr. ániti.



La ricchezza della riflessione linguistica

La riflessione linguistica, che coinvolge ogni aspetto

della lingua a partire dall’approfondimento etimologico

dovrebbe essere insegnata all’intera popolazione scola-

stica: non un dono per pochi, perché è crescita dello spi-

rito, della mente.

Va insegnato il piacere della lingua, la ricchezza di pensiero

che essa contiene, la magia della parola, del suono che ti

mette in relazione con il mondo: l’auxilium del latino è im-

prescindibile. E insegna a distinguere facilmente da subito

– a noi italiani e a tutti i parlanti lingue romanze o l’inglese

– le lingue analitiche dalle lingue sintetiche che si basano

sulla declinazione del nome, ancora viva nel tedesco e nel

russo (ma anche nell’uso dei nostri pronomi personali),

spiegando che il nome stesso di “declinazione” si configurò

per il popolo antico – di qui il nome – sull’ago della meri-

diana che scende con l’ombra del sole lungo il quadrante:

cfr. lat. casus, gr. ptosis. Caso cioè “caduta”. Dal casus rec-



tus (una contraddictio in termini già notata e superata), cioè

quello del nome nella sua funzione di soggetto, il Nomi-

nativo, ai casi obliqui, come il cadere del raggio. 

Le parole sono valige, diceva Armand Abecassis. E così

stiamo procedendo, secondo un metodo di grande moti-

vazione e interesse anche per i più giovani studenti.



Indagare i segni della scrittura

Ma già i segni della nostra scrittura, che provenendo dal

fenicio ci confrontano con le popolazioni più a Oriente,

allontanandoci da un postulato diverso, sono affascinanti

da indagare. Prima che si imponesse infatti il principio

acrofonico che avrebbe determinato la scrittura fonetica,

c’era l’immagine nel segno: facciamo solo qualche esem-

pio con l’alfabeto greco che è più trasparente: beta (= B),

cioè beth , la casa, la tenda (l’immagine del segno minu-

scolo β va coricata orizzontale), cfr. Betlemme; gamma,

“Gh” (pensiamo la lettera greca maiuscola Γ), cioè gamàl,

il cammello; mim, “m”, il mare in fenicio, ondine visibili

meglio nella ‘mi’ greca minuscola μ; aleph, il toro per cui

alfa (α minuscola che va guardata di lato, o rigirata) e la

nostra “a”, fu ideogramma aggiunto dai Greci quando pre-

sero in prestito ai Fenici un segno in disuso, nel mo-

mento in cui furono scritte anche le vocali.

Che meravigliosa scoperta quella di possedere il passato:

ricostruisce la famiglia, che non è solo quella indoeuro-

pea che si sarebbe sviluppata storicamente più unitaria-

mente, ma una “dimora” anche più ampia, così come vo-

leva Illič Svitič che sulla base di quanto sto dicendo

ricostruiva con il Petersen il “nostratico” (calco su Mare

nostrum) o lingua delle origini ricca di tutti quegli ele-

menti comuni alla macrofamiglia degli indoeuropei, se-

miti, camiti e ancora altri popoli, e in cui fu poi scritto quel

testo che all’inizio ho riportato in traduzione.



Layla e Maynun.

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Nuova Secondaria - n. 4 2016 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582

Miti e gesta epiche

E poi c’è la folata dei miti che va insegnata e che dalle ge-

sta epiche salgono sui palcoscenici, scivolano nella lirica,

accompagnano i colori della nostra mente, i segni del

cuore, che continua a ripeterli. Giulietta e Romeo che

giungono a Shakespeare attraverso i novellieri italiani

(Masuccio Salernitano, Luigi da Porto, Matteo Bandello)

ripetono anche nelle forme il mito dell’amore contra-

stato di Piramo e Tisbe che nella poesia di Ovidio si tra-

sfigurava nella metamorfosi e che a Oriente si faceva dopo

storia di Layla e Maynun: il poeta pazzo di lei (ma May-

nun è soprannome del pastore-poeta, e la base linguistica

indoeuropea ritrova il greco maìnomai, essere pazzo).

Tra Piramo e Tisbe e Laila e Maynun (nelle varianti arabe

e persiane) c’è sempre una parete a dividerli, sempre una

fessura che fa scivolare le parole d’amore, amori infelici,

contrastati dalle famiglie e rapiti comunque da morte. E

come dimenticare che la storia di Piramo e Tisbe stessi già

Ovidio la conosce avvenuta a Babilonia? 

Lo studio della letteratura comparata:

personaggi, simboli, novelle

Uno studio della letteratura comparata verticalmente (per

personaggi, per simboli e novelle) già nella secondaria di

primo grado, illuminerebbe il percorso di studi. 

C’è nelle contrade di lingua tedesca, come ricordava il

Norden e come posso testimoniare ancor oggi avendo ni-

poti che sono nati in terra elvetica di lingua tedesca, un ri-

tornello infantile che si ripete a scuola: «Schlaf, Kin-



dchen schlaf, der Vater hüt die Schaf, die Mutter

schüttelt’s Bäumlein, da fällt herab ein Träumlein». Eb-

bene si può senz’altro suggerire, come faceva appunto il

Norden, che questo albero dei sogni del Lied vada con-

frontato (non si trovano altre testimonianze coeve al

poeta) con quello che Virgilio (il poeta proviene dall’area

celtica) pone all’ingresso dell’Ade: l’albero dei Sogni

(altro era il popolo dei Sogni che abitava l’Ade omerico

nell’Odissea, posto tra le porte del Sole e il prato di asfo-

deli, Od. 24, 12). Virgilio, sul limitare degli Inferi, non

può che dare ai sogni l’inconsistenza dei somnia vana, so-

gni che sono collocati sotto a ciascuna foglia per assu-

merne il simbolo, quello della caducità, immagine in

tanta poesia antica e moderna dell’effimera vita umana

(Omero, Mimnermo, su, su fino all’imitazione di Leopardi

di Arnault, ma anche tra gli altri Ungaretti, Tjutčev). Vir-

gilio sembra anche conservare altra volta traccia proprio

dell’ancestrale culto degli alberi. Si tratta del vischio,

pianta magica particolarmente cara a tutta l’area celtica

come pure al Nord dell’Europa dove con i rami di vischio

viene ucciso, sì, il norvegese dio luminoso Baldr (Bæl-

dæg, dæg cioè dies) ma contemporaneamente essa ne

trattiene lo spirito divino, ne possiede il cuore vitale, e

continua tuttora nel rito, memoria di sacrificio e resurre-

zione, a bruciare nelle feste di mezza estate. Ebbene, il

ramo d’oro con cui Enea può aver accesso agli Inferi è la

stessa pianta che cresce con le sue bacche dorate senza

svelare le sue radici, pianta cioè magica, simbolo di im-

mortalità. Plinio il vecchio (anche lui proveniente dal-

l’area celtica) racconta che presso i Galli il sacerdote nel

sesto giorno della Luna, l’astro che misura il tempo –

come abbiamo già ricordato – tagliava con un falcetto

d’oro il vischio (viscum e nulla importano le specie del vi-

schio) dall’albero che lo sostiene. Seguiva un sacrificio di

animali cui si dava da bere il succo della pianta per la fe-

condità e contro i veleni. «Essi chiamano questa pianta

quello che guarisce tutto omnia sanantem» (n.h. 16, 249),

cioè proprio “vischio”, da confrontare con l’irlandese

moderno uileiceadh e il gallese oll-iach. La festa avveniva

certamente nel mese di novembre, all’inizio dell’anno cel-

tico. Così come noi ripetiamo il gesto augurale del dono

del vischio all’inizio dell’anno nuovo, dopo aver gettato

la sera prima cocci e roba vecchia dalle finestre, anche qui

ripetendo il gesto antico di cacciare un vecchio dal paese

inseguito da carabattole lanciategli dietro, che imperso-

nava l’anno vecchio, il vecchio Mamurio (Mamurio con

ripetizione popolare qui approssimativa della prima sil-

laba), cioè il dio Marte, dio italico dei campi e dei confini

(per cui diviene anche dio belligerante) che chiudeva un

ciclo e insieme dava inizio all’anno nuovo con l’avvento

nelle nostre contrade della primavera. Da Marte, il nostro

mese di marzo: MarsMarchMärz, russo Mart, il mese

che nel calendario che precedette la riforma di Giulio Ce-

sare era il primo dell’anno.

Su ogni mito, ricordo, rito possiamo indagare, vederne i

tanti volti, seguirli per ogni contrada che vi lascia sopra

Il vischio, simbolo di immortalità.

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